La posizione delle parole e le intenzioni dell’autore

PROLEGOMENI A UN’ESPERIENZA DI TRADUZIONE TEATRALE

di Valerio Fissore

…and insofar as language is dramatic, it is gestural.
…e nella misura in cui è drammatica, la lingua è anche gestuale.
Robert Corrigan, Translating for Actors, 1961, p. 96 (traduzione mia – N.d.A.)

0.

La sequenza frasale obbligata è computata essenzialmente al livello della frase elementare. La frase coordinata, o composta, è di per se stessa un’unità ordinata da una visione autoriale espressa, manifesta. Tuttavia anche a livello di frase semplice, là dove questa contiene manifestazione di circostanze temporali, spaziali, modali, già si sente una misura di organizzazione autoriale/testuale della sequenza; sebbene un’opzione possa essere giudicata più “naturale”, altre possono sostituirla opportunamente in contesti diversi:

a. On the night of his arrival we all felt elated.
b. We all felt elated on the night of his arrival.

c. From a distance he saw a figure creeping by.
d. He saw a figure creeping by from a distance.

With a slap on the face he woke him up.
f. He woke him up with a slap on the face.

La stessa frase semplice, quindi, manifesta elementi di complessità che aprono all’opportunità di articolazioni “drammatiche” varie, così che l’ipotesi di una diversità di comunicazione in rapporto alla sequenza delle componenti frasali si può sospettare ben prima che si realizzino la coordinazione o la subordinazione grammaticalmente intese a livello di sintassi interfrasale. Si può già parlare di una modalità di coordinazione/subordinazione a livello intrafrasale.

1.

Tutta la lingua è lingua parlata: che si tratti della lingua di una conversazione, di un’opera in versi o di un saggio descrittivo di procedure chirurgiche. Ed è in lingua parlata ogni testo intermedio, e anche ogni testo in una lingua naturale che si trovi collocato agli estremi della poesia e della scrittura scientifica. Come se ne sentano vibrare i suoni e alternarsi i ritmi e i volumi è stato descritto, intuito e abbozzato da qualche autore, soprattutto di teatro, da qualche poeta e musicista. L’oralità dei testi convenzionalmente definiti comunicativi non è mai stata (mi risulta) descritta in tali termini; ma come non considerare oggi orale un resoconto giornalistico, un libro di ricette, un articolo di un gruppo di studiosi che illustrano la loro ricerca medica? Ciascuno di questi tipi testuali ha uno “stile” che gli si addice. Un qualunque testo formulato secondo uno “stile” che non gli sia appropriato è considerato imperfetto; la vaga parola “stile” non si applica soltanto alla dimensione scritta, ogni testo ha una oralità che gli spetta. «Non suona bene» è il commento (vocale o mentale) che precede ogni alterazione di un dato di scrittura. Ferdinandde Saussure ci conforta.

Prendiamo un esempio da The Language Instinct di Steven Pinker (Pinker 1994, 102): Yoko Ono will talk about her husband John Lennon who was killed in an interview with Barbara Walters.

La frase è chiaramente ambigua e i suoi due significati sono possibili non solo in termini di corrispondenza con la realtà, ma anche secondo le modalità della loro formulazione, vale a dire secondo le unità discorsive in cui l’affermazione viene articolata. Parlata, la frase potrebbe suonare goffa, strana, certamente non ambigua, sia che l’articolazione scelta significhi che John Lennon è stato ucciso durante un’intervista con Barbara Walters, sia che significhi invece (e appare più probabile) che Yoko Ono parlerà, con l’intervistatrice Barbara Walters, dell’uccisione del marito John Lennon, avvenuta in qualche altra circostanza. Nella scrittura, tale frase potrebbe essere resa meno ambigua attraverso un uso della punteggiatura che suggerisca quale accezione è intesa, ma la punteggiatura cercherebbe solo di fissare sulla carta il significato codificato dalla parola parlata. La scrittura cercherebbe cioè di replicare in un differente sistema semiotico la forma del parlato.

Il verso della poesia è un elemento aggiuntivo di grammatica del discorso e un elemento testuale che supera la barriera frasale e suggerisce, per la natura del suo essere, una dimensione “espressiva”, parlata. La stessa cosa vale per la battuta di un’opera teatrale. La battuta teatrale (per la quale, chiaramente, l’unità sintattica non è la sola necessaria unità: la battuta, la frase della battuta, è di norma spezzata in unità più piccole, vale a dire che è costituita di unità minime di intenzioni comunicative, oppure si realizza nella concatenazione e continuazione fonica di più frasi) corrisponde a un’identità testuale che rivela la natura, la qualità e la struttura della sua enunciazione.

2.

Se scelgo per prima cosa di discutere un testo in versi è perché il verso (come accennavo) permette di codificare le modalità dell’espressione in termini evidenti e dichiarati, più precisamente di quanto non facciano le forme delle altre modalità testuali, compreso il teatro (in prosa). Se per le varietà testuali comunicative la disposizione “orizzontale”, continua, è abbastanza adeguata e funzionale all’uniformità dell’espressione, per il romanzo si comincia a vedere che si tratta di una interpretabile modalità composita. Il testo narrativo fornisce una grande quantità di informazione contestuale dell’azione descritta e l’atto della lettura opera dinamicamente con la natura e la quantità della comunicazione di cuiil lettore è destinatario: il lettore provvede, di solito senza esserne consapevole, a una segmentazione testuale che si impone come rappresentazione dinamica della formulazione dei vari tipi di testualità contenuti nella narrazione. Se per quanto riguarda i testi comunicativi la sequenza frasale, in genere, oggettiva a sufficienza la segmentazione semantica dominante, in quelli espressivi, in particolare nella modalità teatrale, un gran numero di combinazioni di elementi informativi, espressivi e vocativi interagisce in un unitario complesso di voci che dev’essere di volta in volta percepito e decodificato. Il testo teatrale dà, di norma e per sua natura, pochissima (a volte anche nessuna) informazione contestuale. Per far sì che l’“interpretazione” (ciò vale per la decodifica testuale e per l’interpretazione ermeneutica) non vada oltre certi limiti stabiliti dalla decodificazione del testo, sarà necessario verificarne la coerenza testuale-contestuale.

Per questo obbiettivo è necessario stabilire norme di segmentazione non soggettive, che rispecchino una documentabile intenzione del testo. È vero che l’attualizzazione potenziale è pressoché infinita (come la comprensione di un qualunque testo creativo), ma si presuppone che l’intenzione (e quindi la comprensione) si possa realizzare molteplicemente soltanto entro limiti certificabili (assimilabili ai limiti dell’interpretazione di cui parla Umberto Eco: cfr. Eco 1990) e che sia possibile identificare limiti leciti e deviazioni illecite. Il mio obbiettivo è di proporre strategie per la decodificazione (linguistica), che valutino anche la/le sequenza/e dell’informazione nella frase – oltre che nel discorso –, la loro opportunità pragmatica, il registro, la naturalezza.

Consideriamo la prima stanza di T.S. Eliot, Ash Wednesday (1930, Mercoledì delle ceneri), III:

At the first turning of the second stair
I turned and saw below
The same shape twisted on the banister
Under the vapour in the fetid air
Struggling with the devil of the stairs who wears
The deceitful face of hope and of despair.

Alla prima svolta della seconda rampa
mi voltai e vidi in basso
quella stessa figura avvinghiata alla ringhiera
nei vapori di un’aria fetida
in lotta col demonio delle scale che indossa
la maschera ingannevole di speranza e di disperazione (traduzione mia – N.d.A.)

Se mai fosse possibile intervenire nella segmentazione dei versi di Eliot, interferiremmo con la comunicazione che essi intendono convogliare, o la lasceremmo immutata? Il discorso linguistico, nel suo svolgersi, è un’addizione, ma una strana forma di addizione. Proviamo a cambiare l’ordine degli addendi – almeno di alcuni:

I turned at the first turning of the second stair
A
nd saw below
T
he same shape twisted on the banister
S
truggling with the devil of the stairs who wears
T
he deceitful face of hope and of despair
U
nder the vapour in the fetid air.

Non sarà necessario considerare certi tratti “estetici” originali dei versi, le rime e le assonanze, la sequenza di tre e poi quattro accenti (versi 1-4: tre accenti; versi 5-6: tre accenti), di cui conosciamo il peso. Basterà che osserviamo la sequenza sintattica. L’alterazione sintattica proposta è possibile sul piano di una continuità grammaticale della frase, senza che ne derivino costruzioni linguistiche eccentriche e/o innaturali. Ovviamente tralascio qui anche qualsiasi commento relativo alla collocazione dei versi citati in rapporto a quelli che li precedono e li generano, nelle sezioni I e II, e a quelli che li seguono. Limitandoci all’unità discorsiva citata, se il discorso non è che una somma di addendi, allora, ad esempio, i primi due versi dell’originale di Eliot e la mia riscrittura saranno identici nel risultato:

At the first turning of the second stair
I turned and saw below

La divisione dei versi segnala la distinzione percettiva (sia per l’attore sia per il lettore) tra uno stato di cose e le azioni del volgersi e del vedere; li isola fisicamente e interpone un tempo materiale. Il volgersi e il vedere si succedono ma sono quasi contemporanei.

E ora i primi versi della mia riscrittura:

I turned at the first turning of the second stair
A
nd saw below

Anche questi versi stabiliscono unità percettive autonome, ma, diversamente dall’originale, qui l’azione del volgersi è contemporanea al raggiungere la svolta delle scale (forse la volontà di volgersi perfino precedeva l’arrivo al punto di svolta, era di per sé attesa come inevitabile) e l’atto della visione si realizza non contemporaneamente con il volgersi, ma dopo un certo intervallo. La sorpresa di ciò che l’attore vede è dinamicamente marcata per essere isolata dall’atto della visione e anche per essere presentata come unità percettiva a sé stante.

Analizziamo ora i versi che seguono. Prima l’originale di Eliot:

The same shape twisted on the banister
U
nder the vapour of the fetid air
Struggling with the devil of the stairs who wears
The deceitful face of hope and of despair.

La visione della figura distorta è percepita in anticipazione immediata dell’atmosfera fetida, e solo successivamente la figura è vista nella sua lotta con il diavolo che si manifesta nell’inganno. La percezione del fetore pervade tutto, incombe sulla lotta e le è contemporanea.

Ora la mia riscrittura:

[…]
Struggling with devil of the stairs who wears
The deceitful face of hope and of despair
Under the vapour of the fetid air.

In questa versione la figura distorta è osservata immediatamente in lotta con il diavolo e soltanto alla fine l’attore percepisce il fetore dell’aria. Qui la percezione del fetore è meno ossessiva e connaturata con l’ambiente della lotta. The fetid air è collocata ai margini della scena ed è come accessoria.

Le conclusioni, quindi, non possono che essere queste: la sequenza frasale non opera con la proprietà commutativa dell’addizione; e l’ordine degli addendi contribuisce a definire il risultato. La sequenza, la spezzatura dei versi, implica necessariamenteanche una “oralità” differente tra le due versioni.

3.

Consideriamo, ora, le battute di apertura di un dramma in versi, ancora di T.S. Eliot, The Elder Statesman(Il vecchio statista), rappresentato per la prima volta nel 1958. Atto I:

[Voices in the hall] Charles: Is your father at home today?
Monica:                                                           Youll see him at tea.
Charles: But if Im not going to have you to myself
Theres really no point in my staying to tea.
[Enter Monica and Charles carrying parcels] Monica: But you must stay to tea. That was understood
When you said you could give me the whole afternoon.
Charles:But I couldnt say what I wanted to say to you
Over luncheon.
Monica:         Thats your own fault.
You should have taken me to some other restaurant
Instead of one where the maître d’hotel
And the waiters all seem to be your intimate friends.

[Voci nell’ingresso] Charles: Oggi tuo padre sarà in casa?
Monica:                                                     Lo vedrai per il tè.
Charles: Ma se non ti avrò tutta per me
non c’è ragione che io mi fermi per il tè.
[Entrano Monica e Charles con dei pacchi] Monica: Ma certo che ti devi fermare. Questo era inteso
quando hai detto che mi avresti dedicato l’intero pomeriggio.
Charles: Ma non potevo dirti quello che volevo dirti
durante il pranzo.
Monica:                   Solo colpa tua.
Mi avresti dovuto portare in un qualche altro ristorante
invece di quello dove il maître d’hotel
e tutti i camerieri, sembra, sono tuoi amici intimi.
(traduzione mia – N.d.A.)

La non alterabile sequenza delle battute è ovvia. Internamente alle battute, solo quella finale di Monica potrebbe tollerare lo spostamento di Thats your own fault alla fine del suo intervento, ma è chiaro che questo interferirebbe con la rappresentazione drammatica. Se non c’è una ragione oggettiva, del codice linguistico, per alterare la sequenza del discorso, ogni interferenza è impropria. Mi sembra quasi superfluo descrivere l’azione scenica. La spezzatura dei versi suggerisce già visivamente la durata delle battute, il loro intrecciarsi, il passaggio da un tono all’altro e da una rapidità a un’altra, la qualità del collegamento articolatorio delle frasi distinte. Ad esempio, le due unità frasali indipendenti del verso pronunciato da Monica, But you must stay to tea. That was understood, procedono verso un apice di enfasi rappresentata nell’originale dalla corsivizzazione di must con finale in attenuazione (stay) con continuato e attenuato allungamento sonoro (to tea) per dire l’ovvietà dell’attesa. Il secondo emistichio (That was understood) è strutturato fonicamente a duplicare il primo: But you must stay to t,ea. Th’at was underst,ood. Le parole iniziali, But you, hanno un valore marginale e quasi nessun peso comunicativo nel verso.

Qui non solo constatiamo l’impossibilità di alterare la sequenza dell’informazione senza modificare l’informazione stessa, ma verifichiamo come le modalità secondo cui le unità discorsive sono rappresentate dal verso siano di per sé indicatrici della loro oralità e “drammaticità”. Con la conclusione della battuta nelle parole del verso che segue, That was understood / When you s’aid you could g’ive me the wh’ole aftern’oon, che è codificata nella sequenza di quattro invece che cinque accenti, sappiamo che Monica non sta prendendo posizione polemica con Charles, ma che gli espone soltanto ciò che naturalmente si era aspettata sarebbe avvenuto nel pomeriggio. La sillaba me di give me potrebbe nella recitazione ricevere un’attenzione e una durata assimilabile a quella di una sillaba accentata, se Monica intendesse porre se stessa al centro dell’attenzione di Charles, ma questo contrasterebbe con il fatto che la volontà di lei è più “sociale” e meno esclusiva di quella di lui: è di questo che Charles si lamenta.

L’isolamento visivo di Over luncheon nella risposta di Charles, a seguito di But I couldnt say what I wanted to say / Over luncheon, conferma che l’intesa di tenere libero l’intero pomeriggio per stare con Monica riguardava solo Charles, mentre Monica non escludeva una presenza condivisa. L’espressione verbale di Charles rende visibili anche i movimenti del volto e perfino una più o meno marcata gesticolazione corporale del personaggio. È solo allora che Monica comprende. La battuta finale di Monica (and the waiters all seem to be your intimate friends) garantisce che il verso richiede al suo inizio una sospensione (quanto lunga, lo deciderà/decideranno l’attore e/o il regista), prima di essere pronunciato; e una divisione in due emistichi (and the w’aiters ‘all seem to b’e // your ‘intimate fr’iends), il primo più rapido, con breve, allusiva insistenza su all, ad annunciare il commento del secondo, pronunciato con scansione netta delle parole e accento giocosamente polemico su intimate e friends. Queste due parole conclusive della battuta, anticipate da all, capovolgono la sequenza prosodica giambica ordinaria dell’inglese in quella enfatica del trocheo. Anche friends non è in pratica una sola sillaba, la desinenza del plurale allunga la durata della parola oltre la sillaba d’apertura, accentata. Questa potrebbe essere la rappresentazione prosodica del verso: and the w’aiters ‘all seem to b’e your ‘intimate fr’iends.

La battuta di Monica, in termini di sequenza dei versi, avrebbe potuto essere organizzata altrimenti; ad esempio:

You should have taken me to some other restaurant
W
here the waiters all and the maître d’hotel
Seem to be your intimate friends.

Ma qui ci imbattiamo subito nell’inversione non naturale dell’anticipare ciò che importa meno (tutti i camerieri) a ciò che importa di più (il maître dhotel, il loro capo), a significare che perfino lui stava loro intorno, mentre l’originale intende lui ovviamente, e perfino tutti i camerieri. Questo avrebbe comportato forse marginali, ma distinte, indicazioni di una diversa regia, che avrebbero avuto almeno una conseguenza gestuale. Si pensi a una traduzione per un doppiaggio cinematografico, e lo scollamento testuale è servito. Tradurre non consiste solo nel trasferire un canovaccio testuale, ma l’intero complesso della sua modalità e sequenza d’azione. Benché, per molti aspetti, la traduzione per il doppiaggio cinematografico sia assurda, il suo introdurre la necessità di far coincidere la parola con la cinetica dell’espressione globale determina anche la presa di consapevolezza, da parte del traduttore, di quanto sottilmente interagiscano la parola e la morfologia dell’interazione comunicativa.

4.

Ecco ora un testo drammatico in prosa, il monologo/dialogo di Jane, personaggio di Absurd Person Singular dell’inglese Alan Ayckbourn, autore e regista di teatro che costruisce i suoi testi sulla scena prima che sulla pagina. Il play è del 1972 ed è stato pubblicato nel 1974 da French, Londra; per il teatro è stato tradotto da Masolino D’Amico con il titolo Natale in cucina. Ho già usato questo esempio nel libro The Drama of Discourse (Fissore, Henderson e Armellino 2010, 57). La parola, anche di un testo in prosa, non è mai solo scritta, perché codifica al suo interno le modalità della sua realizzazione sonora.

Alan Ayckbourn, Absurd Person Singular, atto III:

Jane: Hark at that dog of yours. Huge, isnt he? Like a donkey – huge. Do you know what Dicks bought him? Dick Potter? Hes bought George a Christmas present. One of those rubber rings. You know the ones you throw in the air. One of those. He loves it. Hes been running up and down your hallway up there – Dick throwing it, him trying to catch it. But hes really wonderful with dogs, Dick. He really understands them. Do you know he nearly became a dog handler only he didnt have his proper eyesight. But he knows how to treat them. Doesnt matter what sort of dog it is…He knows all their ways.

JANE: Ma senti quel tuo cane. È proprio bello grosso, sì! Come un mulo – proprio grosso. Ma sai cosa gli ha comprato Dick? Dick Potter? Ha comprato a George un regalo di Natale. Uno di quegli anelli di gomma. Sai, no? Di quelli che si lanciano in aria. Uno di quelli. Gli piace enormemente. È là che corre su e giù per il tuo ingresso – Dick che lo lancia e lui che cerca di acchiapparlo. È davvero magnifico coi cani, Dick, dico. Davvero li capisce. Ma lo sapevi che è quasi diventato uno della polizia cinofila, se non fosse per un problema di vista. Ma lui sì li sa trattare. Il tipo di cane non importa… li conosce a fondo (traduzione mia – N.d.A.)

La forma di queste parole, della loro concatenazione, colpisce con immediatezza l’orecchio già alla lettura. La voce di Jane, il suo disagio, si autocontestualizzano. È possibile percepire il volume, la velocità, la natura sonora della sua voce. Sentiamo che la spezzatura breve delle frasi è già una buona indicazione di regia, comprendiamo quando le frasi (frasi brevi) si debbano alleare con altre per riflettere il suo stato d’animo. Abbiamo davanti ai nostri sensi una visione di segmentazione assimilabile a quella di un testo poetico, sebbene formulata come testo continuo, orizzontale.

Tale segmentazione, però, non è tutta rivelata dall’autonomia delle frasi pronunciate. Operano anche consuetudini colloquiali pragmatiche. Ecco quindi quella che suggerisco essere l’ulteriore segmentazione dinamica, la dettagliata istruzione di regia che il testo suggerisce, nella complessità del combinarsi e dell’interagire di parola e situazione. Se una misura di soggettività è sempre possibile nell’implementazione delle cose, è necessario fare in modo che si tratti di una soggettività controllata e limitata, che non contraddica quanto sta inscritto nelle modalità convenzionali dell’uso del codice comunicativo.

Hark at that dog of yours.
[Queste parole hanno una funzione prevalentemente fàtica, con piccola enfasi controllata. Dopo l’esplosione di Hark, la battuta si svolge con tono discendente.]

Huge, isnt he?…Like a donkey – huge.
[Queste parole non possono essere pronunciate subito di seguito alle precedenti perché accentuerebbero oltre misura l’impaccio di Jane, che invece dimostra di saper amministrare la situazione scegliendo le pause comunicative: le sue due diverse sospensioni drammatiche. Il volume della voce è qui, probabilmente, di una qualche misura di tono più basso e più lento, per poter alloggiare donkey – huge, due parole consecutive caratterizzate da accento iniziale.]

Do you know what Dicks bought him? Dick Potter?
[Queste due unità chiaramente si appartengono, separate solo dalla pausa “didattica” che serve a delimitare l’identità del riferimento. Le due interrogazioni seguono un profilo fonico rovesciato, con him articolato in ascendere e Potter in discendere.]

Hes bought George a Christmas present.
[Queste parole sono pronunciate lungo una linea continua e uniforme, a sottolineare la peculiarità della cosa.]

One of those rubber rings… You know the ones you throw in the air…One of those.
[Queste tre unità discorsive potrebbero essere divise come versi successivi, ma stanno in effetti su uno stesso piano, separate da brevissime esitazioni, e conservano unitarietà fonica. One of those è detto un po’ sbrigativamente. La sequenza sintattica one of those ripetuta, abbreviata una volta in the ones, funge da collante.]

He loves it.
[La brevità, il tono conclusivo, senso e forma prosodica di questa battuta garantiscono il suo isolamento funzionale.]

Hes been running up and down your hallway up there – Dick throwing it, him trying to catch it.
[Anche questa battuta potrebbe essere divisa in due unità più brevi, come segnalato dal trattino che le separa, e tuttavia è chiaro che la rapidità dell’interazione tra uomo e animale è parte costitutiva della descrizione della scena e che le due unità si appartengono rigorosamente. Thr’owing it e tr’ying to catch it sono uniformemente accentati, con tono discendente su to ca,tch it.] But hes really wonderful with dogs, Dick.

[Questa battuta è un commento alla precedente e se ne sta quindi isolata per il suo tono discendente, dopo una controllata enfasi su really wonderful. Se really wonderful avesse terminato la battuta, la sua accentazione sarebbe stata marcata dal fatto stesso della sua conclusività.]

He r’eally understands them.
[La battuta duplica il profilo fonico della precedente. La sua articolazione è isolata per confermare la conclusione dell’episodio Dick Potter e il cane George.]

Do you know he nearly became a dog handler…only he didnt have his proper eyesight.
[Questa battuta è in effetti una ripresa della funzione fàtica iniziale, per nascondere la natura occasionale dell’intervento precedente, per riempire il vuoto comunicativo con una parvenza di interazione. La sospensione segnalata dai puntini è brevissima perché Jane sa che il suo interlocutore non risponderà, non vuole trovarsi in ulteriore imbarazzo e fornisce nuova informazione, come in risposta a una domanda che lei soltanto ha sentito.]

But he knows how to tr’eat them.
[In questo modo Jane continua a giustificare la sua propria scena. Il tono delle sue parole rallenta e la sua voce incomincia a spegnersi.]

Doesnt matter what sort of dog it is…He knows all their ways.
[Con quest’ultima battuta, in particolare con la ripetizione strutturale di He knows all their ways che calca la precedente he knows how to treat them, Jane chiude definitivamente il suo monologo.]

La decodificazione che precede può avere una opinabile misura di soggettività; certamente l’intervento di Jane, nella sua complessità, stabilisce il contesto della sua formulazione e della sua azione. Jane sta parlando con un interlocutore di fronte al quale manifesta una misura di imbarazzo, menziona eventi reali che intuiamo essere non essenziali all’azione (proprio come succede nella vita vera, dove la continuità di un’azione è intervallata da imprevedibili inserimenti di fatti che semplicemente accadono intorno a noi). Non è necessario conoscere il motivo per il quale Jane si trova lì a parlare con un interlocutore che non reagisce, non ci interessa conoscerlo, se non per il fatto che Jane percepisce se stessa in un rapporto personale che le provoca un qualche disagio. Ovviamente Jane e l’interlocutore si conoscono bene e hanno almeno una conoscenza in comune, Dick Potter; l’appellarsi di Jane all’interlocutore è quindi di famigliarità e il suo parlare è nelle corde dello scambio di una consuetudine quotidiana.

La realizzazione sonora che il lettore delle parole di Jane si aspetta, e che sa appropriata, è attesa entro registri dell’ordinarietà. Ogni allontanamento da questa ordinarietà potrebbe giustificarsi solo se, ad esempio, da una visione più ampia della collocazione scenica dovessimo essere informati che il personaggio di Jane è sempre sopra le righe. Scriveva già Robert Corrigan, in un saggio sulla “traduzione per gli attori” (Corrigan 1961), che il traduttore deve sentire la voce dei suoi personaggi, con questo contraddicendo l’opinione diffusa, ancor oggi, che il testo teatrale scritto non è che un testo dimidiato, che solo la sua rappresentazione sulla scena lo rende davvero nella sua totalità: se così fosse, non esisterebbero né il teatro di Shakespeare né quello di Pirandello, ma solo le realizzazioni che i loro attori e registi ne hanno fatto e ne fanno, e sia Shakespeare sia Pirandello usurperebbero il nome di autori. È vero, come dice Pirandello, che i personaggi si autonomizzano dai loro autori, ma è altrettanto vero che sono autonomi anche dagli attori e dai registi, e che hanno una loro esistenza indipendente, una loro identità e, appunto, la loro voce. Compito dell’attore, e prima ancora del regista, è di decodificarne l’identità e di preservarla incarnandola – come dovrà fare anche il traduttore (questa considerazione esige un discorso a sé sul quale intendo diffondermi in un altro momento) – con la massima fedeltà, non di dargliene una che sia estranea. Una buona “interpretazione” (attoriale e traduttiva) parte da queste premesse, tutto il resto è improvvisazione e spettacolo; per buono che sia, se lo spettacolo si allontana da questa decodificazione, l’“interpretazione” è arbitraria e inadeguata. Come l’attore, il traduttore ha il compito di permettere al lettore della traduzione un’interpretazione tendenzialmente identica a quella provocata e permessa dall’originale. La sua più pregevole creatività consisterà nel negarsi di intervenire come autore.

Se lingua e uso della lingua sono faccende indipendenti, se il codice e il suo uso sono realtà interagenti ma autonome, allora sia dato alla lingua (il codice) ciò che è della lingua e all’autore (l’agente che usa il codice) ciò che è dell’autore.

Bibliografia

Bassnett 1985: Susan Bassnett, Ways through the Labyrinth. Strategies and Methods for Translating Theatre Texts, in The Manipulation of Literature, a cura di Theo Hermans, Croom Helm, London, pp. 87-103

Bolinger 1977: Dwight Bolinger, Meaning and Form, Longman, London

Cohen 1966: Jean Cohen, Struttura del linguaggio poetico, Il Mulino, Bologna (traduzione italiana di Marcella Grandi Heilmann da Jean Cohen, Structure du langage poétique, Flammarion, Paris, 1966)

Corrigan 1961: Robert Corrigan, Translating for Actors, in The Craft and Context of Translation. A Symposium, a cura di William Arrowsmith e Roger Shattuck, University of Texas Press, Austin, pp. 95-106

Eco 1990: Umberto Eco, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano

— 1995: Umberto Eco, Interpretazione e sovrainterpretazione. Un dibattito con Richard Rorty, Jonathan Culler e Christine Brooke-Rose, Bompiani, Milano (traduzione italiana di Sandra Cavicchioli da Umberto Eco con Richard Rorty, Jonathan Culler, Christine Brooke-Rose, Interpretation and overinterpretation, a cura di Stefan Collini, Cambridge University Press, Cambridge, 1992

Fissore, Henderson, Armellino 2010: Valerio Fissore, Ruth Anne Henderson, Elisa Armellino, The Drama of Discourse, Trauben, Torino

Fissore, Henderson, Cappello 2009: Valerio Fissore, Ruth Anne Henderson, Silvia Cappello, The Liturgy of Language. The Language of Liturgy, Trauben, Torino

Palmer 1964: Frank Robert Palmer, “Sequence and Order”(1964), in Syntactic Theory 1. Structuralist, ed. by Fred Walter Householder, Penguin Books, Harmondsworth, 1972, pp. 140-147

Pinker 1994: Steven Pinker, The Language Instinct.How the Mind Creates Language, William Morrow and Company, New York