Reminiscenze e borbottii / 3

Il vecchio lettore

Una grande lingua colta, una grande tradizione letteraria e artistica, un patrimonio culturale e artistico tra i più grandi dell’umanità. Tutte palle al piede per il futuro dell’Italia. E della Francia, e della Germania. Ma più per l’Italia, ché più antica e più continua e prolungata è stata quella tradizione, più ricco è quel patrimonio. La tempesta di transizione epocale apertasi con gli anni settanta del secolo scorso, e che non possiamo sapere quanto si protrarrà, giunta oggi a un tornante decisivo è destinata, a meno di impennate imprevedibili, a travolgere la grande cultura europea di cui, perché fondata sull’umanesimo, l’Italia e l’italiano sono stati pilastri indiscussi. Al momento, un sintomo è la comprensibile e durissima resistenza che l’italiano oppone all’adozione dell’inglese nella produzione scientifica, soprattutto in campo umanistico. In altri campi, infatti, la resistenza è minore: la notizia più recente, al riguardo, è che il Politecnico di Milano ha deciso di imporre ai propri laureandi di redigere in inglese la tesi di laurea magistrale. In Olanda la letteratura accademica e scientifica viene prodotta ormai da quasi vent’anni in quella lingua che per convenzione chiamiamo inglese. Ma che ha mai prodotto nella sua storia il neerlandese?

Ora il meccanismo della valutazione qualitativa della ricerca, imposta in ambito accademico ormai in tutta Europa, comporta pressoché inevitabilmente l’adozione della lingua inglese per tutta la saggistica, anche quella umanistica. In tal senso esortava i colleghi lo storico Paolo Pombeni sull’inserto domenicale del «Sole 24 ore» del 18 marzo scorso: fondatamente e comprensibilmente, ma senza alcuna espressione di timore per le sorti della nostra lingua come veicolo culturale. Come per un fato, un destino ormai segnato, su cui non è nemmeno il caso di spendere una parola di riflessione. Come nel caso di un cavallo azzoppato, ineluttabilmente destinato all’eutanasia.

Ma il vecchio lettore non vedrà la morte dell’italiano, e probabilmente neanche i suoi nipoti. E se ne consola.

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C’è traduzione e traduzione. È capitato a insigni traduttori – un caso è quello di cui col suo garbo racconta Susanna Basso nel suo Sul tradurre (Bruno Mondadori, Milano 2010, p. 152) – di sentirsi chiedere di fare da interpreti nelle più svariate occasioni, perché «tu che sai l’inglese…», e di sentirsi del tutto impreparati a, letteralmente, trovare le parole all’istante per dire quello che udivano dal personaggio da interpretare. Perfino tra persone di media cultura si fa confusione tra ambiti professionali del tutto distinti e diversi: tranne rare e significative eccezioni (di cui abbiamo un esempio in questo stesso numero della rivista), un ottimo interprete può essere un pessimo traduttore e chi traduce con competenza e perfino passione documenti finanziari o medici si trova del tutto disarmato di fronte alla pagina di un qualsiasi narratore. Persone in grado di parlare, leggere e talvolta anche scrivere anche più lingue, in quanto trasmettitori delle loro conoscenze linguistiche incontrano limiti professionali superabili solo da pochi.

Nell’equivoco si cade facilmente. Capita anche agli addetti ai lavori. Qualche tempo fa uscì un libro dal titolo involontariamente ingannevole: L’industria della traduzione. Realtà e prospettive del mercato italiano, autore Gianni Davico (Seb 27, Torino 2005). Solo in una fuggevole parentesi l’autore avvertiva nell’introduzione che dalle sue informazioni e raccomandazioni è esclusa quella che lui chiama «la traduzione letteraria», intendendo evidentemente quella editoriale. Per lui «l’industria della traduzione» si esaurisce in quella che, vedremo tra poco, noi chiameremmo business, la quale, nell’insieme della vera e complessiva industria della traduzione, conta in realtà solo relativamente. Il che non gli impedisce di fare poi un po’ di confusione nell’esaminare i singoli aspetti del lavoro, chiamando occasionalmente in causa figure professionali (per esempio, l’editor) che appartengono piuttosto al mondo editoriale che a quello delle libere professioni e delle imprese.

Vediamo di mettere provvisoriamente un po’ d’ordine, nella speranza che magari qualche lettore eventualmente corregga e precisi ancor meglio. Prima di tutto occupiamoci delle distinzioni che chiameremo “orizzontali” o tecniche.

Distinguiamo in primo luogo fra traduzione orale (o interpretazione) e traduzione scritta. Già nel primo ambito, coperto professionalmente dall’interpretariato, ci sono prestazioni diverse. Le differenze sono dettate dalla destinazione. Fra tali prestazioni i professionisti per solito si muovono tutti con disinvoltura: interpretazione simultanea (più interpreti traducono appunto simultaneamente, ciascuno in una lingua diversa, quel che odono dire “in cuffia”, trasmettendolo alla cuffia degli uditori in una platea plurilingue: è il caso, per esempio, dei convegni); interpretazione consecutiva (l’oratore straniero si interrompe ogni tanto per permettere all’interprete di esporre nella lingua prevalente nell’uditorio quanto egli ha detto fin lì); whispering (o chuchotage, una parola francese che prima in francese non esisteva), che in italiano dovrebbe chiamarsi interpretazione sussurrata (ma nessuno, ovviamente, lo fa): l’interprete bisbiglia in simultanea all’orecchio di un unico fruitore la traduzione di quanto viene detto da altri interlocutori a lui stranieri nel corso di una riunione ristretta.

Ma nella traduzione scritta le differenze sono molto più marcate ed è rarissimo, al contrario che nell’interpretariato, il caso di passaggio da un ambito all’altro. La principale è quella fra traduzione che chiameremo “d’affari” (o, come inevitabilmente già l’abbiamo chiamata sopra, business), traduzione che chiameremo “viva” e traduzione editoriale. La prima può andare dalla traduzione di corrispondenza a quella di lunghi articoli (o paper), raramente destinati alla pubblicazione, ma piuttosto utilizzati privatamente dal committente (individuo o azienda che sia), o di brochure (o opuscoli; per esempio i manuali di istruzioni per l’uso di apparecchiature domestiche). Per traduzione “viva” intendiamo quella di testi teatrali destinati alla rappresentazione, dialoghi cinematografici, programmi televisivi. La traduzione editoriale, oggetto privilegiato di questa rivista, si occupa invece di testi destinati alla pubblicazione a stampa.

Ci sono poi le distinzioni “verticali”, ossia di argomento. Nessun traduttore è in grado di comprendere e tradurre qualsiasi argomento o tema. Quindi non vi sono solo gli specialisti in traduzioni (o interpretazioni) tecniche e quelli in traduzioni scientifiche, ma all’interno di questi ambiti vi sono ulteriori specializzazioni, d’altronde ovvie ai nostri tempi, in base ai diversi linguaggi tecnici e scientifici adoperati nelle singole materie.

Ma la stragrande maggioranza dei titoli pubblicati in volume offre prodotti di due grandi famiglie: saggistica e narrativa (ecco che finalmente incontriamo la traduzione propriamente letteraria).

Per la prima vale quel che abbiamo appena detto in fatto di specializzazioni, ma vi sono materie saggistiche, quelle di carattere umanistico (la critica artistica e letteraria, la storia, la filosofia ecc.), che consentono a molti traduttori professionisti di passare agevolmente da una famiglia all’altra. Tuttavia essi per lo più tendono a specializzarsi. E la specializzazione concerne non soltanto la traduzione di saggistica, per la quale occorrono ovviamente le competenze nella materia di cui tratta il libro che viene tradotto, ma anche la narrativa, in cui occorre ulteriormente distinguere i generi letterari (romanzo generico, romanzo storico, “giallo”, “noir”, fantascienza, “rosa”, New Age, fantasy, per bambini, per ragazzi ecc.). Talvolta non è il traduttore a scegliere, ma se un suo lavoro particolarmente buono è stato prodotto affrontando un determinato genere, è facile che quel genere gli resti per così dire appiccicato, inducendo da quel momento in poi gli editori a cercare proprio lui quando hanno bisogno di chi possa tradurre un’opera caratterizzata in quel modo. E non è che i traduttori possano fare sempre gli schizzinosi, dicendo: «No, guardi, io volevo tradurre Shakespeare».

A proposito. Qui entra in campo un’altra fiera distinzione da fare all’interno della traduzione editoriale, cioè – come si diceva sopra – destinata alla pubblicazione a stampa: quella fra traduzione accademica e traduzione per il mercato. La prima può avere per oggetto qualsiasi testo letterario, ma ha carattere scientifico, nel senso che, rivolta soprattutto a un pubblico di specialisti o per lo meno di studiosi (e studenti), è per solito corredata di ampi saggi introduttivi, di note esplicative e critiche e di indici particolareggiati, cose che tutte insieme assumono la denominazione di «apparato critico» (o semplicemente apparato) e che di norma spaventano il cliente di libreria. Per essere scientificamente attendibili, queste opere devono anche avere il testo originale “a fronte”, ossia sulla pagina pari (a sinistra), mentre la traduzione corre sulle pagine dispari (a destra). È evidente che solo di rado – quando cioè si tratta di testi che possono essere adottati nelle scuole e/o nelle università (rientrando così, di fatto, nella categoria dell’editoria scolastica, che è un mondo del tutto a parte, in cui la traduzione fa capolino solo in questi casi eccezionali) – questi libri hanno un riscontro commerciale positivo. Nella stragrande maggioranza dei casi, invece, o sono prepagati, nel senso che una qualche istituzione – per motivi suoi, talvolta insondabili – ne garantisce a priori l’assorbimento di un numero di copie tale da superare il break-even, cioè il pareggio dei costi di produzione, lasciando un qualche margine all’editore, o vengono prodotti da una grande o media casa editrice per motivi di prestigio, ovvero, come si dice nell’ambiente, «per il catalogo», pur sapendo che non ne trarrà profitto, ma investendo in immagine, per mostrare che non vuole solo far soldi. Come diceva Oscar Wilde a proposito dell’ipocrisia, «è un omaggio che il vizio fa alla virtù». E che fa contenti alcune centinaia di lettori e di lettrici che, pur non accademici né studenti, amano avere tra le mani un buon classico, scientificamente curato. Talvolta capita perfino che il libro venda anche bene.

Un caso a sé è la traduzione di testi poetici. Se non è svolta con intenti accademici, in cui in fondo ha un compito meramente “di servizio” alla comprensione del testo originale, vero protagonista, si tratta in genere di esercizi di stile, di vere e proprie opere autonome di poeti o aspiranti poeti, in cui – come avvertiva non a torto Franco Fortini – il testo originale viene a essere, se non un inutile ingombro, praticamente superfluo. È evidente che tali opere di traduzione trovano la via della pubblicazione presso un “vero” editore soltanto se il loro autore è abbastanza rinomato da presentarsi per l’editore come un investimento “per il catalogo”.

Per concludere tornando a noi, il mestiere del traduttore editoriale è quello di chi compie traduzioni che devono andare sul mercato ed essere vendute, generando onesti guadagni, oltre che per il traduttore stesso, anche per tutti coloro che lavorano nella filiera del libro. Senza di che, sarebbe impossibile produrre altri libri, e quindi altre traduzioni. Di questa vera industria della traduzione nessuno mai ha valutato l’impatto economico.

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Onore al merito. Brontola tanto con gli editori, il vecchio lettore, per l’incuria verso i traduttori, che quando ne incontra uno più attento, lo segnala volentieri. Si tratta di minimumfax, che da qualche tempo, nel secondo risvolto di copertina dei libri d’autore straniero, dedica due righe di presentazione a chi ha compiuto la traduzione. Qualcosa di analogo fa la piccola e meritoria Keller di Rovereto (per intenderci: la casa editrice che ebbe il fiuto di pubblicare Herta Müller prima ancora che vincesse il Nobel), la quale pubblica nel suo sito una nota sulla traduzione di ciascun libro tradotto, stesa da chi ha svolto il lavoro. Piccoli passi avanti, che speriamo abbiano imitatori. Potrebbe intanto prendere esempio la Einaudi, visto che il suo direttore editoriale, nel presentare, all’inizio di quest’anno, la ripresa della gloriosa collana «Scrittori tradotti da scrittori» in edicola insieme col quotidiano «La Stampa», ha ricordato, in apertura del primo volume, Il Processo kafkiano di Primo Levi, che il fondatore diceva, «proprio commissionando traduzioni agli scrittori», che i traduttori «sono come gli scrittori, anzi, sono scrittori a pieno titolo: la traduzione è un’arte» (il corsivo è nel testo). Le abbiamo lette e sentite tante volte, queste gratificanti dichiarazioni: sarebbe bene che ogni tanto fossero seguite da fatti concreti. E non solo quando i traduttori sono scrittori di chiara fama.

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I giovani lettori risparmiavano sul biglietto del tram. Non si rendevano conto che poi, comunque, dalle povere tasche di casa si sarebbero dovuti sborsare i soldi per risolare le scarpe (per comprarne di nuove si aspettava che la crescita del piede lo imponesse col cambio di misura). Attraversavano letteralmente tutta la città: da piazzale Baracca a Porta Venezia, da Porta Venezia a San Pietro in Gessate passando da piazza Cavour, per poi tornare passo passo a largo Cairoli: da una bancarella all’altra, cercando non libri rari, ma libri che fossero alla portata del loro magro borsellino. Negli scaffali del vecchio lettore sopravvivono tuttora – dopo traslochi e tempeste della vita – alcuni frutti di quegli acquisti lontani, alcuni succosi e più volte letti e riletti. Uno, ora, lo incuriosisce più di altri: un Così parlò Zarathustra, pubblicato a Piacenza dalla Casa Editrice Apuana nel 1937-XV, nella «Seconda edizione riveduta e corretta dal prof. A.M.». Chi era questo A.M.? E perché, autore – segnalava la copertina della prima edizione (1935) – di una «nuova traduzione dal tedesco» di quel testo, non si rivelava? E come mai Piacenza aveva dato alla luce entro quella data ben quattro altre edizioni del vangelo nicciano presso altrettante case editrici diverse, su dieci complessivamente pubblicate in Italia?

In quelle peregrinazioni i giovani lettori erano ciechi d’altro che di libri. La città mutava, dalle rovine della guerra agli splendori del boom, ma loro erano troppo infervorati a discutere di Dostoevskij e di Mann per accorgersene. Poi, di colpo, ebbero qualche soldo in più, la patente e, talvolta, il permesso di usare l’auto di papà. E allora non andarono più per bancarelle, ma per ragazze.

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Ci sono traduzioni che hanno segnato una generazione, che le ha attese come una liberazione. Einaudi, per fortuna, mise a disposizione la Ricerca proustiana già abbastanza presto, dopo la guerra, a partire dal 1946 (ma, lo si è detto, i giovani lettori non vi ebbero accesso che più tardi). Quanto si dovette aspettare l’Ulisse, invece! Mitico in ogni senso. Intraducibile, si diceva. Lo si attendeva di anno in anno, promesso da Mondadori. E finalmente la traduzione di De Angelis uscì: guai a chi ne parlasse male, oggi! Sarebbe ingratitudine infinita. Un’impresa comunque eroica (per intenderci: più di quella di Finnegan’s Wake, esercizio crittografico pressoché fine a se stesso). Ora, a cinquant’anni circa di distanza, ne abbiamo una nuova, di Enrico Terrinoni per Newton Compton, certamente più aggiornata e meno seriosa. Ma il vecchio lettore probabilmente non la leggerà: un po’ perché nel non molto tempo che gli resta ha mille altre cose da leggere e rileggere; e un po’ perché ha dentro di sé il suo amatissimo Joyce. Quando uscì De Angelis, infatti, il giovane lettore volle imporsi di essere all’altezza. Si era già procurato l’originale. Si mise a tavolino e collazionò. Le distrazioni erano molte, per gli stentati studi ufficiali, per le pulsioni ormoniche, per le tensioni politiche e sociali: nihil a me alienum. Non andò oltre un centinaio di pagine, allora, completando la lettura nella sola versione italiana. Si rifece più avanti negli anni, fino a leggere l’originale per intero e trarne la conferma che si tratti di una pietra miliare del canone, volutamente dimenticata dagli attuali cultori di una pratica letteraria facile e corriva.

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Non si deve dimenticarlo: il grande maestro era Mann, ovvero l’umanesimo. Era lui che rischiarava il torbido secolo di cui si era appena cominciato ad attraversare la seconda metà, lui che ci prometteva che una luce c’era, in quel torbido: bastava volerla tenacemente e tenacemente cercarla. Dostoevskij, Kafka, Rilke, Proust, Joyce (Musil lo si sarebbe letto dopo) ci aiutavano a capirlo, ma lui – sapendoli, sapendo tutti loro – lo illuminava. Forse non era il più grande? Chissà: poco importano le classifiche (che poi dipendono da ciò che si cerca, da ciò che ciascuno si aspetta dalla lettura). Importa che, in quel momento, qualcuno sapesse dirci: profondo è il pozzo del passato, e tu sei destinato a ripeterlo; guardalo bene, quindi. Che lo leggano, il vecchio Mann, oggi dimenticato, i giovani lettori d’oggi persi dietro ai polizieschi e alla fantasy.

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Marx è morto, Freud è morto, ma anche Linneo, anzi von Linné, non si sente troppo bene. Dal 1° gennaio del 2012 nella classificazione di piante e animali la lingua ufficiale da adottare è l’inglese, non il latino, ingombro inutile e macchinoso. Scelta del tutto condivisibile della comunità scientifica internazionale, ma dal sapore minaccioso. Il latino è una lingua morta (e probabilmente questo sarà il colpo definitivo che la seppellirà, dopo la sua ormai cinquantennale abolizione dalla liturgia cattolica) e per ciò stesso se non super partes, pardon: al di sopra delle parti, estranea alle parti, rispondente così a quel requisito dell’obiettività che costituisce un mito, ormai superato ma sempre influente, della ricerca. L’inglese è lingua viva; e in molte parti del mondo non amata, per il carico di gendarmeria imperiale che la affardella. Vero è che si ritiene che quelle parti del mondo siano ininfluenti in campo scientifico. Ma così il carico imperialistico è ancora più greve.

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Il passato? Dell’azzeramento della storia imposto dal Grande Fratello attuale (oh, sia chiaro: non si parla qui di un popolare reality show che ha usurpato questo titolo; si intende qualcosa che immane sulla nostra vita come su quella dei personaggi di 1984 di Orwell, così diverso da quello ma tanto più concreto e squallido, ancorché subdolo) per meglio modificare a proprio vantaggio il passato e farci accettare un minaccioso presente, fa parte la cancellazione delle storie letterarie e della filologia dagli insegnamenti universitari. Si preferisce che gli studenti si perdano nell’immediatezza del parlato e nei fumi delle «strategie narrative», delle teorie traduttologiche. Le lingue sono cariche di storia, sono cariche di passato, sono cariche di tradizione, sono cariche di contraddizioni, sono cariche di umanità viva e sanguinante. Come si fa a tradurre senza conoscere da quali remote profondità sono giunte a noi, e per quali vie tormentate e magiche, le parole, le immagini, le consuetudini verbali, le stesse costruzioni, i tic linguistici? Ecco la metafora che sfugge, la similitudine ammiccante a un sostrato letterario ignoto, la citazione impalpabile, lo slittamento recondito di senso della parola. Ecco le biforcazioni semantiche davanti alle quali si sceglie in base alla strada che si è fatta sino ad allora. Certo tutto ciò richiede attenzione, studio, riflessione: richiede fatica. Ma ripaga e fortifica. Difendetevi dal Grande Fratello, o giovani: il vecchio lettore vi esorta alle istorie.