La recensione / 8 – Una storia del tedesco per episodi

di Elisa Leonzio

Una storia del tedesco per episodiIm Bergwerk der Sprache. Eine Geschichte des Deutschen in Episoden, herasugegeben von Gabriele Leupold und Eveline Passet, Wallstein Verlag, Göttingen 2012, pp. 360, € 24,90

Il volume collettaneo Im Bergwerk der Sprache nasce dal sostegno congiunto del Literarisches Colloquium Berlin – forum “officina” che da cinquant’anni anni forgia nuovi talenti nel campo della letteratura e della traduzione letteraria –, del Deutscher Übersetzerfond, della Bosch Stiftung e del Centre de Traduction Littéraire dell’Università di Losanna. Questo dato ci fornisce subito le coordinate fondamentali dell’opera: da un lato ci dice che essa è pensata come strumento di lavoro per i traduttori letterari; dall’altro che si tratta di un lavoro che travalica i confini nazionali e che quindi, programmaticamente, osserva e considera realtà linguistiche differenti, molteplici varietà di tedesco, regionalismi e linguaggi gergali secondo una prospettiva sincronica ad ampio raggio.

Non meno interessante è comunque l’altra prospettiva, quella diacronica, a cui rimanda il sottotitolo del volume: si traccia una “storia” della lingua attraverso l’esame di problemi singoli (per esempio la punteggiatura, il discorso indiretto libero o le formule di saluto nella comunicazione epistolare) e della loro evoluzione nel corso dei secoli.

Il continuo alternarsi e incrociarsi dei due approcci, che in principio può apparire indizio di incoerenza, rappresenta in realtà il vero punto di forza del volume. Narrare una storia “per episodi” (sedici) significa, certo, ammettere a priori che si procederà per scelte (e per rinunce) e che non si pretende e non si millanta esaustività. Significa inoltre abbandonare un rigoroso stile accademico in favore di un andamento più fluido, più narrativo, appunto. Ci si allontana dalla mera astrazione, dalla teoria fine a se stessa, e ci si sposta sul terreno più scivoloso, ma in fondo ben più intrigante, del caso singolo e delle singole soluzioni. Si scava nelle profondità della lingua e ci si sporca le mani. Lo stesso apparato iconografico del libro rimanda a questa idea, in quanto l’immagine di copertina è la riproduzione di una xilografia tratta da una serie di incisioni aventi per titolo «La vita sotterranea o le miniere e i minatori». Il linguista, ma ancor di più il traduttore, è il minatore che scende nella miniera, penetra nei recessi del testo, esaminando gli strati sedimentati del linguaggio, e riemerge, sudicio di terra, con il suo tesoro.

Una breve rassegna dei temi trattati fornisce un’idea della disparità di interessi e di impostazione dei diversi autori, ma anche dell’omogeneità di fondo del volume e dei raggruppamenti tematici in base a cui esso è strutturato.

Il primo contributo descrive lo sviluppo della sintassi del tedesco dal Cinquecento alla contemporaneità, dimostrando come il passaggio da un sistema paratattico a uno chiaramente riconoscibile come ipotattico sia strettamente legato a un’innovazione tecnica (quella della stampa) e alla conseguente trasformazione dell’ascoltatore in lettore silenzioso e autonomo. Il secondo, che si ricollega idealmente al primo, indaga la storia della punteggiatura legandola al passaggio dalla comunicazione orale (dove la punteggiatura è funzionale alle pause della pronuncia e all’intonazione retorica) alla fruizione del testo scritto. Anche il fenomeno della Ausklammerung – l’estrapolazione di uno o più elementi dalla parentesi verbale –, a cui è dedicato il terzo contributo, è analizzato tenendo conto dei diversi effetti che questi spostamenti conseguono sull’ascoltatore e sul lettore.

Il quarto, che ha per tema l’erlebte Rede, il discorso indiretto libero, introduce il problema della rappresentazione letteraria di elementi tipici dell’oralità, tema che poi viene portato avanti fino al nono, con una parziale deviazione nell’ottavo. Così, il quinto saggio esplora l’utilizzo nel testo scritto di fenomeni tipicamente orali come le ellissi, gli  stacchi nelle frasi o ancora le Abtönungspartikel, le particelle modali che rappresentano per il non madrelingua un grande scoglio (traduttivo e non solo). Il sesto concerne le espressioni esclamative, anch’esse appartenenti alla sfera dialogica, e lega la storia del loro utilizzo alla nascita della dicotomia tra giusto e sbagliato sancita dalle grammatiche normative settecentesche. Sulla stessa scia si muove il settimo, che insiste sulla tensione tra regola e varietà in relazione agli errori concernenti l’utilizzo di casi e preposizioni. Nel nono, infine, si dimostra come elementi che per noi oggi appartengono alla sfera dell’oralità caratterizzavano invece nel sedicesimo e diciassettesimo secolo la lingua scritta. L’ottavo contributo, come si diceva, rappresenta invece un elemento non del tutto estraneo, ma che comunque si discosta un po’ dai testi che lo precedono e seguono immediatamente. Il suo tema sono le formule di saluto nelle corrispondenze pubbliche e private di epoca nazista e il confronto con quelle usate ai nostri giorni.

Il decimo contributo, il tredicesimo e il quattordicesimo si concentrano tutti sul multilinguismo nei paesi della Mitteleuropa e dell’Europa orientale quali Slovacchia, Ungheria, Romania o Croazia, ricostruendo la storia degli insediamenti tedeschi in quelle regioni e rileggendo testi di autori che della commistione tra le lingue e le culture hanno fatto la chiave della propria opera.

L’undicesimo esplora invece un fenomeno del tutto moderno, quello del Kiezdeutsch, termine con cui si designano le varietà di tedesco parlate nei diversi quartieri delle grandi città per lo più da giovani immigrati. La “lingua dei lager”, cui è dedicato il dodicesimo saggio, rappresenta, per le sue strutture sintattiche e per il modo in cui viene creato il lessico, un interessante analogon del Kiezdeutsch: in entrambi i casi si tratta di lingue legate a realtà spazialmente molto ristrette, ricombinazioni di tedesco e altre lingue, che risultano poco comprensibili al di fuori dello spazio circoscritto in cui sono sorte (anche se, nel caso delle “lingue” dei lager ciò non è del tutto vero poiché il trasferimento dei prigionieri e delle guardie da un campo di sterminio all’altro contribuiva alla diffusione di determinate espressioni). Il quindicesimo e il sedicesimo contributo, infine, concernono rispettivamente i regionalismi e i dialetti e le tecniche utilizzate per conferire ai testi una patina di arcaico.

Naturalmente i sedici episodi in cui questa storia si divide, pur fornendo elementi interessanti alla comprensione di alcuni fenomeni del tedesco, non hanno tutti eguale rilevanza per i traduttori. I primi tre, al di là dell’interessante ricostruzione storica, non offrono per esempio spunti particolarmente originali: il traduttore è ben conscio della dialettica che nei testi si instaura tra scrittura e oralità simulata, tra stile narrativo e scrittura mimetica, che riproduce il parlato mediante precise scelte di lessico e di interpunzione. Discorso analogo vale per gli ultimi due contributi del volume: la resa dei dialetti è questione vastamente dibattuta dai teorici della traduzione e che ha visto succedersi nel tempo strategie traduttive molto diverse. L’inquadramento storico tuttavia, soprattutto nel caso della punteggiatura, permette di comprendere come certe scelte siano dettate sempre meno da (vere o fittizie) ragioni ritmiche e di intonazione e sempre più dall’irrigidimento normativo della sintassi. Riflettere su ciò consente al traduttore di operare scelte differenziate con maggior consapevolezza.

Il quarto contributo, pur essendo meno originale dei primi da un punto di vista teorico – dell’erlebte Rede in Germania si è molto parlato e gli studi di Käte Hamburger sul tema restano forse insuperati –, incarna invece esemplarmente quei pregi del volume di cui si parlava in apertura: l’autrice, la slavista Sybille Kurt, affronta la tematica proponendo passi da autori di lingua russa, francese e tedesca e soffermandosi sulle scelte traduttive presenti, a turno, nelle tre lingue. Il procedimento è interessante non solo perché mostra in parallelo come ciascuna lingua opera nell’utilizzo degli avverbi di tempo, dei modi e dei tempi verbali, al fine di ricreare l’erlebte Rede, ma anche, e soprattutto, perché l’autrice pone a confronto le traduzioni, mostrando possibili criteri di valutazione (soprattutto legati a questioni di registro e alla capacità di riconoscere e riprodurre i cambi di prospettiva tra autore e figura narrante), ma allo stesso tempo evitando sapientemente di assolutizzarli.

Il merito dei contributi successivi è in qualche modo simile: tutti insistono sulla plasticità e sulla mutevolezza della lingua, vista come un sistema non rigido, ma fluente, in cui grammatica e semantica non possono essere scissi e astratti dalla funzione comunicativa che lo determina. Le traduzioni e il modo di tradurre vivono lo stesso destino fluido della lingua.

Sono comunque i capitoli dal decimo al quattordicesimo a presentare i risvolti più interessanti per chi si occupa di traduzione. Il saggio di András H. Balogh e quello di Manfrd M. Glauninger, dedicati rispettivamente al multilinguismo nell’Europa sudorientale e nell’ex impero austroungarico, insistono in particolare sul code-switching praticato da autori capaci di produrre opere letterarie alternativamente in più di una lingua. Tuttavia, se è vero – come scriveva Paul Celan – che destino della poesia (e del poeta) è quello di «essere una sola volta, in una sola lingua», realmente interessante è allora un altro caso: quello di scrittori che, muovendo da un orizzonte culturale e linguistico, lo “traghettano” essi stessi sulla sponda di un’altra lingua e di un’altra cultura. Il code-switching diviene qui qualcosa di diverso, e di più profondo: non si tratta di accendere e spegnere alternativamente una fra due o più lingue; si tratta invece di trasferire contenuti e valori d’uso delle parole in una lingua che non li possiede. Il code-switching assurge qui a vero principio estetico. Il caso esemplare è naturalmente quello del premio Nobel Herta Müller, nei cui testi accostamenti lessicali per la lingua tedesca inaspettati dischiudono nuovi sensi se “ritradotti” nell’universo culturale e linguistico romeno che li ha ispirati. In questi casi, chiaramente, l’autore per primo è un traduttore sui generis, che si confronta con i problemi tipici della traduzione, combattuto tra necessità di rendere il testo comprensibile (appiattendo, adattando) e quella, imprescindibile, di mantenere intatta la differenza, di preservare la specificità culturale, con effetti volutamente stranianti per i lettori. Al medesimo compito è chiamato il traduttore reale, che con simili testi si trova dinnanzi a una doppia sfida. Nessuna strategia pratica può essere in questo caso proposta, ma rimane l’obbligo morale di conservare l’alterità.

Il saggio di Glauninger sul Kiezdeutsch aiuta a sua volta a comprendere quali elementi (assenza di articoli, fusione tra le parole, assenza di flessione di sostantivi e verbi, per citare i principali) rappresentano i marcatori di questa lingua plurilingue tanto nella comunicazione reale quanto nella rielaborazione letteraria. In quest’ultimo caso, ovviamente, la spontaneità del dialogo orale è viziata dall’artificialità della creazione artistica e grande è il rischio della stereotipizzazione. Analogo è il rischio per il traduttore che dovrà essere capace di riconoscere e restituire i marcatori senza accentuarli eccessivamente e, d’altra parte, senza appiattirli. La tensione tra realismo e stilizzazione nella riproduzione letteraria del discorso è infatti potenziata nella traduzione e l’individuazione di un equivalente funzionale nella lingua di arrivo è tutt’altro che scontata.

Nel caso di testi redatti nella Lagersprache, la lingua a base tedesca sviluppata nei campi di sterminio dai prigionieri non tedeschi per poter comunicare tra loro, la responsabilità è ancor maggiore. La Lagersprache, in quanto lingua di una comunità coatta, è per necessità stringata, primitiva, scarna all’estremo, ridotta quasi solo a nomi, richiami e ordini. La deturpazione e la primitività di questa lingua rispecchia le condizioni di esistenza cui erano costretti i deportati. Nella messa per iscritto delle testimonianze si è proceduto invece per lungo tempo alla “correzione” di questi aspetti. Contro tale procedimento già si esprimeva però Primo Levi a proposito della traduzione, in particolare di quella tedesca, de I sommersi e i salvati: la durezza, la violenza delle parole non devono andar perdute, quasi non devono essere tradotte, ma come registrate su un nastro: vocaboli come fame, stanchezza, paura e dolore possiedono significati secondari associativi, emotivi e stilistici estranei al mondo civilizzato esterno al campo. Naturalmente la “lingua del lager” era per Levi qualcosa di più ampio di ciò che oggi gli specialisti intendono con il termine Lagersprache; inoltre la traduzione in tedesco dei libri di Levi rappresenta un caso estremo, dal momento che, come Levi stesso diceva, si tratta di una ritraduzione nella lingua in cui quelle parole «avevano avuto luogo» e «a cui appartenevano». Tuttavia le sue riflessioni racchiudono un insegnamento fondamentale: ci parlano del peso delle parole, della loro innocenza e della loro colpa, e dell’innocenza e della colpa di chi le utilizza, cercando un difficile equilibrio tra l’eccesso (in nome dell’autenticità che in tal modo approda però al ridicolo) e la rinuncia.

Im Bergwerk der Sprache, con i suoi contributi sul pluricentrismo del tedesco, sulla sua essenza disomogenea e multiculturale, sul valore – quindi – dell’alterità, sugli aspetti funzionali e comunicativi della lingua, è soprattutto una straordinaria riflessione sul dovere morale del traduttore nei confronti degli autori e dei loro testi.