Traduzioni e traduttori

Alberto Spainidi Alberto Spaini

Si usa lamentare che in Italia non si conoscono le letterature straniere e le traduzioni sono scarse. A torto. Specie negli ultimi vent’anni, anche durante la guerra, si è tradotto molto, da noi. Invece sarebbe giusto dire che il sistema seguito dagli editori per diffondere le traduzioni, è stato pessimo; e che lavori molto pregevoli, sono rimasti quasi sconosciuti.

Il sistema preferito è quello delle collezioni. Buone, mediocri e cattive – ma quasi tutte buone o discrete – ne abbiamo qualche dozzina, di collezioni. Il più son volumetti sulle cento pagine, che prima della guerra andavano a una lira. Quando l’uso incominciò, andava bene : facilmente si combinavano un paio di dozzine di opere, delle più varie letterature, che rientravano nella piccola mole di queste collezioni.

Oggi, invece, una scelta in questo senso è più difficile; e allora si impongono inesorabili le scelte, sem­pre detestabili, oppure bisogna spezzettare un’opera in tre, quattro, cinque volumetti; antipatici ai lettori e al traduttore, che vede il suo lavoro mandato in pillole.

Oramai è tempo che gli editori si faccian corag­gio e, sorpassato il momentaneo terrore che dilania i mercati delle carte, se vogliono darci qualcosa di buono accostino i volumi di 900o di 1000 pagine e le serie di opere complete.

Ci sarà certo un leggero rischio; ma sappiamo che oggimai in Italia i libri si comprano assai più di sei anni fa; e d’altra parte il maggior rischio che presentano le opere singole in confronto delle collezioni, è compensato dalla possibilità di una grande tiratura, che le collezioni non hanno mai.

Con ciò non si intende dire che le recenti colle­zioni iniziate dal Vallecchi e dalla Libreria della Voce, o quelle continuate dal Carabba, dal Sonzogno e dal Sansoni, non siano una buona cosa. Ma c’è da far meglio. Poiché il pubblico mostra desiderio di comprare, bisogna offrirgli qualcosa; qualcosa di nuovo, di completo, che si possa veramente vantare come un’opera di arte e di cultura.

Un altro guaio sono i traduttori. Il sistema delle collezioni permette che accanto a un buon lavoro vada con pari fortuna in commercio una qualsiasi appros­simativa sovrapposizione di parole e frasi del testo originale, con una ridicola preoccupazione di dare la sfumatura verbale, materiale direi, del testo, e non l’equivalente italiano. Molto spesso, e in ispecie nelle tradu­zioni dall’inglese o dal tedesco, si ha modo di osservare questa pavida ossequienza al testo, la quale ha impe­dito al traduttore di “ripetere in italiano il significato” del periodo originale, costringendolo invece alla improba e fatalmente sterile fatica di mostrare com’è fatto il periodo stesso, fallendo così ad un tempo a tre scopi: comunicare il senso, scrivere in italiano, e far sentire infine lo stile peculiare dell’autore.

Ma il fatto strano si è che questi difetti si de­vono riscontrare in tutti i traduttori, anche in quelli che possono passare come scrittori e stilisti nella pro­pria lingua, a cui si sa di non poter rimproverare scar­sa conoscenza della lingua tradotta. Un esempio incli­to lo offre Benedetto Croce, le cui traduzioni dal Goethe saran rinfacciate sin nella Valle di Giosafat. Ma per mostrare quanto l’origine di questo non saper tradurre sia fondato, basti aprire l’ultimo numero di «Critica» e si esplicita in italiano un brano di Thomas Mann riproducendo con «artisticismo» la parola Künstlertum.

Qui il traduttore appunto non ha saputo staccarsi dalla parola nuda, dal suo suono esteriore, dalla sua e­timologia, ed ha perduto così di vista il vero significato del vocabolo, così cospicuo e corrente nella sua lin­gua, piantando al suo posto quell’artefatta imitazione che non vuol dire nulla.

Ed è proprio il Croce che potrebbe spiegarci per­ché in Italia si traduce così male. Egli ci potrebbe ripetere che un’opera d’arte, nel suo assieme come nei suoi più piccoli particolari, non è riproducibile in una lin­gua straniera; ma solo è possibile creare, al suo posto, un’altra opera, che tanto più renderà il suo spirito quanto si discosterà dalla prima. Forse le traduzioni più fedeli sono i rifacimenti, quelli che cinquant’anni fa si usavan chiamare tradimen­ti.

La Casa Editrice La Voce ha iniziato ora una nuo­va collezione di intendimenti divulgativi, che chiama il «Libro per tutti». Sono usciti sin ora quattro interessanti volumetti : Il vaso d’oro di Hoffmann; Novelle per ridere di Arnim; La felicità domestica di Tolstoi e il Diario del Rycroft di Stevenson.

Clemente Rebora, traduttore della Felicità dome­stica, si è accinto al suo compito in maniera che noi non riusciamo proprio a comprendere né a giustificare. Un anno fa il Vallecchi aveva pubblicato alcune novelle di Andreef (Lazzaro) da lui tradotte, e c’era già da restare impensieriti. Le poesie del Rebora non lo raccomandavano certo come traduttore. La caratteristica principale del suo stile è quella di forzare il senso delle parole fino a traslati e a iperboli, che non aiutano certo a compren­derlo e a sentirlo. Comunque egli è astruso, inquietante, e ci vuol pena a penetrarlo. Forse da Mallarmé o dal più terribile Rimbaud egli potrebbe ricavare qualche complicazione non del tutto estranea all’originale. Forse potrebbe anche dare un’impressione abbastanza approssimativa della poesia cinese. Ma dei russi, fin adesso avevamo l’idea che fossero novellatori piani, nemici di ogni ribobolo, che raggiungessero le loro grandezze drammatiche solo con una grande semplicità e limpidità di stile, quasi direi con un mormorante buon gusto.

L’Andreef presentatoci dal Rebora era invece un Oscar Wilde folgorato ogni tanto da pietosi ottenebramenti. Egli deve conoscere il russo in un all’incirca assai riprovevole, e segue passo passo le parole senza intenderle tutte: su questa monca frase moribonda egli appiccica poi i modi di dire più inusitati e le parole più ridicole di vasta risonanza.

Ma quello che ci faccia solo scrollare le spalle per Andreef ci indigna per Tolstoi, di cui pubblica o­ra La felicità domestica (Il libro per tutti N. 3, Libreria della Voce, Roma). Sebbene, come dicevo, sulle poesie del Rebora si possano fare le riserve maggiori, egli è tuttavia scrittore tale da non comprendere come si sia potuto ostinare nella sistematica, ridicola parodia linguistica che rovina interamente questa traduzione. Il peggio è che essa tradisce ad ogni parola lo sforzo di fare un lavo­ro eccezionale, fuori dal comune e sbalorditivo. Ne siamo sbalorditi in realtà. Ma non credo che Tolstoi sia stato peggio trattato in quelle versioni italiane di cui il Rebora dice: «credo ce ne siano un paio, di cui la più famosa o infame è quella che, con civetteria da edicole, fa l’occhiolino alle esistenze mal maritate con questo titolo di richiamo: Il romanzo di un matrimonio».

Un buon traduttore è invece Carlo Linati. A dir vero gli sono meglio venute le opere teatrali di W.B. Yeats, Lady Gregory e J.M. Synge (pubblicati dallo Studio Ed. Lombardo di Milano) che queste narrazioni di Stevenson, e Bussano alla porta di Macbeth del De Quincey (pubblicato dal Vallecchi).

Il Linati scrittore va rapidamente raggiungendo una grande libertà di stile, che assai gli giova in queste traduzioni ed è caratteristica in lui appunto la sicurezza con cui abbandona il puntello del testo e si avventura in un rifacimento italiano radicale del significato. Si potrebbero forse rimproverargli alcune leziosaggini, alcuni troppo graziosi modi di dire con cui cerca di rendere in italiano peculiarità intraducibili dello stile inglese; preziosità, specie sintattiche, che disturbano specie in uno scrittore così lineare nella sua grandiosità come lo Stevenson.

Ed a proposito dello Stevenson vanno ricordate le veramente belle traduzioni che da un anno in qua pubblica Emilio Cecchi nella «Ronda». Soprattutto i brani dello Stevenson del numero dello scorso marzo. La lingua che il Cecchi usa traducendo non è per nulla diversa da quella dei suoi scritti originali; ed è qui la riprova maggiore per un traduttore.

Ma in fatto di traduzioni, la palma è ancora te­nuta in Italia dall’università. Forse perché fuori dalla coscienziosità accademica è impossibile conoscere u­na lingua straniera con la intimità indispensabile per una buona traduzione; e soprattutto forse perché solo gli studi umanistici possono formare quel linguaggio difficile e preciso, solenne ed utilizzabile ad un tempo, che occorre per seguire elegantemente un testo stranie­ro. Così la palma delle traduzioni più recentemente pubblicate va al Protovangelo tradotto da E. Pistelli (Carabba, Lanciano) e all’Iliade tradotta da N. Festa (N. N.).