Il «testo» e la «storia»

di g.p.

Chi non si è appassionato a Furore? Quella lettura ci ha catturati come anni prima il Conte di Montecristo e ancor prima il Corsaro nero. Senza sapere che fra i tre c’era una bella differenza: uno scritto in inglese da un americano, uno scritto in francese, uno in italiano. Che ce ne importava? La storia ci appassionava e tanto bastava. Proprio Steinbeck l’eterno adolescente Alessandro Baricco menzionò nel 1999 quale esempio che lo autorizzava a disprezzare il lavoro della sua pur «buona traduttrice» tedesca Karin Krieger, sostenendo che il traduttore poco importa, «se il testo [sic: ma è citazione di seconda mano] è buono» (citata da Giulia Borgese sul «Corriere della sera», 19 maggio 1999). Recenti episodi testimoniano che da allora non si è affatto ravveduto: vedi http://www.cadoinpiedi.it/2012/02/08/caro_baricco_ti_scrivo.html. Noi invece (purtroppo?) siamo cresciuti. E abbiamo scoperto che Il Conte di Montecristo era un grande romanzo di intrattenimento; che Il Corsaro nero ci faceva sorridere inteneriti per la nostra ingenuità da ragazzi (e per quella del loro povero autore); che Furore ci faceva ancora commuovere, indignare e riflettere, ma incespicando a ogni pagina nello scarto tra la potenza della sua storia e certi bamboccismi o incongruenze o cadute stilistiche (e adesso Anna Tagliavini ci ha spiegato perché) del «testo». Il «testo» non era «buono» in nessun caso; la storia lo era in tutti e tre. Ma la differenza la sentivamo, in pratica, soltanto nel terzo.

Michele Mari ha scritto un racconto bellissimo sulla scoperta, fatta inaspettatamente da ragazzo, che sotto lo stesso titolo, La Freccia nera, si nascondevano due testi diversissimi che raccontavano la stessa storia: semplicemente perché si trattava di due traduzioni diverse dello stesso libro. Quel giorno forse finì la sua adolescenza. E forse quello stesso giorno, inconsapevolmente, cominciò a caricarsi della responsabilità di scrivere le proprio storie. Una responsabilità pesante, che Baricco non sente, come rivelano i suoi «testi».

Migliaia di lettori italiani si appassionano alle storie di «Harmony» o a quelle di Ken Follett o di Wilbur Smith. Non chiedono nulla al «testo» e non si chiedono perché suoni loro strana o innaturale la prosa che leggono, giacché comunque non vedono l’ora di voltar pagina, lasciandosi alle spalle i calchi sintattici di quella precedente e pronti, per amor della «storia», ad affrontare quelli della prossima. Le «storie» (non i testi) buone, è vero, reggono anche in traduzioni così così, di solito forzatamente frettolose, per quegli eterni adolescenti che sono i veri lettori di libri. Ciò non toglie che se avessero tra le mani un testo italiano che chi l’ha scritto potesse aver meditato e lavorato con ogni cura, lo leggerebbero dieci volte più volentieri. Senza nulla togliere alla storia, anzi.