Un dilettante alla corte dei classici

LIBERE NOTE SU EDITORIA E TRADUZIONI DI TESTI GRECI E LATINI

di Mario Marchetti

iliadeNon sono uno specialista, certo no, ma un lettore appassionato di classici sì. Questa rivista affronterà, più in là – e cercherà di farlo con la consueta acribia -, anche il problematico terreno della traduzione dei classici, per così dire minato da una soffocante e nello stesso tempo ricca tradizione che ne ha fatto il dominio privilegiato di studiosi, attenti più alla filologia che non al lettore e particolarmente timorosi delle critiche dei loro pari.

Ma intanto occorre subito aggiungere che sono tramontati i tempi in cui gli autori classici erano effettivi maestri di vita che compenetravano a fondo il sistema di pensiero delle persone colte. Per limitarci solamente a pochi e noti esempi, non sarebbe concepibile la Dichiarazione d’indipendenza americana senza la linfa classica che aveva nutrito Thomas Jefferson (e non solo lui), né sarebbero pensabili giacobini, e girondini, senza di essa. Robespierre, Saint-Just – l’arcangelo della Rivoluzione o, come taluni preferiscono, l’angelo della morte, per il quale Sparta era un lampo di luce nelle tenebre della storia -, e madame Roland, la pasionaria girondina, lo stesso Napoleone (certo con qualche variante imperiale!) e perfino Charlotte Corday, accanita lettrice di Plutarco, agivano su un palcoscenico che era sì la Francia loro contemporanea ma che aveva come faro le tradizioni eroiche, repubblicane e anche mitiche della Grecia e di Roma. Per tutti costoro – come per Montaigne, con i suoi sia pur modernissimi Saggi, per non citare Leopardi, la cui poesia e le cui Operette morali sono inconcepibili senza i “remotissimi” antichi, ovvero senza “l’oro di Omero”, come qualcuno ha detto splendidamente (Lonardi 2005) – i classici erano loro contemporanei spirituali, la Roma repubblicana, Atene e Sparta erano modelli vivi, Le vite parallele erano il livre de chevet in cui trovare esempi da imitare e attualizzare.

I giacobini napoletani, ferocemente criticati da Vincenzo Cuoco, potevano dire con sintesi tacitiana, riferendosi alla loro invereconda coppia di sovrani: «Il vostro Claudio è fuggito, Messalina trema…» (Cuoco 1999, 170); ma questa era la loro forse irrinunciabile essenza culturale. Si era ancora evidentemente lontani da una concezione storicistica. Comunque sia, tutto ciò è definitivamente, inesorabilmente e impietosamente finito. Ma anche inevitabilmente. L’impetuoso irrompere sulla scena di nuove classi, di nuovi popoli, di nuove tecnologie, di nuove organizzazioni del lavoro ha stemperato se non cancellato una simile concezione della classicità – come viva e contemporanea -, rendendola un fragile simulacro, quasi uno spettro senza spessore che nel corso dell’Ottocento ha continuato a sopravvivere stancamente nei tediosi collegi religiosi e poi nel Novecento, da noi, nei gentiliani licei classici: a ben pensarci, chi non si è sentito dire da studente che il latino e il greco servivano per imparare a «ragionare», il che significava tanta analisi logica, tanta grammatica, tanta sintassi e, per converso, che i contenuti veicolati dalle lingue classiche erano di secondaria importanza, quando non ci si trovava addirittura di fronte a una vera e propria sterilizzazione del loro contenuto ideale. E, quasi in una sorta di nemesi storica, la classicità, nel Novecento, se ha avuto una nuova labile fiammata, la ha avuta con i fascismi che hanno cercato, mortuariamente, di farla rivivere ai loro fini nazionalistici, espansionistici e razziali.

Momenti di gloria

Tutto ciò, ça va sans dire, si è riverberato sulla traduzione dei classici. Le considerazioni a volo d’uccello che seguono si limiteranno alla situazione culturale italiana. Il classicismo (lasciando da parte il pur interessante lavoro traduttorio umanistico-rinascimentale con il suo strascico seicentesco barocco; e qui ci basti citare le sopravviventi Eneide di Annibal Caro, la «bella infedele» in endecasillabi sciolti, e Della natura delle cose, la rielaborazione lucreziana di Alessandro Marchetti, a rischio di scomunica nel perdurante clima controriformistico di fine Seicento in Italia) ha avuto il suo momento di gloria, per le traduzioni dal greco e dal latino, tra la seconda metà del Settecento e il primo Ottocento: Foscolo, Monti e Pindemonte rappresentano le vette di tale impegno. Leopardi, invece, non sempre risulta convincente nelle sue versioni. Di Foscolo resta ancora, tra le più plausibili, la resa dell’ode seconda di Saffo, All’amore:

Serpe la fiamma entro il mio sangue, ed ardo:
un indistinto tintinnio m’ingombra
gli orecchi, e sogno: mi s’innalza al guardo
torbida l’ombra.

E tutta molle d’un sudor di gelo,
e smorta in viso come erba che langue,
tremo e fremo di brividi, ed anelo
tacita, esangue

Per non parlare della Chioma di Berenice, versione da Catullo che l’aveva a sua volta tradotta da Callimaco. Michele Mari (1955) illumina da par suo, nelle prefazioni alle riedizioni Bur dell’Iliade di Omero tradotta da Vincenzo Monti e dell’Odissea di Omero tradotta da Ippolito Pindemonte (rispettivamente del 1990 e del 1993), il ricco dibattito dell’epoca sulla questione delle traduzioni dei classici antichi e ci offre un giudizio equilibrato sulle versioni in questione (quella di Monti uscita in successive rielaborazioni tra il 1810 e il 1825; quella di Pindemonte uscita nel 1822):

Chi non si accontenta di una versione puramente strumentale dell’Iliade ancor oggi ricorre all’interpretazione fluida e ariosa di Vincenzo Monti, anche perché… per il lettore italiano è difficile separare il poema di Omero dalla forma impressagli dal Monti, una volta per tutte, e dimenticarsi di attacchi e chiuse come «Cantami, o Diva, del Pelide Achille / l’ira funesta» o «Questi furo gli estremi onor renduti / al domatore di cavalli Ettorre» (in Monti 1990, 32).

O come scrisse M.me de Staël nell’articolo tradotto da Pietro Giordani col titolo Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni e pubblicato nel primo numero della «Biblioteca italiana» del gennaio 1816: «Niuno vorrà in Italia per lo innanzi tradurre la Iliade, poiché Omero non si potrà spogliare dell’abbigliamento onde il Monti lo rivestì». E, come chiosa Mari, «non c’è dubbio, almeno per la seconda parte, che la profezia si sia avverata» (ibidem). Per Pindemonte, potremmo riprendere quello che lui stesso dice di Annibal Caro: «La traduzione d’Annibal Caro con que’ suoi versi sempre variati, piace dal principio alla fine, e piacerà sempre sino a tanto che guaste affatto non si saranno le orecchie italiane, il che voglio sperare ancora non sia accaduto» (Pindemonte 1993, 31).

La conquista filologica ottocentesca

Il pieno Ottocento non ci ha lasciato molto, l’aura neoclassica era ormai svanita: spicca, pubblicata nel 1861, la versione fedelissima e perfetta – soprattutto se mondata dagli arcaismi, come fece nel 1944 Alberto Savinio per l’edizione comparsa nella «Corona» di Bompiani, adorna delle sue splendide e surreali illustrazioni – delle opere di Luciano fatta da Luigi Settembrini (1813-76), alla quale il patriota napoletano attese per cinque anni mentre era detenuto, tra il 1851 e il 1859, nell’ergastolo di Santo Stefano. Come scrisse lui stesso:

Per non perdere interamente l’intelligenza, che ogni giorno mi va mancando, per non perire interamente nella memoria degli uomini, mi afferrai a Luciano e mi proposi di tradurre le opere nella nostra favella… Per cinque anni vi ho lavorato continuamente fra tutte le noie, i dolori e gli orrori che sono nel più terribile carcere, in mezzo agli assassini e ai parricidi: e Luciano, come amico affettuoso, mi ha salvato dalla morte totale dell’intelligenza (Settembrini 1944, 35).

Davvero un bell’elogio per il lavoro di traduzione!
Ma arriviamo a Giovanni Pascoli, il più notevole poeta bilingue – in latino e, ovviamente, in italiano – della nostra letteratura, il solo che sia stato non un «imitatore», ma un «continuatore» degli antichi, come si espresse D’Annunzio: basti pensare al suo poemetto Iugurtha del 1897, sul re numida sepolto vivo nel carcere Tulliano:

«Hercule, quam frigent» dixit «tua balnea, Roma!»
sensit iners mediis deorsum demissus in umbris
invenitque solum pede, luxque evanuit omnis.

Alfonso Traina così traduce: «“Per Ercole – disse – come sono freddi i tuoi bagni, Roma!” Si sentì calato giù nel buio: trovò il suolo col piede e svanì ogni luce» (Traina 1990, 41). Pascoli sentiva e pensava in due lingue, tanto, che come riferì la sorella Ida, il latino lo accompagnò anche sul letto di morte, ma cosa abbia detto esattamente in tale occasione non lo sappiamo. Spesso però traducendo – da Orazio, Virgilio, Catullo, fra gli altri, ma anche dal greco, in particolare da Omero -, come si è osservato, il nostro “pascoleggia”, ovverosia imita se stesso, pur con esiti talvolta pregevoli. Resta un eccelso poeta in latino, non un eccelso traduttore.

Ideologia e retorica

Girando la boa del Novecento, nei primi decenni prevale un atteggiamento arcaicizzante, che si accompagna a stilemi aulici, spesso scolastici. Emerge tra i migliori Manara Valgimigli (1876-1965), discepolo di Carducci e amico di Pascoli, dotato di un buon retroterra filologico, ma non immune da stilemi echeggianti il poeta del “fanciullino” (la sua versione dell’Orestea di Eschilo è stata comunque ripubblicata nel 1983 dalla Bur con un’introduzione di Vincenzo Di Benedetto che ne fornisce un giudizio ampiamente positivo), mentre è ormai in gran parte illeggibile – tranne forse per Aristofane – Ettore Romagnoli (1871-1938), a causa della retorica e delle gravi cadute di gusto, soprattutto nella traduzione dei lirici. Non a caso, durante il ventennio fascista proprio le sue versioni dei tragici tennero banco insieme a quelle di Ettore Bignone (1879-1953), altrettanto retoriche, negli spettacoli del teatro antico di Siracusa, rendendo di fatto indistinguibili tra loro, anche per gli scenari, la coreografia e la recitazione, Eschilo, Sofocle ed Euripide.

La svolta

Un’autentica e indiscutibile svolta, che potremmo definire “modernista”, usando il termine con beneficio di inventario, avverrà solo ad opera di Salvatore Quasimodo (1901-1968), poeta dalle origini ermetiche e autodidatta nelle lingue classiche. Le sue versioni (per le sue considerazioni in proposito, vedi la Nota del traduttore in Quasimodo 1957, 9-11) furono una «rivoluzionaria rivelazione», come si espresse Filippo Maria Pontani (1913-83) nella sua prefazione alle reliquie poetiche di Saffo, Alceo e Anacreonte (Pontani 1965, 9). Momenti particolarmente alti sono i suoi lirici greci (per quanto inadeguata fosse in Quasimodo la padronanza della lingua, a detta di molti critici, e di certo fosse tale la sua preparazione filologica), indubbiamente consoni al gusto ermetico del frammento. Come straordinaria è la sua versione – incompleta – delle virgiliane Georgiche. I versi

Maxumus hic flexu sinuoso elabitur Anguis
circum perque duas in morem fluminis Arctos,
Arctos Oceani metuentes aequore tingui
(I, 244-46),

così vengono resi:

Nel cielo del Nord con sinuose curve
scorre il Dragone, come un fiume tra le Orse; le Orse
che temono d’immergersi nell’acqua dell’Oceano.
Là, come dicono, un buio profondo tace sempre
e al venire della notte più le tenebre si addensano (Quasimodo 1957, 15).

Via fronzoli, arcaismi, attenzione massima al valore della nuda parola. Raramente il misterioso e armonioso verso di Virgilio ha trovato un esito traduttivo altrettanto felice. Sulla linea di Quasimodo potremmo collocare lo stesso Filippo Maria Pontani (1913-1983), straordinario filologo, traduttore di Seferis e Kafavis, i grandi poeti neoellenici novecenteschi, oltreché di Eschilo, di Sofocle, degli Inni omerici, dell’Antologia Palatina e di tanti lirici arcaici: esemplari, anche se non prive di qualche preziosismo lessicale, sono state le sue versioni di Saffo, Alceo, Anacreonte, Alcmane, Stesicoro e Ibico pubblicate nella celebre collana bianca di Einaudi. Ecco come traduce (Pontani 1965, 19) le ultime due strofe dell’ode seconda di Saffo (L’amore), della quale abbiamo già riportato la classicistica versione foscoliana:

la lingua è rotta; un brivido
di fuoco è nelle carni,
sottile; agli occhi il buio; rombano
gli orecchi.

Cola sudore, un tremito
mi preda. Più verde d’un erba
sono, e la morte così poco lungi
mi sembra…

Pontani vinse nel 1972 il II Premio Monselice per la traduzione letteraria.
È il momento, adesso, di parlare di un corsaro in questo campo, e cioè di Pier Paolo Pasolini (1922-1975), che con la sua traduzione dell’Orestiade per il Teatro popolare italiano di Vittorio Gassman, offrì un audace contributo alla versione dei tragici per la scena. «Una disperata correzione di ogni tentazione classicista» (Pasolini 1960, 2) fu l’obiettivo che si pose, accanto a quello di derubricare i toni sublimi in toni civili, come egli stesso dichiara nella Lettera del traduttore che precede la trilogia. E così Ermê cthónie, l’invocazione con cui inizia il Prologo delle Coefore (versi 1-5 dell’originale), tradizionalmente reso con «Ermes ctonio» o «Ermes infero», diventa «Dio dell’Inferno», così come Ô Zeŷ diventa Ah, Dio, anziché il classico «O Zeus». Il risultato, forse con qualche forzatura filologica, è di cristallina chiarezza, senza perdere d’intensità. Ecco l’incipit (a parlare è Oreste accanto alla tomba di Agamannone):

Dio dell’Inferno, guarda mio padre ucciso:
sii il mio custode, la mia salvezza,
nell’ora in cui ritorno alla mia terra.
Qui, sul tumulo della tomba di mio padre,
io mi rivolgo a te, Dio, e tu ascoltami (p. 12).

Su una strada analoga si è mosso Edoardo Sanguineti (1930-2010), poeta dei Novissimi, cui si debbono parecchie traduzioni (tragici greci, Seneca, Petronio). Così Sanguineti rende lo stesso passo delle Coefore citato per Pasolini:

Ermes dei morti, guardiano delle forze paterne,
diventa mio salvatore e mio alleato, ti supplico:
io vengo infatti in questa terra, io ritorno ‒
sopra questo tumulo della tomba, io mando un messaggio a mio padre:
e tu sentimi, ascoltami.

Anche qui si rinuncia a «Ermes ctonio», questa volta per «Ermes dei morti». Anche Sanguineti, dunque, rinuncia al lessico arcaico, aulico, illustre, puntando, per evocare l’aura che si addice al mito, su altri mezzi, come l’ellissi, la densità del fraseggio («Nessuno, tra gli effimeri, varcherà illeso / tutto il tempo vitale, senza pagarlo») e il ritmo (Sanguineti 1978, 5 e 55; vedi anche la Nota introduttiva di f. b.). Anche la sua traduzione, come quella di Pasolini, è predisposta per la scena: è infatti stata realizzata per il XXV ciclo di spettacoli classici di Siracusa. Ne è passata di acqua sotto i ponti dai tempi di Bignone (Premio Mussolini 1938) e di Romagnoli, “domini” del dramma antico in orbace, e non solo! E così volgeva l’incipit delle Coefore l’“ellenista” Domenico Ricci (1885-1957), al quale Paolo Lecaldano, il primo direttore della mitica Bur grigia – che fu insostituibile alimento culturale per gli studenti degli anni cinquanta-sessanta del Novecento – affidò la traduzione dell’intero corpus dei tragici greci: missione quasi interamente compiuta, tranne per le euripidee Baccanti e Ione, tradotte dopo la scomparsa di Ricci da Ettore Barelli (1920-2005):

O Ermete Ctonio, che del morto padre
mio guardi la possanza, ti scongiuro: siimi tu salvatore ed alleato!
Dal culmine di questa tomba grido
a mio padre che mi oda, che mi ascolti (Ricci 1950, 97).

Come si nota, questa pur dignitosa versione non si esime dal ricorrere a forme lessicali e sintattiche («Ctonio», «possanza», «padre mio», «siimi tu», «che mi oda») auliche e dal profumo antiquato. Siamo ancora in un prevalente clima retorico, se vogliamo carducciano: ci vorrà ancora tempo prima che prevalga un atteggiamento più libero e moderno che non identifichi il registro alto con strutture linguistiche desuete e classicheggianti.

La scelta radicale di Ceronetti

Altro straordinario, geniale innovatore, le cui versioni non possono certo essere considerate di servizio, è Guido Ceronetti (1927). Non parliamo qui delle sue celebri performance bibliche (I salmi, Qohelet o l’Ecclesiaste, Giobbe, Cantico dei cantici, Isaia), ma naturalmente delle traduzioni latine: Marziale (1964), Catullo (1969), Giovenale (1971). La libertà e, soprattutto, l’originalità con la quale Ceronetti si pone di fronte all’impresa traduttiva emerge dalla sua Nota alle Poesie di Catullo:

Ogni nuova traduzione che tento di un testo antico mi porta forse questa paura: come agirò con lui se non ne conosco il dio? Forse ogni testo ha il suo Apollo, col quale è necessario stabilire un rapporto, ma il dio è introvabile e il rapporto col testo somiglia a un ballo con un decapitato… Altro nascerà, chi sa che cosa, dal disuguale confronto (Ceronetti 1969, 337-38).

Dunque la filologia, per quanto necessaria, non compensa l’incontro misterioso col poeta antico. La scelta di Ceronetti è radicale: non solo via ogni cosmesi o cascame classicheggiante, ma si punta a una lingua totalmente moderna con scelte lessicali temerarie o impudenti, e così il lecticulus del carme LVII, che inscena Mamurra e Giulio Cesare in lubrica veste cinedica – «Superiori alle donne perfino / nelle libidini femminili» -, diventa un «divanoletto» e, sempre nel medesimo carme, pathicus diventa «culattone» (Ceronetti 1972, 131). Il suo approccio risulta perfettamente congruo al “leggero” Catullo. Il celebre carme Vivamus, mea Lesbia, atque amemus si declina alla bout de souffle, in una pura essenza di gioventù:

Vita e amore a noi due Lesbia mia
e ogni acida censura di vecchi
come un soldo bucato gettiamo via.
Il sole che muore rinascerà
ma questa luce nostra fuggitiva
una volta abbattuta, dormiremo
una totale notte senza fine.
Dammi baci cento baci mille baci
e ancora baci cento baci mille baci! (Ceronetti 1972, 19).

E, tornando alle scelte impudenti: Verum nescio quid febriculosi / scorti diligis: hoc pudet fateri (carme VI) si evolve in «Ma tu ami una specie di puttana / malandata, una cosa indicibile» (p. 21), per dire che il nobile termine escort dei nostri tempi giovenaleschi ha, a quanto pare, la sua radice nello scortum latino, cioè nella puttana – femminile o maschile – di basso bordo. Giovenale, appunto, che Ceronetti riesce a liberare dalla «malinconia delle città morte universitarie», satirista ai cui piedi si getta «qualche corona dilavata di elogio-omaggio, intessuta nelle alacri botteghe dove la luce della parola morta non si spegne mai» (p. VII). E di colpo, con Ceronetti, la città eterna (Satira III) si rivela davvero «eterna» nei vizi e nell’invivibilità (a dire il vero, tutto ciò potrebbe riguardare più in generale l’Italia):

A Roma, di un mestiere onesto, non è il caso di parlare (artibus […] honestis /nullus in urbe locus) (Ceronetti 1971, 37)

Un miserabile alloggio lo strapaghi (magno hospitium miserabile) (p. 45).

Solo pagando a Roma si fa tutto (Omnia Romae cum pretio) (p. 47).

Nelle case d’affitto non si dorme, / il sonno a Roma costa orribilmente (nam quae meritoria somnum / admittunt? Magnis opibus dormitur in urbe) (p. 53).

Le collane contemporanee di classici

Ma prima di arrivare a quella che si può definire, con un pizzico di ironia, la nouvelle vague nella traduzione dei classici antichi, che ha permesso una loro ampia diffusione – e il nostro punto di vista è appunto quello del lettore comune, almeno un po’ colto, di necessità – al di là del mondo degli studiosi, della scuola e dell’accademia, impresa di cui la massima protagonista è stata la nuova Bur (335 titoli), affiancata dagli «Oscar classici greci e latini» Mondadori (169 titoli) e in minor misura dai «Grandi libri» Garzanti (un’ottantina di titoli), è giusto ricordare, almeno di passata, altre iniziative editoriali che hanno avuto, o hanno ancora, peso e prestigio e una certa diffusione, anche se spesso elitaria o di nicchia: i «Classici latini» e i «Classici greci» della Utet (a partire dagli anni Cinquanta, la cui finalità primaria era la cura filologica e la traduzione fedele al dettaglio, insomma accurate, come dicono gli inglesi); i tipograficamente sontuosi classici dei «Millenni» einaudiani. E qui occorre ricordare la dignitosa traduzione dell’Iliade di Rosa Calzecchi Onesti (1916-2011), uscita nel 1950, che, a partire dagli anni Sessanta, andò soppiantando nella scuola Vincenzo Monti, di cui peraltro non ha il fascino, per quanto elaborata in un dialogo continuo con un editor-psicopompo come Cesare Pavese, fautore di una poesia narrativa, prosastica; le già citate versioni di Ceronetti; e almeno i rari L’arte dell’agricoltura di Columella, ancora tradotto da Rosa Calzecchi Onesti, e la Storia naturale di Plinio il Vecchio uscita, per la fatica di uno stuolo di traduttori, in cinque ponderosi volumi; nonché la preziosa Antologia palatina tradotta da Pontani; e ancora Le vite parallele, tradotte da Carlo Carena.

Altra collana storica era l’«Universale Sansoni», che negli anni Sessanta pubblicò le buone traduzioni dei tragici greci ad opera di Carlo Diano (1902-1974), tra le poche che restano della sua generazione, poi confluite in Il teatro greco: tutte le tragedie, Sansoni, Firenze 1970. Qualche ricercata e un po’ esoterica opera è uscita nella «Biblioteca Adelphi», come la Vita di Apollonio di Tiana di Filostrato, tradotta dal grecista Dario Del Corno (1933-2010) e pubblicata nel 1978, che ci restituisce la sincretistica e spiritualizzante atmosfera della tarda paganità. A partire dal 1974, compaiono le traduzioni, sovente di testi ignoti allo stesso pubblico colto, tutte di ottimo livello filologico e arricchite di esaustivi apparati critici, della collana «Scrittori greci e latini», della Fondazione Valla, destinate sovente a confluire negli Oscar Mondadori; qualche rarità erudita o esoterica ancora nella collana «Il pensiero occidentale» di Bompiani, come Marziano Capella, Macrobio, Porfirio, Quinto Smirneo, Dionigi Aeropagita.

Il catalogo non è solo questo, e potrebbe ulteriormente estendersi. Ma il punto che vogliamo sottolineare è un altro. Come dato significativo emerge, negli ultimi decenni – a partire all’incirca dalla metà degli anni Settanta – un interesse più ampio e marcato verso il mondo classico, che è andato via via intensificandosi, un interesse di cui sono indice, oltreché le numerose traduzioni, la ricchezza degli apparati critici, la presenza, di norma, del testo originale a fronte, e il gusto per aree misconosciute e remote del vasto territorio culturale antico, prima lasciate ai margini o alla sola attenzione degli eruditi. Ma di quest’ultimo aspetto vedremo più in là.
Anche la grana dell’interesse si è fatta diversa: non più identificazione con i valori ideali di una mitizzata classicità, neppure più imitazione dei suoi valori formali; non più una concezione della cultura classica come piacere da coltivare in un otium privilegiato (anche se modesto come quello di un professore di liceo o di università) e nella separatezza dalla brutale realtà produttiva; non più una sua visione come crisma di una condizione di classe o come sanzione di supposte superiorità o come strumento unico insostituibile di formazione.

Nella percezione diffusa, la letteratura classica è diventata “una” letteratura, come le altre, per quanto ricca e peculiare, da studiare con strumenti analoghi, adeguati alla materia ovviamente, e questa caduta dal piedestallo le ha fatto sicuramente bene: non è più un must ma è diventata una scelta, e già per questo solo e semplice motivo, perdendo le sue catene, si è fatta ammiccante e seduttiva. Non è più forzosamente legata al potere politico o culturale. Non è forse un caso se negli ultimi anni l’inserto culturale che se ne occupa più appassionatamente è – sotto la guida di Roberto Andreotti, autore di due saggi che indagano sul senso dei classici e del “classico” oggi: Classici elettrici e Ritorni di fiamma, 2006 e 2009 Rizzoli – «Alias», l’inserto di un giornale che si autorappresenta come «comunista».

La proliferazione dei grandi poemi epici

Nel periodo accennato, e sempre più vicino a noi, sono proliferate le traduzioni dei grandi poemi epici, prima quasi (quasi, sia chiaro!: basti pensare alle peraltro buone “traduzioni poetiche” di Guido Vitali, preside del milanese Liceo Parini, uscite tra il 1934 e il 1950) interdette dai modelli considerati insuperabili di Monti, Pindemonte e Annibal Caro, nelle quali Iliade, Odissea ed Eneide si erano come cristallizzate. Per l’Iliade si possono ricordare la pionieristica versione in prosa di Giuseppe Tonna (1968) comparsa nei «Grandi Libri» Garzanti; quella, nuovamente in prosa, di Maria Grazia Ciani (1940) pubblicata da Marsilio nel 1990 e utilizzata poi come base da Alessandro Baricco (1958) per il suo reading teatrale (vedi Baricco 2004), riprova da parte di un autore massimamente mainstream di un rinnovato interesse di massa per il poema; quelle, ancora, di Giovanni Cerri (Bur 1999, ma già «Classici Rizzoli» 1996), insignita del XXVI Premio Monselice per la traduzione, e di Guido Paduano (Einaudi 1997, «Biblioteca della Pléiade»). Per l’Odissea: Rosa Calzecchi Onesti (Einaudi 1963), Giuseppe Tonna (Garzanti 1973), G. Aurelio Privitera (Fondazione Valla 1981, poi Oscar Mondadori 1991), Maria Grazia Ciani (Marsilio 1994), Franco Ferrari (Utet 2001), Vincenzo Di Benedetto (Bur 2010), Guido Paduano (Einaudi 2010).
Soffermiamoci un momento su come taluni dei traduttori citati propongono il bellissimo “notturno” alla La Tour che chiude il primo canto dell’Odissea, con la serva Euriclea che, dopo l’usuale banchetto degli arroganti pretendenti di Penelope, accompagna a dormire il giovane Telemaco, il quale sognerà il viaggio alla ricerca del padre:

Lei portava le fiaccole accese accompagnandolo: tra tutte le ancelle gli voleva un gran bene, l’aveva allevato quando era piccino. Telemaco aprì la porta della sua stanza: era saldamente costruita. Si metteva a sedere sul letto, si svestiva della tunica morbida di lana, e la buttò tra le mani della vecchia. Lei la ripiegava con cura, l’appese ad un chiodo accanto al letto traforato, e si mosse per andare fuori della stanza. Si trasse dietro la porta con la maniglia d’argento, tirò il paletto con la corda di cuoio. Là per tutta la notte, coperto da una pelle vellosa di pecora, lui pensava al viaggio che Atena gli aveva suggerito (Tonna 1974, 13).

Al suo fianco portava le fiaccole accese: di tutte
le serve lo amava di più, e l’aveva nutrito da piccolo.
Aprì la porta del talamo costruito solidamente,
sedette sul letto, si tolse la morbida tunica,
e la gettò in mano alla vecchia assennata.
Lei, piegata e disposta con cura la tunica, appesala a un piolo vicino alla spalliera coi fori,
s’avviò per uscire dal talamo, tirò per l’anello d’argento
la porta, trasse con la correggia il paletto.
Lì egli tutta la notte, coperto da un vello di pecora,
progettava nella mente il viaggio che Atena aveva ispirato (Privitera 1991, 30-31).

Costei insieme con lui portava fiaccole accese. Fra tutte le serve
ella lo amava di più e lo aveva nutrito da piccolo.
Telemaco aprì la porta del talamo ben costruito,
sedette sul letto, si tolse la morbida tunica,
e la gettò in mano alla vecchia di saggezza dotata.
E lei, piegata e stesa con cura la tunica,
la appese a un cavicchio di fianco al letto a trafori, e poi
si avviò ad uscire dalla camera. Tirò a sé la porta per l’anello
d’argento, tirò forte il paletto per la cinghia.
Là tutta la notte, avvolto in un vello di pecora, Telemaco
nell’animo progettava il viaggio che Atena gli aveva indicato (Di Benedetto 2010, 201).

Come si nota, si tratta di versioni non troppo dissimili. Sono tutte caratterizzate dall’aderenza al testo (i versi dell’originale e della traduzione, nelle ultime due, si corrispondono: 434-444), da una lingua sostanzialmente piana, senza forzature sintattiche e grammaticali, e da un tono gradevolmente narrativo: sono, queste, caratteristiche che si ritrovano in gran parte delle traduzioni più recenti dei classici antichi, eseguite tutte da studiosi e filologi di vaglia, che evidentemente privilegiano la fedeltà e la leggibilità (siamo ben lontani dalle libertà di Quasimodo, Pasolini, Ceronetti). Ex uno disce omnes, si potrebbe dire: tutte versioni mediamente buone e piacevoli, arricchite spesso da ottime e aggiornate introduzioni, che non sempre, però – ed è un peccato – si soffermano sui traduttori e sui criteri con cui hanno affrontato la loro versione. Comunque, è forse il caso, allora, di raffrontarle con Pindemonte, che si avvale della struttura insieme fascinosa e ingabbiante dell’endecasillabo (qui ai vv. 434-444 dell’originale corrispondono i vv. 555-569):

Con accese il seguia lucide faci:
Più gli portava amor, che ogni altra serva,
Ed ella fu, che il rallevò bambino.
Costei gli aprì della leggiadra stanza
La porta: sovra il letto egli si assise,
Levò la sottil veste a sé di dosso,
E all’amorosa vecchia in man la pose,
Che piegolla con arte, e alla caviglia
L’appese accanto il traforato letto,
Poi d’uscire affrettavasi: la porta
Si trasse dietro per l’anel d’argento,
Tirò la fune, e il chiavistello corse.
Sotto un fior molle di tessuta lana
Ei volgea nel suo cor quell’intera
Notte il cammin, che gli additò Minerva (Pindemonte 1993, 109).

Perché mi schianti? Perché mi scerpe?

Ma veniamo all’intraducibile e sfuggente Virgilio (dalla «Stimmung così imprendibile, nella sua ricchezza come nella sua sensibile delicatezza», come scrive Massimo Raffaeli su «Alias» dell’11 novembre 2012). L’Eneide è sicuramente il poema più tradotto, prediletto da poeti e scrittori: dalle meno recenti versioni di Calzecchi Onesti (Istituto editoriale italiano, Milano 1962, poi Einaudi 1967) e di Cesare Vivaldi (Guanda, Parma 1962, poi «Grandi Libri» Garzanti 1990) alle più vicine a noi di Luca Canali (1925) per la Fondazione Valla (1978-83, poi «Oscar Classici» 1985), di Carlo Carena (1925) per la Utet (1985, prima edizione: 1971), di Giovanna Bemporad (per excerpta, Rusconi, Milano 1983), di Enrico Oddone (Feltrinelli 1995), di Mario Ramous (Marsilio 1998), di Riccardo Scarcia (Bur 2006, con un’interessante prefazione di Alessandro Barchiesi, classe 1955), di Vittorio Sermonti (L’Eneide di Virgilio, Rizzoli 2007, traduzione colloquiale, pensata per essere letta); e, infine, quella – considerata, sempre da Raffaeli, «un vero e proprio testo generazionale» – del poeta Alessandro Fo (1955), uscita da Einaudi nel 2012 col corredo di una sensibile, articolata e complessa nota introduttiva (Un profilo di Virgilio) e di una nota alla traduzione dal significativo e consapevole titolo di Limitare le perdite. Vediamo, a titolo di esempio, come sono stati volti alcuni versi rimasti indelebili nella nostra memoria.

Il celeberrimo Adgnosco veteris vestigia flammae (IV, 23), in cui Didone, tra angosciata e ammaliata, riconosce in sé i primi sintomi della passione che la perderà, viene reso:

da Calzecchi Onesti (1979, 175) con «Oh, della fiamma antica i segni conosco!»;

da Canali (1991, 119) e da Scarcia (2006, 109) con «Riconosco i segni dell’antica fiamma», in omaggio all’inarrivabilità della traduzione dantesca;

da Sermonti (2007, 183) con «Riconosco le tracce dell’antica fiamma»;

da Fo (2012, 139) con «Riconosco l’antica fiamma e i suoi segni».

L’altrettanto celebre verso in cui Palinuro travolto dai flutti invoca sepoltura da Enea, Quod te per caeli iucundum lumen et auras (VI, 363) è, invece, reso:

da Calzecchi Onesti (p. 273) con «Oh per la luce serena del cielo, pei soffi dell’aria»;

da Canali (p. 217) con «Per il lume giocondo del sole, per le brezze, per il padre»;

da Scarcia (p. 179) con «Così in grazia del sacro lume e dell’aria del cielo»;

da Sermonti con «Per la dolce luce del giorno, per le brezze, per tuo padre» (p. 313);

da Fo (p. 253) con «Per l’aria, dunque, e la luce gioiosa del cielo, ti prego».

Già da questo piccolo saggio si percepiscono differenze di ritmo, di lessico, di costrutti e, certamente, le proposte pausate di Fo sembrano più aderenti alla finezza virgiliana. Ma come traduceva questo verso Annibal Caro?: «Per la superna luce, per quell’aura / onde si vive». Ciò che disse M.me de Staël della traduzione di Caro sicuramente suona fondato. Il magico tacitae per amica silentia lunae (II, 255) della notte degli inganni greci diventa:

in Calzecchi Onesti (p. 107) «nell’amico silenzio della tacita luna»;

in Canali (p. 53) un vero e proprio calco, «per gli amici silenzi della tacita luna»;

in Scarcia (p. 60) «immersa nel silenzio amico alla tacita luna»;

in Sermonti (p. 87) un impoetico «per le assenze propizie della silente luna»;

in Fo (p. 63) «per la tacita luna e i suoi amici silenzi».

Come si può vedere piccoli, quasi impercettibili spostamenti tra una resa e l’altra, ma che producono un esito sonoro e ritmico diverso. L’analisi potrebbe procedere all’infinito, ma, per quel che ci riguarda ci limitiamo a notare come un simile ventaglio interpretativo e traduttivo quale ci viene oggi offerto costituisca di per sé una ricchezza.

Citiamo ancora un ultimo grande poema non più epico, ma ampio come l’Odissea (circa 12 000 versi) e più esteso dell’Eneide: le sontuose Metamorfosi (il più grande giacimento sopravvissuto di mitologia greca, ispiratore di tanti artisti rinascimentali e barocchi, un grandioso progetto di ricostruzione della storia del mondo sub specie metamorphica) che con il loro autore, Ovidio, hanno vissuto un significativo revival, dopo una lunga eclisse: Einaudi l’ha pubblicato in due versioni, la prima del 1979, dovuta a Piero Bernardini Marzolla (con una premessa di Italo Calvino, Gli indistinti confini), la seconda del 2000, dovuta invece a Guido Paduano; altre versioni sono quelle di Bompiani 1988 a cura di Enrico Oddone, di Garzanti 1992 a cura di Mario Ramous, della Bur 2008 a cura di Giovanna Faranda Villa; presso la Fondazione Valla, secondo i criteri scientifici che la caratterizzano, è in corso una traduzione alla quale ha partecipato anche Lodovica Koch, la grande scandinavista e germanista prematuramente scomparsa (1941-1993), di cui sono per ora usciti (2005-2011) quattro volumi sui sei previsti.

Colpisce, in Ovidio, autore dell’Ars amandi e dei Medicamina faciei, la delicatezza con cui sa anche celebrare la modestia e la semplicità, come nell’episodio di Filemone e Bauci, alludendo antifrasticamente alla brama di lusso e di piaceri che stava corrompendo Roma (e forse anche Ovidio stesso). Insomma, pare dirci Ovidio, solo il dio della morigeratezza, se esiste, può salvarci. Nell’utopia della povera capanna Nec refert dominos illic famulosne requiras: / tota domus duo sunt, idem parentque iubentque (VIII, 635-36); cioè «non serviva cercare lì servi e padroni: loro due erano tutta la casa, erano quelli che comandavano e insieme obbedivano» (Faranda Villa, 495). Insomma, dove non c’è ricchezza non c’è neanche disuguaglianza e tirannia. Peccato che gli stessi dei che eleggono i due vecchi sottraendoli al diluvio universale – e condannano, invece, a morire tutti gli altri uomini -, Giove e Mercurio, altrove si abbandonino all’inganno e alla libidine. Giove è, infatti, anche colui che, concupiscente, attenta alla giovinetta Europa trasformandosi (momentaneamente e surrettiziamente) in toro mansueto, in attesa dell’agognato

stuprum: sed quamvis mitem metuit contingere primo:
mox adit et flores ad candida porrigit ora.
Gaudet amans et, dum veniat sperata voluptas
oscula dat manibus; vix iam, vix cetera differt (II, 860-63),

ovvero

eppure in un primo momento ha paura di toccarlo, anche se è così mite; ma poi si decide e va a porgere fiori al bianco muso. Gode l’innamorato e, in attesa dello sperato piacere, le bacia le mani, mentre con grande fatica rimanda il resto (Faranda Villa, 161-63).

Il ruolo della Biblioteca universale Rizzoli

A questo punto si può riprendere il discorso dalla Bur e dal ruolo che la collana ha svolto e svolge nella diffusione dei classici antichi. Argomento affrontato nel delizioso Ah, la vecchia Bur, in cui Evaldo Violo (2011), direttore della rinnovata Bur per trent’anni, a partire dal 1973, risponde alle domande di Marco Vitali. Cominciamo col dire che la vecchia e gloriosa Bur, quella dalla copertina grigia, dopo aver pubblicato 909 titoli di classici della letteratura universale (tra cui un’ottantina di testi antichi, latini e greci), si era chiusa di fatto nel 1968 col penultimo titolo, I fratelli Karamazov, ma ufficialmente solo nel 1972 con l’ultimo titolo, enigmaticamente un raro testo erudito latino, Fatti e detti memorabili di Valerio Massimo.
Il Sessantotto per i classici rappresentò una cesura. Non interessavano più: bisognava capire e cambiare il mondo. Si impose dunque la saggistica. Rispetto al clima dell’epoca, è interessante, e anche illuminante, il punto di vista di un poeta appartato ed anche notevole latinista come Agostino Richelmy (1900-1991), che proprio in quella temperie si mise a tradurre le Bucoliche, poi apparse nell’einaudiana collana bianca di poesia. Egli scrive nella prefazione:

Nel 1968 mi sentii portato a tradurre, o volgarizzare, le Bucoliche: in versi, in rime e su schema ternario. Tra il frastuono contestatario della letteratura corrente, ciò – l’ammetto – è un tapparsi le orecchie, e ostare alla maggioranza, ed essere – se Virgilio pare anacronistico – un po’ anacronistico con lui (Richelmy 1970, 10).

Così, tra il tumulto del momento, traduceva in endecasillabi («la versificazione […] ha, se non altro l’effetto di scartare da sé il lettore svogliato o distratto») le egloghe di Virgilio, in particolare la seconda sull’amore del pastore Coridone per il giovane Alessi: O crudelis Alexi, nihil mea carmina curas? / nil nostri miserere? Mori me denique coges, ossia: «Spietato Alessi, non odi miei versi?/ non hai pietà? Vuoi vedermi morire?» (p. 27). L’impresa risarcitoria riuscì, pur con qualche spigolosità («odi miei versi», ad esempio).
Ma dicevamo della Bur. Essa doveva anche fare concorrenza agli Oscar: occorreva un cambio di grafica che la rendesse più appetibile, e ci si affidò alle colorate copertine palladiane di John Alcorn. Verso la fine degli anni Settanta, Violo cominciò a percepire un interesse più vivo per i classici antichi:

L’onda lunga del ‘68 era finita; era cominciato il cosiddetto riflusso e nell’università si ricominciava a studiare. Da quel momento inizia un’attività intensa nel settore soprattutto dei classici latini e greci. Nuove traduzioni, nuovi apparati critici, nuove annotazioni, nuovi commenti. Molto importante era il testo originale a fronte che non era casuale (Violo 2011, 87).

L’avventura cominciò prendendo contatto inizialmente con Antonio La Penna (1925) che fece da tramite con l’ambiente universitario e suggerì molti nomi di studiosi di valore – talvolta giovani (all’epoca) – come Luca Canali (1925), Guido Paduano (1944), Vincenzo Di Benedetto (1940?), cui si deve la dottissima prefazione al Simposio platonico della Bur, uscito nel 1986 nella traduzione di Franco Ferrari. Il primo libro nato da questo nuovo tipo di collaborazione furono le Bucoliche tradotte da Canali (che così proponeva i versi citati per Richelmy: «O crudele Alessi, nulla curi il mio canto? / Non hai compassione di me? Infine mi farai morire» – p. 67) e introdotte dallo stesso La Penna. Da allora sono comparsi quasi trecentocinquanta titoli. Accanto a opere più ovvie, come quelle di Cicerone o dei tragici greci o di Aristotele (a dire il vero impegno non da poco, affidato per l’Organon a Marcello Zanatta), si sono avviate imprese memorabili come le Vite parallele di Plutarco (delle quali esisteva già la buona versione di Carlo Carena del 1958 per i «Millenni» Einaudi, ed è da anni in corso un’edizione a cura della Fondazione Valla), progetto non ancora portato a compimento. Violo, consapevole della diffusa popolarità dell’opera che ha fan ovunque – esiste una International Plutarch Society affiliata della Utah State University, con diramazioni in tutto il mondo – ebbe l’intuizione vincente di affidare le versioni e le introduzioni di ogni coppia di eroi, uno greco e uno romano, a due diversi specialisti, un grecista e un latinista: si cominciò con Alessandro e Cesare nel 1987 e si è oggi (2012) arrivati a Licurgo e Numa Pompilio (mancano soltanto due volumi al compimento dell’opera).

Altra impresa memorabile è la traduzione dei due massimi geografi antichi superstiti, Pausania e Strabone, finora indisponibili in italiano moderno: il Viaggio in Grecia di Pausania, ormai ultimato in nove volumi, e la Geografia di Strabone, della quale sono usciti i primi quattro volumi. Questi sono vere e proprie miniere di notizie antiquarie: dalle gare femminili di corsa dei giochi Erei ad Olimpia («Moltissimi sono gli spettacoli meravigliosi che la Grecia offre e alcuni destano meraviglia anche in chi ne sente solo parlare; ma nelle cerimonie dei misteri eleusini e nei giochi di Olimpia si coglie la presenza di una particolare cura del cielo», ci informa la traduzione di Rizzo 2001, 153) ai misteri, peraltro ai tempi di Strabone ormai svelati, della Colchide e del Caucaso («Lì si svolge il racconto mitico di Prometeo e del suo incatenamento: ma questo perché, allora, il Caucaso era l’estremo limite orientale conosciuto!» – Nicolai e Traina 2000, 113).

Tra i memorabilia di Violo non possiamo non citare Le Dionisiache di Nonno di Panopoli (V secolo d.C.), testo finora sconosciuto ai più se non agli eruditi e, comunque, a lungo considerato epigonico e di scarso interesse. Nella Bur l’opera uscì in quattro volumi con diversi curatori, tra il 2003 e il 2004. Nel frattempo ricordiamo che anche l’Adelphi vi scommise sopra, pubblicandone finora, tra il 1997 e il 2005, i primi tre volumi a cura di Dario Del Corno.

Del resto la casa del patron Roberto Calasso, autore delle mitografiche Nozze di Cadmo e Armonia, non poteva sottrarsi alla bisogna. In realtà il torrentizio e rutilante poema epico di Nonno (di circa 25 000 versi, più del doppio dell’Odissea), che ripercorre con orientale intemperanza la vicenda del dio Dioniso, chiude, a suo modo grandiosamente, la vicenda della morente letteratura greca. Si potrebbe applicare ad esso, fatte le dovute proporzioni, quel che di Ero e Leandro, l’epillio di Museo del V secolo in 343 versi, disse Hermann Köchly: ultimam emorientis graecarum litterarum horti rosam (ultimissima rosa della morente letteratura greca). In questo caso si tratta di una rosa dalle dimensioni di gigantessa felliniana. Ciò che affascina del poema sono le fantasmagorie dei suoi paesaggi, le follie dei sensi, le eccitazioni e le smemoratezze del vino, ma anche certe delicatezze e irradiazioni misteriche, le caleidoscopiche immagini di carri trainati da leopardi che combattono contro elefanti, le folle tripudianti. Ecco, secondo l’edizione Bur, l’iniziale invocazione alle Muse, nella quale il poeta chiede appoggio e ispirazione per tanta materia:

Portatemi la ferula, scuotete i cembali, Muse,
e datemi nelle mani il tirso di Dioniso, che ispira il canto.
Evocate per me l’immagine di Proteo multiforme,
mentre si unisce alla vostra danza nella vicina isola di Faro,
perché appaia nella varietà dei suoi aspetti,
ché un inno variegato voglio intonare (Gigli Piccardi 2003, 121, libro I, 11-15).

I capolavori sconosciuti

Ma la BUR ci ha fatto conoscere ancora tanti altri capolavori “sconosciuti” (pur se, come nel caso che siamo in procinto di citare, molto influenti in altre epoche, basti pensare al Persiles y Sigismunda di Cervantes o ai romanzi francesi del Seicento), come Il romanzo di Calliroe di Caritone di Afrodisia (I-II secolo d.C.), uno dei pochi romanzi greci d’amore sopravvissuti alla catastrofe, e il più antico che ci sia arrivato integro, pubblicato nel 1996, nella versione di Renata Roncali (ricordiamo che nel 1973 era uscito da Sansoni, a cura di Quintino Cataudella – 1900-1984 – un’attenta e accurata versione del corpus completo dei romanzi antichi superstiti). Il romanzo di Caritone, alle stessa stregua di quelli di Senofonte Efesio, Achille Tazio, Eliodoro, è caratterizzato da una trama macchinosa, ricchissima di peripezie, ma che all’osso si può ridurre a quella classica dei “promessi sposi”: due giovani si amano, il loro amore è contrastato da mille ostacoli (aggressioni di pirati, vendite di schiavi, morti apparenti) finché alla fine si ritrovano e possono unirsi felicemente. Non c’è analisi psicologica e lo sfondo sociale è di genere, sostanzialmente astratto, pur se non privo di qualche riferimento storico. La bellezza del testo consiste nella sua trama sofisticata come un tappeto orientale, nella levità dello stile e nel pathos drammatico. Ecco il coup de foudre iniziale tra Cherea e Calliroe, con la sua sfavillante tavolozza di colori nella descrizione del giovane eroe protagonista:

Si celebrava la festa pubblica di Afrodite, e quasi tutte le donne si recarono al suo tempio. Calliroe, che non era fino ad allora uscita di casa, ve la conduceva la madre: era stato il padre che l’aveva esortata ad andare ad adorare la dea. In quel mentre Cherea se ne andava a casa di ritorno dagli esercizi ginnici, splendente come una stella: fioriva sulla chiarezza del volto il rossore della palestra come l’oro sull’argento (Roncali 1996, 71).

Altra autentica preziosità, il popolare Romanzo di Esopo, una sorta di roman de gare dell’epoca – più o meno contemporaneo al Romanzo di Calliroe – uscito nel 1997 in prima versione italiana. Come si espresse un recensore sulla pagina culturale della «Repubblica» del 4 settembre:

Il lettore italiano può dirsi fortunato, per sole quindicimila lire la Bur mette a suo disposizione questo antico romanzo […] Sono un po’ le meraviglie di questo nostro paese in cui […] si può andare in edicola e comprare l’edizione critica di un testo non solo raro, ma soprattutto divertente, come la televisione non riesce quasi mai a essere (citato in Violo 2011, 89).

Il romanzo ebbe nel corso del Medioevo, e oltre, ampia e carsica influenza sulle letterature occidentali, come si può evincere dal ritratto fisico di Esopo: «repellente alla vista, schifoso, pancione, con la testa sporgente, camuso, gibboso, olivastro, bassotto, con i piedi piatti, corto di braccia, storto, labbrone» (vedi Bonelli e Sandrolini 1997, 59), che ricorda straordinariamente il Bertoldo di Giulio Cesare Croce. Ma mentre Bertoldo (ricordiamo che Croce scriveva nell’Italia ormai serva di inizio Seicento) finirà col diventare il fintamente contestativo giullare di corte di Alboino, Esopo non accetta un simile ruolo e sarà costretto dagli abitanti di Delfi a suicidarsi, gettandosi da un dirupo, perché non ne tollerano le caustiche osservazioni.

Con un balzo indietro nel tempo, spostandoci in piena età ellenistica, incrociamo un altro capolavoro sconosciuto, nato nell’ambiente letterario alessandrino, Le Argonautiche di Apollonio Rodio, un poema epico squisito, intessuto di richiami alla tradizione ma ormai soffuso dal disincanto, pubblicato dalla Bur nel 1986 nella splendida traduzione di Guido Paduano. Il tema è ovviamente l’avventura di Giasone alla ricerca del vello d’oro con la connessa vicenda, insieme di passione e di interesse, che lega l’eroe a Medea. Il passato, in Apollonio, converge verso il presente e quel che interessa realmente lo scrittore sono gli esotismi e gli esoterismi e i meandri del cuore umano. La sua Medea non ha i tratti violentemente passionali che ha in Euripide e ancor più in Seneca, dove assume i tratti di una Furia, ma sembra presagire la Didone virgiliana, pur sempre restando una maga, una donna, in altri termini, demoniaca. Si innamora a prima vista di Giasone e dopo infiniti patemi abbandona, come una qualsiasi romantica adolescente, la casa paterna per seguirlo ( IV, 43-55):

Correva a piedi nudi per le vie strette;
con la sinistra sollevava il peplo sugli occhi,
sopra le belle guance e la fronte, e intanto
la destra reggeva in alto un lembo di tunica.
Andava rapida nel suo terrore per una strada oscura
oltre le mura della grande città. Non la riconobbe
nessuna delle sentinelle, non s’avvidero della sua corsa.
Pensava di andare al campo: sapeva bene
le strade: tante volte le aveva percorse cercando
cadaveri ed erbe malefiche, come usano fare
le maghe; ma il cuore le batteva forte, di tremore e terrore.
La vide correre, levandosi appena dall’orizzonte,
la Luna, la dea titania, e gioì con malizia (Paduano 1986, 539).

Altri due poemi epici, questa volta latini e risalenti al primo secolo imperiale, recuperati dalla Bur – e siamo sempre ai massimi livelli letterari – sono la Farsaglia di Lucano (1981, nella versione di Luca Canali), e la Tebaide di Stazio (1998, nella versione di Giovanna Faranda Villa), poemi che per il lettore comune colto erano pressoché solo misteriosi titoli incontrati nel corso degli studi liceali in nota alla Divina Commedia o in qualche paragrafo poco compulsato delle storie letterarie. La guerra civile o Farsaglia che ha per oggetto lo scontro tra Cesare e Pompeo, è dettata da una fortissima passione politica (il tema, in fondo, era piuttosto attuale) nel giovanissimo poeta alla moda, nipote del filosofo Seneca, che vive in una società ai suoi occhi degradata. Lucano, ammiratissimo da Dante come da Baudelaire, è diviso tra diverse e divergenti passioni, e tutto ciò traluce dal suo poema, nel quale – in un mondo senza dio -, accanto alla limpida ammirazione per Catone Uticense, spicca un gusto per il morboso, il negromantico, l’orrorifico (come la morte atroce dei soldati pompeiani uccisi dai serpenti nel deserto libico; o la descrizione dai curiosi tratti preromantici delle pratiche della maga Erichto consultata in Tessaglia dal figlio di Pompeo (libro VI, 510-518):

illi iamque nefas urbis summittere tecto
aut laribus ferale caput, desertaque busta
incolit et tumulos expulsis obtinet umbris
grata deis Erebi. Coetus adire silentum,
nosse domos Stygias arcanaque Ditis operti
non superi, non vita vetat.
[…] terribilis Stygio facies pallore gravatur
inspexis onerata comis

Tradotto da Canali (1981, 379):

Era per lei un sacrilegio inchinare il macabro capo
ai tetti di una città o ai Lari; abitava in vuoti sepolcri
e occupava i tumuli, scacciate le ombre, grata
agli dei dell’Erebo. Né i Celesti, né l’essere viva
le impedivano di assistere alle silenti riunioni dei morti
[…] Un’orribile magrezza scavava le guance della sacrilega, e la faccia
ignara del cielo sereno era orribilmente oppressa
dal pallore stigio e gravava sulla chioma scomposta.

L’esistenza stessa di Lucano fu contraddittoria: apparteneva alla cerchia di Nerone, che egli elogia iperbolicamente all’inizio del poema (in tempi bui pare difficile non farlo: pensiamo a come fecero due grandi di tempi a noi più vicini, Brecht e Lukács, con Stalin; non li apprezziamo per questo, ma condannarli è troppo facile; e non dimentichiamo Seneca, lo zio stoico, silente sul matricidio imperiale se non connivente), anche se poi parteciperà alla congiura di Pisone contro il tiranno; fu addirittura delatore di amici e congiunti, pur se l’aver sussurrato al torturatore il nome della madre Acilia come complice non gli valse il perdono e dovette ugualmente suicidarsi col taglio delle vene di prammatica, recitando – raccontano sia Svetonio che Tacito – versi della sua Farsaglia.

E a proposito di Tacito, anche i suoi Annali compaiono nella nuova Bur. Inusualmente, la versione utilizzata è la stessa della vecchia Bur grigia, a cura della latinista e militante partigiana nonché membro del Partito d’azione e fondatrice con Parri e altri dell’Istituto per la storia del movimento di liberazione in Italia, Bianca Ceva Grimaldi (1897-1982), sorella del martire antifascista Umberto Ceva, suicida in carcere nel 1930 (ecco cosa si può nascondere dietro un nome apparentemente anonimo di traduttore!). Della Farsaglia esiste anche una versione in prosa di Giuseppe Griffa pubblicata da Adelphi nel 1967, poi ripresa da Bompiani nei suoi «Tascabili» nel 1984 con una bella e sintetica prefazione di Giuseppe Pontiggia.

Ma passiamo a Stazio, anche lui, purtroppo, adulatore del dispotico Domiziano (che – come ci racconta Svetonio nelle Vite dei dodici cesari, ben tradotto dall’ex repubblichino e incaricato culturale italiano presso il regime di Ante Pavelić Alessandro Vigevani (1914-2005) – «aveva l’abitudine di prendersi ogni giorno qualche ora di ozio e di non occuparsi d’altro che di catturare delle mosche e di infilzarle con uno stiletto acuminatissimo» (Vigevani, III, 303); e tanto basti per definire l’ossessivo despota), e alla sua fascinosa e stupefacentemente oggi poca nota Tebaide, che rinarra con sensibilità “moderna”, nel presente assoluto del mito e dell’epica, la guerra dei Sette contro Tebe. Anche qui, come in Lucano, ma con una versificazione più fluida e senza asperità compositive, incombe un’ineluttabile sensazione di tragicità esistenziale: la sofferenza è completamente insensata e senza esito (nil actum bello, XII, 442), come il conflitto scatenato dalla rivalità tra Eteocle e Polinice. Ritroviamo anche in Stazio il gusto per il tenebroso, con una valenza più misteriosa e fantastica. I suoi paesaggi evocano i dipinti seicenteschi:

Tellus iam pulvere primo
crescit, et armorum transmittunt fulgura silvae […] nec facilis Nemea latas evolvere vires
quippe obtenta comis et ineluctabilis umbra
(V, 9-10 e 44-45)

e cioè:

Già la luce comincia a sollevarsi in una nuvola di polvere e le foreste lasciano filtrare a sprazzi i riflessi splendenti delle armature […] e Nemea non permette facilmente di dispiegare le forze, perché protende ovunque i suoi rami frondosi e l’ombra è impenetrabile (Micozzi 2010, 189-191).

Questa versione non è della Bur, ma quella davvero mirabile, in prosa, di Laura Micozzi, pubblicata nei mondadoriani «Oscar classici greci e latini»; e qui è doveroso ricordare l’apporto fondamentale di questa collana – anch’essa ottimamente curata nelle versioni e nelle introduzioni – alla conoscenza e alla popolarizzazione della letteratura antica: da Pitagora (testimonianze) a Empedocle (Poema fisico e lustrale) a Platone (La Repubblica) e Seneca (Dialoghi), da Pindaro ai lirici greci all’Antologia Palatina (a cura di Quasimodo) fino ad Ausonio (La Mosella), da Quintiliano (Istituzione oratoria in 4 voll.) ad Appiano (Le guerre di Mitridate) a Vegezio (L’arte della guerra) ad Ammiano Marcellino (Storie), e tanti altri, senza dimenticare negli «Oscar Classici» La guerra giudaica di Flavio Giuseppe.

Quando i Goti facevano scorrerie per l’Italia, e ci fu un ultimo bagliore di gloria romano con la vittoria di Stilicone sui Goti a Pollenzo nel 402, allora visse Claudiano e scrisse forse l’ultimo importante poemetto mitologico in latino, Il ratto di Proserpina, proposto in una versione di grande maestria nel 1981 dalla Bur insieme alla Guerra dei Goti, a cura del latinista, germanista e filologo Franco Serpa (1931). Il poemetto è un piccolo gioiello che ripropone il mito di Proserpina già trattato, fra gli altri, da Ovidio, ma rinnovandolo con simbologie collegate alla religione misterica e al culto di Demetra eleusina particolarmente diffuso nel mondo pagano dell’epoca. Con queste parole il dio dell’Ade cerca di persuadere Proserpina, angosciata, delle meraviglie del regno dei morti di cui sarà regina:

Amissum ne crede diem: sunt altera nobis
sidera, sunt orbes alii, lumenque videbis
purius Elysiumque magis mirabere solem
cultoresque pios; illic pretiosior aetas,
aurea progenies habitat, semperque tenemus
quod superi meruere semel. Nec mollia desunt
prata tibi; Zephyris illic melioribus halant
perpetui flores, quos nec tua protulit Henna.
Est etiam lucis arbor praedives opacis
fulgentes viridi ramos curvata metallo
(II, 282-291)

che Serpa (1981, 98-100) rende:

Non credere di aver perduto la luce: abbiamo altri
astri, altre orbite, vedrai un chiarore più limpido
e più ammirerai l’elisio sole
e i pii abitanti; là è l’umanità più nobile,
vi soggiorna l’aurea stirpe e noi possediamo per sempre
ciò che sulla terra fu meritato una sola volta.
Avrai morbidi prati; tra soffi più dolci esalano
fiori perpetui, quali non dà neppure la tua Enna.
In un bosco opaco c’è anche un albero prezioso
che piega i rami fulgenti di verde metallo.

Nell’aria rarefatta dei Campi Elisi sembra quasi di vedere, con sguardo retrospettivo ormai, muoversi in eterno i fantasmi dei grandi che avevano fatto la storia di Roma (non troppo diversamente da come Proust nel Temps retrouvé immagina i personaggi ormai spettrali che avevano fatto “grandi” i salotti di Parigi). E, come scrisse Gibbon (19872, II, 1106), «i suoi colori […] sono splendenti e delicati», il suo stile è «facile e talora vigoroso» e il verso è «sempre fluente e armonioso».

Nella Guerra dei Goti Claudiano esalta l’audacia di Stilicone (Solus erat Stilicho) e allude al suo superbo gesto di distruggere i libri sibillini, dai quali nell’angoscia e nel fremito dei tempi si ricavavano ormai soltanto sinistri vaticini di fine e di morte (vv. 262-66). Serpa (1981, 161-163) traduce così:

Ma la paura, interprete inetta, leggeva ogni augurio
in senso peggiore […] Si calcolano gli anni e, fermato il volo dell’avvoltoio,
si tronca il corso degli anni a un affrettato termine.

i grandi versi 262-266:

Sed malus interpres rerum metus omne trahebat
augurium peiore via […] Tunc reputant annos interceptoque volatu
vulturis incidunt properatis saecula metis.

Le rovine fumanti dell’impero

Tutto sommato forse gli àuguri coglievano meglio lo spirito dei tempi, visto che di lì a poco, nel 410 e poi nel 455, Alarico e Genserico saccheggeranno Roma e gli Unni nel 452 penetreranno in Italia e saranno fermati solo grazie al papa (figura come sempre nostra croce e delizia), e infine, come si sa, nel 476 Odoacre deporrà l’ultimo imperatore d’Occidente, il quattordicenne (o dodicenne?) Romolo Augustolo.

Con due libricini della collana bianca di poesia einaudiana (Poeti latini della decadenza, a cura di Carlo Carena, 1988; e Il ritorno di Rutilio Namaziano, a cura di Alessandro Fo, 1992) ci immergiamo definitivamente tra le rovine fumanti dell’impero, in un’area un tempo negletta della latinità. Ma prima volgiamo uno sguardo alla Mosella (Salve o fiume decantato per le rive e i rivieraschi), poemetto di 483 esametri, in cui il bordolese Ausonio (IV secolo) narra il suo viaggio lungo questo affluente del Reno: un momento di pace e di operosità prima della catastrofe. Lungo le sponde sono innumerevoli i pescatori, tra i quali un fanciullo:

L’indizio dello spasimo, ascendendo,
increspa l’acqua con un tremito, e la canna
assente al crine sussultante. Rapido
estrae di lato l’abile fanciullo
con un acuto sibilo la preda, e l’aria vibra al colpo
come al rompersi nel vuoto di una frusta
uno schiocco si sente e fischia
come vento nell’etere squarciato.
Sui sassi asciutti sussulta l’umido bottino
intimorito dai raggi letali del sole.

È così che Carena (1988, 57) rende

dum trepidant, subit indicium crispoque tremori
vibrantis saetae nutans consentit harundo,
nec mora et excussam stridenti verbere praedam
dexter in obliquum raptat puer; excipit ictum
spiritus, ut fractis quondam per inane flagellis
aura crepat motoque adsibilat aere ventus.
Exultant udae super arida saxa rapinae
luciferique pavent letalia tela diei.

Con Sidonio Apollinare (V secolo), di nobile famiglia galloromana, che scrive un Saluto a Narbona in mezzo alle scorrerie dei Visigoti, siamo invece ormai a un punto di non ritorno (Carena 1988, 126-27): «ma superba fra torri diroccate / mostri la gloria dell’antico assedio, le muraglie squassate dagli arieti, più preziosa per le tue epiche rovine» (sed per semirutas superbus arces, ostendens veteris decus duelli, quassatos geris ictibus molares, / laudandis pretiosior ruinis). E infine non possiamo non richiamare Rutilio Namaziano, l’ultimo dei poeti classici latini, e uno degli ultimi pagani, che nel 416 decise di tornare in Gallia via mare per ispezionare i propri beni dopo le razzie dei Visigoti. Nel suo Ritorno (De reditu) c’è insieme l’orgoglio di appartenere a Roma e la consapevolezza di una fine imminente, che peraltro non si vuole accettare (Fo, 1992, 5 e 31). La preghiera a Roma regina dei versi 47-50

Exaudi regina tui pulcherrima mundi,
inter sidereos, Roma, recepta polos!
Exaudi, genitrix hominum genitrixque deorum;
non procul a caelo per tua templa sumus

è tradotta da Fo (1992, 5) con:

Prestami ascolto, bellissima regina del mondo interamente tuo
accolta fra le celesti, Roma, volte stellate.
Prestami ascolto, tu madre degli uomini, madre degli dèi:
grazie ai tuoi templi non siamo lontani dal cielo;

Mentre la rassegnazione dei versi 409-14:

Agnosci nequeunt aevi monumenta prioris.
Grandia consumpsit moenia tempus edax;
sola manent interceptis vestigia muris,
ruderibus latis tecta sepulta iacent.
Non indignemur moralia corpora solvi:
cernimus exemplis oppida posse mori.

è resa con

Non si possono più riconoscere i monumenti dell’epoca trascorsa,
immensi spalti ha consunto il tempo vorace.
Restano solo tracce tra crolli e rovine di muri,
giacciono tetti sepolti in vasti ruderi.
Non indigniamoci che i corpi mortali si disgreghino:
ecco che possono anche le città morire (Fo 1992, 31).

Sembra di udire qui il grido «Il grande Pan è morto» elevato da Plutarco nel Tramonto degli oracoli (comparso nel 1983 nella «Piccola Biblioteca Adelphi», collana che offre altri opuscoli morali plutarchiani, tutti a cura di Dario Del Corno). Muore una religione, ne nasce un’altra. Muore un mondo, ne nasce un altro. E una delle più belle e insieme ingenue testimonianze del nuovo e albeggiante (per lo meno in Britannia) mondo cristiano, peraltro non meno sanguinoso e conflittuale di quello che lo precede, è la Historia ecclesiastica Anglorum di Beda il Venerabile (672-735), uscita per le cure di Giuseppina Simonetti Abbolito nel 1993 in un’altra collana economica, quella della TEA. Ecco, nel bel latino semplice di Beda, il bellissimo passo in cui un dignitario consiglia Edwin, re dei Northumbri, a convertirsi al cristianesimo:

«Talis,» inquiens, «mihi videtur, rex, vita hominum praesens in terris, ad conparationem eius, quod nobis incertum est, temporis, quale cum te residente ad caenam cum ducibus ac ministris tuis tempore brumali, accenso quidem foco in medio, et calido effecto caenaculo, furentibus autem foris per omnia turbinibus hiemalium pluviarum vel nivium, adveniens unus passerum domum citissime pervolaverit; qui cum per unum ostium ingrediens, mox per aliud exierit. Ipso quidem tempore, quo intus est, hiemis tempestate non tangitur, sed tamen parvissimo spatio serenitatis ad momentum excurso, mox de hieme in hiemem regrediens, tuis oculis elabitur. Ita haec vita hominum ad modicum apparet; quid autem sequatur, quidve praecesserit, prorsus ignoramus. Unde si haec nova doctrina certius aliquid attulit, merito esse sequenda videtur».

Che Simonetti Abbollito così traduce :

O re, la vita degli uomini sulla terra, a confronto di tutto il tempo che ci è sconosciuto, mi sembra come quando tu stai a cena coi tuoi dignitari d’inverno, col fuoco acceso e le sale riscaldate, mentre fuori infuria una tempesta di pioggia e di neve, e un passero entra in casa e passa a volo velocissimo. Mentre entra da una porta e subito esce dall’altra, per questo poco tempo che è dentro non è toccato dalla tempesta ma trascorre un brevissimo tempo di serenità; ma subito dopo dalla tempesta di nuovo rientra nella tempesta e scompare ai tuoi occhi. Così la vita degli uomini resta in vista per un momento, e noi ignoriamo del tutto cosa sarà dopo, che cosa è stato prima. Perciò se questa nuova dottrina ci fa conoscere qualcosa di più certo, senz’altro merita di essere seguita (p. 143).

Con questa immagine di precarietà e di limitatezza, di un po’ di luce tra le tenebre, siamo in procinto di chiudere questo periplo extravagante, mercuriale e idiosincratico, un po’ rapsodico e umorale anche, attraverso le traduzioni dei classici oggi. Come il passero abbiamo visto qualcosa per un certo tempo, ma molto, anzi moltissimo è rimasto fuori. Comunque per un certo tempo ci siamo riscaldati al calore delle voci antiche. Prima, però, di chiudere definitivamente, non possiamo non fare un balzo dai freddi fortilizi northumbri alle più calde aure di Siviglia, la Hispalis romana, sotto il tallone visigotico, e al folle libro che vi scrisse Isidoro, Etimologie (comparso anch’esso in edizione economica presso l’Utet, per la cura di Angelo Valastro Canale), vera enciclopedia di tutto lo scibile dell’epoca, testo che non si sa se definire come l’ultimo scampolo di una tradizione o come il primo tassello di un’altra. In questa no man’s land della cultura, tra due epoche (una delle quali ancora non ben delineata), il vescovo Isidoro, poi santo e dottore della Chiesa, vaneggiava amabilmente sulle etimologie, fondandosi peraltro su una straordinaria erudizione. Il lemma sulle narici è ammirevole per fantasia e bizzarria, è veramente queer: Nares idcirco nominantur quia per eas vel odor vel spiritus nare non desinit, sive quia nos odore admonent ut norimus aliquid ac sciamus. E cioè: Le narici sono chiamate “nares” perché odore e alito non smettono di “nare”, ossia di nuotare, ondeggiare, attraverso di esse, ovvero perché mediante l’odore ci avvisano così che “norimus”, ossia riconosciamo, un qualcosa e sappiamo cos’è (Valastro Canale 2004, 887). Pare che la classicità sia crollata come un castello di carte, e anche il nostro discorso è finito.

Ma una recente riproposta di un classico, in un periodo che sta vedendo peraltro una consistente riduzione di impegno delle case editrici nella pubblicazione degli antichi – e ce ne rammarichiamo -, lo rimette in moto. Si è sottolineato il rilievo del testo a fronte nelle traduzioni degli ultimi decenni. In realtà, è davvero sempre utile o necessario? Non può rivelarsi un letto di Procuste che va a scapito della leggibilità e della libertà del traduttore? Questo almeno sembra volerci dire lo scrittore Dino Baldi con la sua nuova versione dell’Anabasi dello storico-filosofo del IV secolo a. C. Senofonte (allievo, come si sa, di Socrate), che Carlo Carena ha coperto di elogi sulla «Domenica» del «Sole 24 ore» del 30 settembre scorso). Non a caso il volume, senza testo a fronte e che Baldi ha voluto intitolare, esplicitando il senso della parola greca, La spedizione verso l’interno, è apparso nella collana «Compagnia Extra» dell’editore Quodlibet di Macerata, alla quale hanno dato vita Jean Talon, Ermanno Cavazzoni, Gianni Celati e Ugo Cornia, tutti interessati a una letteratura e a una narrativa un po’ stralunate. Come chiarisce Baldi, autore tra l’altro della divertente antologia Morti favolose degli antichi (Quodlibet 2010), nell’introduzione: «La qualità principale dell’Anabasi è proprio quella di lasciarsi leggere come pare a ciascuno, ed è un sollievo poterla proporre, anche qui, semplicemente come un libro di avventure ambientato in paesi lontani e fra popoli dai costumi singolari, pieno di quel gusto per la vita ingenuo, disperato e intenso che si ritrova solo nelle storie di giovani uomini in mezzo ad una guerra» (Baldi 2012, 8). Insomma si tratta di una narrazione, in primo luogo, non di una traduzione. Pensiamoci.

Bibliografia

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Canali 1981: Lucano, La guerra civile o Farsaglia, introduzione e versione di Luca Canali, Bur, Milano
Canali 1991: Virgilio, Eneide, introduzione di Ettore Paratore e versione di Luca Canali, Oscar Mondadori, Milano
Carena 1988: Poeti latini della decadenza, introduzione e versione di Carlo Carena, Einaudi, Torino
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Ceronetti 1969 e 1972 (nuova edizione): Catullo, Le poesie, postfazione (Nota) e versione di Guido Ceronetti, Einaudi, Torino
Ceronetti 1971: D. Giunio Giovenale, Le satire, introduzione (Meditazioni giovenaliane) e versione di Guido Ceronetti, Einaudi, Torino
Cuoco 1999: Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli (1801), Bur, Milano
Del Corno 1983: Plutarco, Il tramonto degli oracoli, in Id., Dialoghi delfici, a cura di Dario Del Corno, versione di Marina Cavalli, Adelphi, Milano
Faranda Villa 1994: Ovidio, Metamorfosi, introduzione di Gianpiero Rosati, versione di Giovanna Faranda Villa, Bur, Milano
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Fo 2012: Virgilio, Eneide, introduzione (Un profilo di Virgilio e Limitare le perdite) e versione di Alessandro Fo, Einaudi, Torino
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Paduano 1986: Apollonio Rodio, Le Argonautiche, introduzione e commento di Guido Paduano (1944) e Massimo Fusillo (1959), versione di Guido Paduano, Bur, Milano
Pasolini 1960: Eschilo, Orestiade, introduzione (Lettera del traduttore) e versione di Pier Paolo Pasolini, Einaudi, Torino
Piccardi Gigli 2003: Nonno di Panopoli, Le Dionisiache, vol. I (canti I-XII), introduzione, versione e commento di Daria Piccardi Gigli, Bur, Milano
Pindemonte 1993: Ippolito Pindemonte, Odissea di Omero, introduzione e commento di Michele Mari, Bur, Milano (la prima edizione Bur è del 1961)
Pontani 1965: Saffo, Alceo, Anacreonte, Liriche e frammenti, prefazione e versione di Filippo Maria Pontani, Einaudi, Torino
Pontani 1968: Alcmane, Stesicoro, Ibico, Frammenti, prefazione e versione di Filippo Maria Pontani, Einaudi, Torino
Privitera 1991: Omero, Odissea, introduzione di Alfred Heubeck, versione di G. Aurelio Privitera, Oscar Mondadori, Milano
Quasimodo 1957: Virgilio, Il fiore delle Georgiche, introduzione (Nota del traduttore) e versione di Salvatore Quasimodo, Mondadori, Milano
Quasimodo 1959: Lirici greci, versione di Salvatore Quasimodo, Mondadori, Milano
Ricci 1950: Eschilo, L’Orestea, introduzione e versione di Domenico Ricci, Bur, Milano
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Sanguineti 1978: Eschilo, Le Coefore, nota introduttiva di f. b., versione di Edoardo Sanguineti, Il Saggiatore, Milano
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Settembrini 1944: Luciano, Dialoghi e saggi, introduzione, note e illustrazioni di Alberto Savinio (1891-1952), versione di Luigi Settembrini, Bompiani, Milano
Simonetti Abbolito 1993: Beda il Venerabile, Storia ecclesiastica degli Angli, introduzione e versione di Giuseppina Simonetti Abbolito, TEA, Milano
Tonna 1974: Omero, Odissea, prefazione di Fausto Codino (1927), versione di Giuseppe Tonna (1920-79), Garzanti, Milano
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Traina 1994: Giovanni Pascoli, Giugurta, a cura di Alfonso Traina (1925), Marsilio, Venezia
Valastro Canale 2004: Isidoro, Etimologie o origini, introduzione e versione di Angelo Valastro Canale, Utet, Torino
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