Un provinciale cosmopolita

GIAN DÀULI TRADUTTORE, EDITORE, EDITOR TRA LE DUE GUERRE

di Mario Marchetti

zio flofloZio Floflò, un barboncino che ogni mattina va a ritirare il giornale all’edicola per portarlo al vecchio padrone, è all’inizio della mia curiosità per Gian Dàuli. Era un’immagine sul sussidiario delle elementari o forse sull’antologia delle medie, non ricordo con sicurezza, cui faceva seguito un breve raccontino che recava quella firma. Mi sono sempre domandato chi mai fosse il titolare di quel nome misterioso, ma nessuno, parenti e insegnanti, era in grado di rispondermi con precisione. Finalmente il personaggio fu dissepolto dall’oblio per merito dell’editore Franco Maria Ricci, che nel 1973 ripubblicò il suo originale ultimo romanzo − scritto tra il 1943 e il 1944 in una Milano crivellata dalle bombe e ossessionata dalle incursioni di “Pippo”− Cabala bianca, con una preziosa introduzione di Michel David, il quale si è occupato a lungo e simpateticamente di Dàuli: «un editore, traduttore, romanziere scomparso e sottostimato» sul quale David sviluppòun manoscritto di circa 500 pagine per conseguire il dottorato di ricerca in lettere nel 1971 (cfr. David 1971), poi sunteggiato in un bellissimo volume di Scheiwiller (David 1989), testo che rimane a tutt’oggi il lavoro più approfondito sul nostro polimorfo “operatore culturale”, come lo si definirebbe oggi, e al quale attinge a piene mani la voce dedicata a Gian Dàuli da Wikipedia. Ma le carte Gian Dàuli conservate presso la Biblioteca civica bertoliana di Vicenza (cfr. Scarpari 2002) sono ancora in gran parte da esplorare.

Personaggio straordinario, caleidoscopico, vivacissimo (anche, di fatto, bigamo, diviso com’era tra la moglie americana Edith Carpenter, ovvero Dienne Carter in qualità di traduttrice di Jack London, e la compagna di vita Francesca Saroli) che sfugge a ogni ingabbiante definizione. Dotato di una capacità di lavoro che ha del sovrumano: non solo prolifico romanziere (oltre la già citata Cabala bianca, vanno ricordati almeno L’ultimo dei Gastaldon del 1921 e La rua del 1932; ma si veda l’elenco a parte), traduttore e editore, ma anche talent scout, critico e giornalista. Di sicuro è vissuto per la divulgazione della narrativa straniera a lui contemporanea, anzi si può quasi dire che vi si sia immolato, visti i suoi tanti fallimenti finanziari e la sua fine nell’isolamento poco dopo il termine della seconda guerra mondiale, nel dicembre del 1945, quando, nel rigoglio delle effimere iniziative editoriali di quel periodo, sperava di ricostruirsi come l’Italia, ma non fece in tempo ad arruolarsi (come tanti altri), o ad essere arruolato, tra i “redenti”, l’incisivo e ironico termine con il quale Mirella Serri (2005) definisce coloro che da sostenitori del fascismo saltarono il fosso verso la sinistra.

Gian Dàuli è lo pseudonimo di Giuseppe Ugo Nalato. Nato in un borgo vicentino nel 1884, cresce tra fine secolo e inizio Novecento in clima italianamente positivistico sul piano culturale e sociale (non sul piano letterario, s’intende: anche noi avevamo il nostro decadentismo), in un periodo di grande ed esemplare fervore didattico. Ma se in quegli anni gli interessi erano volti all’alfabetizzazione dell’infanzia, all’elevazione delle classi popolari e all’emancipazione femminile, dopo la Grande guerra l’ormai più che trentenne Nalato, che dalla natia cattolica e farisaica Vicenza era partito nel 1903 per Liverpool «alla conquista del mondo», dopo l’esperienza bellica (fu ferito all’Ortigara) si butta con entusiasmo nel lavoro giornalistico e editoriale: vuol fare conoscere ai connazionali i narratori contemporanei europei e non solo, vuole insomma alfabetizzarli letterariamente, farli uscire dall’asfittico clima culturale in cui i blasé e gli spregiudicati, o che tali si reputavano, si crogiolavano tra D’Annunzio, Bourget, Da Verona, D’Ambra, Zuccoli e poi gli ammiccanti Dekobra e Pitigrilli, mentre in tutte le modeste e serie bibliotechine borghesi continuavano a campeggiare – accanto a qualche malfatta traduzione dal francese dei grandi narratori russi – Carducci, Pascoli, Manzoni, e i non certo elettrizzanti romanzi storici dell’Ottocento italiano, come pure De Amicis che era, tutto sommato, il più moderno. Il Verga dei Malavoglia e di Mastro-don Gesualdo, quello post-passionale e post-mondano,ricordiamolo, era un reietto, come misconosciuti erano De Roberto, Tozzi e Svevo, autori, i due ultimi, che Dàuli si prodigò a valorizzare e a far conoscere.

In Inghilterra aveva potuto respirare un’aria più viva, venire a conoscenza, talora personalmente, di autori come Wilde, Zangwill (l’israelita inglese di cui Modernissima pubblicherà le opere già tra il 1923 e il 1925), Beardsley, Galsworthy, Yeats e gli esponenti del rinascimento celtico; lì aveva potuto anche approfondire la conoscenza dei decadentisti e dei simbolisti francesi, e in particolare innamorarsi del poeta “maledetto” inglese Ernest Dowson (1867-1900), autore dei celebri versi They are not long, the days of wine and roses, cui Dàuli allude nella sua prefazione a Raftery il cieco e sua moglie Hilaria (in Byrne 1930, XIII). Era ora che anche il lettore italiano si svegliasse e si aggiornasse. Dàuli avvia così una tumultuosa e febbricitante attività editoriale e di traduzione. Non è facile seguirlo nel groviglio di società che fonda, di alleanze che mette in campo, di collane che dirige con metodi a volte arruffoni (e delle quali forniamo a parte gli elenchi di titoli, che speriamo pressoché completi).

1. Dilettante?

Qui ci soffermeremo soltanto su talune questioni e talune iniziative editoriali di particolare significato per il nostro discorso. Innanzitutto va sfatata la perdurante opinione di un superficiale dilettantismo di Dàuli: certo non possedeva una solida cultura filologica − tra l’altro, come il protagonista del suo straordinario La rua,e diversamente dall’ultimo Gastaldon, non si diplomò neppure ragioniere −, ma certo conosceva l’inglese di prima mano (lo scriveva e lo parlava) e le sue traduzioni, scorrevoli ed efficaci, per quanto non letterariamente ricercate, ne sono testimonianza. Quell’accusa è tanto più ingenerosa se si pensa al periodo in cui egli tradusse, periodo in cui la conoscenza dell’inglese era assai poco diffusa e in cui anche in questo campo sovente si ricorreva alle più amichevoli traduzioni francesi e, comunque, spesso a mestieranti. Esistevano certo ottimi anglisti accademici, come i collaboratori della «Biblioteca sansoniana straniera» (nata nel 1921, diretta fino al 1927 da Guido Manacorda e negli anni trenta da Paolo Emilio Pavolini, padre di Alessandro, “l’ultima raffica di Salò”, e di quel Corrado di cui in questo stesso numero di «tradurre» Martina Gentili parla a proposito del Giovane Holden). Ma questi si occupavano di grandi classici, certo non di autori contemporanei. Naturalmente, secondo la tendenza allora prevalente, le versioni di Dàuli puntano a una familiarizzazione del testo d’origine (ad assimilarne struttura e modi linguistici in quelli della lingua di arrivo). Un giudizio più preciso e meno stringato richiederebbe un raffronto testuale che qui non è il caso di fare: pare comunque un po’ forzata – e a sua volta ideologica − l’opinione di Valerio Ferme (2002, 74, con un esempio tratto dal Richiamo della foresta), secondo cui Dàuli nelle sue traduzioni risentirebbe dell’ideologia fascista dell’attivismo. Si aggiunga che Dàuli seppe creare una fitta trama di validi traduttori e collaboratori con i quali sviluppò proficui scambi epistolari, in particolare con Alessandra Scalero (1892-1944), elegante traduttrice di autori di lingua tedesca e inglese, tra cui Virginia Woolf. Ma fu in contatto anche con la sorella di Alessandra, Liliana, che per Modernissima, la casa editrice varata da Dàuli nel 1924, tradusse – come vedremo – Babbit di Sinclair Lewis. E ciò gli procurò una buona rinomanza: lo stesso Cesare Pavese, ai suoi esordi gli si propose come traduttore e Piero Gobetti gli raccomandò un’amica.

Tali contatti ci fanno capire come Dàuli godesse all’epoca di indubbio prestigio, soprattutto per la sua fama di apertura al nuovo. Nei Propositi e sviluppi della collezione «Scrittori di tutto il mondo», che compare in appendice a Ritorno ad Harlem di Claude McKay, tredicesimo titolo della collana da lui diretta per il Corbaccio di Enrico Dall’Oglio e di cui parleremo più in là, Dàuli dichiara infatti tra gli obiettivi della iniziativa editoriale: «Costituire un gruppo di traduttori appassionati, di gusti moderni e di sicura competenza». E proprio a questo proposito accenna Pavese nella lettera del 10 marzo 1934 con cui si proponeva come traduttore (David 1989, 172). Importante e proficuo, in particolare, il rapporto con Marie Canavaggia, segretaria e collaboratrice di Céline – con la quale Dàuli era entrato presumibilmente in contatto per la traduzione del Voyage au bout de la nuit – anglista e italianista che diede molti suggerimenti a Dàuli in fatto di scelte editoriali: fu lei, tra l’altro, a tradurre appassionatamente in francese il romanzo di Dàuli La rua (La roue, Stock, Paris 1939); così le scrive Dàuli: «Quale grande lezione per me, questa vostra traduzione de La rua, ché ho tradotto tanti volumi dall’inglese all’italiano! Ho […] troppo spesso […] girato intorno alle difficoltà, invece che risolverle» (citato da David 1989,180).

2. Un americanista in anticipo sui tempi

Sempre Dàuli si mosse per promuovere la pubblicazione di autori e testi contemporanei stranieri tradotti, senza mediazione, dalla lingua originale: una scelta, per l’epoca, rivoluzionaria (culturalmente, perché si tratta di autori non rientranti nel canone dei classici “universali”; ideologicamente, perché favoriva gli “stranieri” a scapito degli italiani, col rischio di imbastardire, secondo gli ideologi di regime, la lingua patria con le traduzioni; editorialmente, perché va contro la comoda prassi di appoggiarsi per solito alle versioni francesi esistenti). Questa scelta venne poi imitata, a partire dal 1933, dalla celebre «Medusa» verde di Mondadori. Ma Dàuli iniziò svariati anni prima, almeno a partire dal 1924 col progetto di traduzione delle opere complete di Jack London per la sua casa editrice Modernissima (ne uscirono 25 volumi tra il 1924 e il 1929, di cui 14 tradotti da lui, solo o in collaborazione con altri). London era un autore particolarmente congeniale a Dàuli, visto che nei suoi racconti e nei suoi romanzi di vita vissuta combinava un’ideologia socialisteggiante con una visione spenceriana dell’uomo (sopravvivenza del più adatto, o del più forte, come si preferiva dire allora: basti pensare ai suoi racconti del Grande Nord, ambientati in scenari estremi, dove l’uomo l’animale e la natura combattono frontalmente nella struggle for life); London era un autore che poteva piacere a una larga fascia di pubblico sia per età che per ideologia e che affascinava anche con le sue distopie cavernicole (Prima di Adamo) e con le sue sciamaniche storie di reincarnazione (Il vagabondo delle stelle).

Per questa impresa soprattutto, ma anche per altre iniziative posteriori, possiamo considerare Dàuli come il primo americanista contemporaneista italiano, non tanto a livello critico, naturalmente, quanto editoriale, ben prima di Vittorini e prima ancora di Pavese, definiti, peraltro, da Rodolfo J. Wilcock, con idiosincratico paradosso, «impavidi disinformatori» (citato da David 1989, 31; cfr. anche Wilcock 1969, 13). Basti pensare che antecedentemente alla metà degli anni venti, i quasi unici americani tradotti, e sempre parcamente, erano le ottocentesche Harriet Beecher Stowe (La capanna dello zio Tom) e Louisa Alcott (Piccole donne), a parte qualche raro pensatore come Emerson e William James, e, appena un po’ di più, qualche narratore come Poe e Mark Twain, tutti sempre ottocenteschi, con modesti sfondamenti verso i primissimi anni del Novecento (Ferme 2002, 224-226).

Il primo romanzo a infrangere la barriera del tempo fu, quasi certamente, 100 %. Story of a Patriot,di Upton Sinclair (1878-1968), uscito negli Stati Uniti nel 1920 e prontamente tradotto dall’ex deputato socialista in procinto di diventare comunista Arturo Caroti nel 1921 per le Edizioni dell’Avanti!. Questa eccezione era dovuta al carattere militante del testo (vi si narra una storia di infiltrazione in un gruppo di socialisti su cui far ricadere l’accusa di attentati dinamitardi), dell’autore (definito dal terribile Theodore Roosevelt del big stick come espressione del muckraking movement, cioè di chi sguazza nella spazzatura) e della casa editrice (siamo in pieno “biennio rosso” italiano, il dopoguerra sconvolto dalle agitazioni sociali, nel clima infuocato dell’attentato al cinema Diana di Milano che provocò un assalto squadristico alla sede del Partito socialista e del suo quotidiano «Avanti!»).

La pionieristica impresa “Jack London” sembra però portasse a un tracollo finanziario la Modernissima, che si riprese solo con il passaggio nelle mani di Spartaco Saita nel 1928. Anche la rinnovata Modernissimaebbe però i suoi guai, dapprima con l’iniziativa temeraria della pubblicazione delle opere complete dello scrittore irlandese, ma nato a New York, Donn Byrne (1889-1928) in dodici volumi. Fu un amore furente di Gian Dàuli, che si era avvicinato al rinascimento celtico nel corso del suo soggiorno inglese di inizio Novecento. Fu amore a prima vista, non appena Dàuli prese in mano su una delle bancarelle di Genova a ridosso della Vecchia Borsa (dove spesso si trovavano le novità librarie di New York, abbandonate in cabina dagli americani giunti dal mare) il volumetto Blind Raftery and His Wife Hilaria. Lesse poi avidamente tutto il resto di Byrne e finì col porlo

più in alto di tutti gli altri scrittori irlandesi anche se si chiamano col nome di uno Swift, di un Wilde, di uno Shaw, di un Yeats, di un Synge, d’uno Stephens, non perché egli sia il più grande di tutti […] ma perché egli ha qualcosa che manca agli altri, una certa corda che tocca il cuore, un senso di intimità e di raccoglimento come spira dalla casa in cui si è nati (prefazione a Byrne 1930b, XV).

Le opere di Byrne, delicate e romanticheggianti, spesso di impianto storico, soffuse nostalgicamente di orgoglio Irish (An Untitled Novel del 1925 ci offre, tra le righe, l’immagine inedita di una Dublino popolata di fantasmi di un più glorioso passato: vedi Byrne 1930a), godettero negli anni venti di discreta popolarità tra il pubblico anglosassone. Due anni dopo il primo, e unico, contatto epistolare con Dàuli, Byrne morì in un incidente d’auto, e Dàuli profetizzò, o si augurò, che un giorno sarebbe stato «letto e riconosciuto da tutti come uno spirito grande e un artista universale». Profezia che finora non si è realizzata, di sicuro in Italia, fatta salva la ripubblicazione di Raftery il cieco, sempre nella traduzione di Dàuli, presso Sellerio nel 1989. Altri guai poi si ebbero con lo scarso successo finanziario dei primi 19 volumi degli «Scrittori di tutto il mondo» messi sul mercato al non irrisorio prezzo di venti lire. E così la collana nel 1932 passò alla casa editrice Corbacciodi Dall’Oglio. Ma ne riparleremo.

3. Le iniziative editoriali economiche: Delta e Dauliana

Il pioniere Gian Dàuli è già in corsa quando inizia, alla fine degli anni venti, il “decennio delle traduzioni”, come Cesare Pavese sintetizzò la fioritura eccezionale di collane editoriali dedicate all’acquisizione in lingua italiana non solo di classici ma anche di contemporanei della narrativa straniera che si ebbe negli precedenti la seconda guerra mondiale. Nello stesso 1929 in cui inizia per Modernissima le pubblicazioni della sua più celebre collana, la già più volte citata «Scrittori di tutto il mondo», Dàuli dà vita a due case di libri “economici” parallele, la Delta e la Dauliana. La prima riuscirà a sfornare, in quel solo anno, con una scelta piuttosto eclettica, quaranta titoli di «Scrittori italiani e stranieri», tra cui, questa volta, anche alcuni scrittori spagnoli (Blasco Ibáñez, Juan Valera, Pardo Bazán) e non mancherà neppure con L’orcio d’oro un esponente dell’amato rinascimento celtico, James Stephens, sodale di James Joyce a Parigi ai tempi di Finnegans Wake. Sulla copertina, assai sobria ma gradevole, compare la scritta «a cura di Gian Dàuli» (a confusione del pubblico di fronte a una tale orgia editoriale). Il prezzo dei volumi è assai modesto: due lire. Ecco come lo stesso Dàuli illustra gli intenti programmatici della Delta nel foglio opposto al frontespizio del romanzo di Felix Timmermans, tradotto da Annie Lami, Pallieter (1929):

Per i suoi volumi si sono scelti, infatti, gli autori più significativi, le opere più interessanti e più dense di valori spirituali, offerte al pubblico in dignitose traduzioni integrali […] Grazie ad un’organizzazione speciale e prettamente moderna, abbiamo potuto offrire libri normalmente editi da altre Case a otto, dodici, ed anche quindici lire la copia, al prezzo quasi inverosimile di lire DUE; e questa è la grande battaglia combattuta fattivamente da DELTA per la diffusione del libro e della sana cultura in Italia.
Si è infatti purtroppo constatato che quasi sempre le traduzioni di libri stranieri vengono condotte con criteri di assoluta speculazione, mutilando i testi, interpretandoli con arbitrio, al solo scopo di lucrare il più possibile. DELTA prende recisamente posizione contro questo deplorevolissimo andazzo lanciando, a un prezzo mitissimo, i suoi volumi, controllati col più severo scrupolo e con la più rigida coscienza artistica.

Quanto alla Dauliana, mise sul mercato nella collana «Ultra», sempre nel fatidico 1929, al prezzo di lire 4, quattordici titoli, dotati di un’elegante copertina al cui centro campeggia l’emblema di un cavallo alato bordato dal motto spavaldamente dauliano Numquam victus ab hoste rediit e presentati con «una grande raffinatezza di forma e contenuto», come scrive con autocompiacimento lo stesso direttore editoriale: da Stevenson a Maugham, da Kipling a Lagerlöf, a Schnitzler.

4. La collana principe di Dàuli: «Scrittori di tutto il mondo»

4.1. Una storia in due tempi

Ma la collana principe dell’attività di Gian Dàuli è «Scrittori di tutto il mondo» (vedine l’elenco a parte). Dàuli la varò in proprio con Modernissima, ma poi dovette farsi aiutare finanziariamente da Spartaco Saita. Così il nostro lo ringrazia:

Per fortuna, il giovine editore Spartaco Saita […] intende l’editoria come arte e non come mestiere […] La nostra gioia, la mia e quella di Spartaco, è quando possiamo rivelare qualche ingegno nuovo […] Li cerchiamo febbrilmente, e non tra quelli che sono offerti, che rappresentano dei valori commerciali o industriali, che sono gli scrittori di tutti gli editori, ma che siano scoperti da noi []che non ci arrivino, cioè, di seconda mano, attraverso gli incettatori e i traduttori stranieri, specialmente dalla facile lingua francese (dalla citata prefazione a Byrne 1930, XX-XXI).

Naufragata Modernissima, la collana prosegue poi sotto l’egida del Corbacciodi Enrico Dall’Oglio, con il quale Dàuli collaborò fino al 1934 anche per la collana «I Corvi», fondata nel 1933,  prima collana tascabile  italiana, divisa per argomenti in diverse sezioni. I libri, dalle copertine variamente colorate che recavano il motto «Io sono piccolo ma crescerò», vennero lanciati al prezzo di 5 lire.

Le scelte di Dàuli non erano solo moderne, ma si ponevano anche in antitesi con i crismi letterari dell’epoca, e in particolare con gli obiettivi ideologici del fascismo: che si trattasse dell’atteggiamento spontaneo di uno spirito anarcoide dotato di grande fiuto e sensibilità, di un rabdomante del nuovo, o si trattasse dell’esecuzione di un preciso progetto culturale non è facilmente decidibile. Propendiamo, decisamente, per la prima ipotesi. Ciò che conta è il risultato, con le sue conseguenze.

I volumi di Modernissima, assai eleganti, con la loro copertina avorio arricchita da una bella xilografia a centro pagina di Vsevolod Nicouline (ovvero Nikulin) e muniti di un ritratto dell’autore, costavano ben 20 lire, una cifra per l’epoca di tutto rispetto (quando nel 1932 passarono al Corbaccio, il prezzo scese attorno alle 10 lire, ma anche l’eleganza si ridusse). Senza tener conto delle sue altre iniziative, decisamente più economiche, ci fu chi accusò per questo Dàuli di elitarismo: e in un certo senso elitario lo fu, ma per le scelte autoriali che fece. L’eversione di Dàuli fu sia letteraria che culturale. I testi da lui promossi sono quanto di più lontano dalla cura formale dei rondisti e della prosa d’arte, dal culto classicheggiante degli accademici in vogaall’epoca: basti pensare al Viaggio al termine della notte di Céline (peraltro voluto da Dall’Oglio, ma da Dàuli accettato; cfr. Gigli Marchetti 2000, 56-57) o a Manhattan Transfer di Dos Passos, con i loro singulti e spezzettamenti sintattici. I temi e gli argomenti, poi, sono proprio quelli che la cultura politica dominante aborrisce: freudismo, omosessualità, pulsioni sessuali, negritudine, atmosfere ebraiche, americanismo. Tutt’altro, cioè, che quanto in materia letteraria ammetteva o addirittura coccolava il regime: Strapaese, con il suo culto del “selvaggio” e del “becero” di rione, la “sana vita popolare”, la ruralità, l’esaltazione della virilità e del combattente, la romanità (istanze che a onor del vero non produssero nulla di memorabile sul piano letterario); le pruriginosità alla Pitigrilli o le altrettanto ammesse fumisterie e freddure surreali alla stregua dell’oggi rivalutato Achille Campanile; le bonarie divagazioni all’Antonio Baldini o l’antimodernismo alla maniera dell’accademico d’Italia Panzini, quello dei Verbi transitivi e verbi intransitivi, raccontino, con la sua bolsa morale, presente in tutte le antologie scolastiche fino agli anni Cinquanta (cfr. Panzini 1920). Si trattava, in sintesi, di una congerie di letteratura innocua, per quanto talora non priva di riuscite formali. Dàuli, invece, con le sue scelte, rifiuta oggettivamente e concretamente il «ritorno all’ordine», carattere «comune a tutta la letteratura del Ventennio», come scrive Luigi Baldacci (1973, 23).

Pochi i titoli d’intrattenimento, ma di buon intrattenimento, che fanno capolino tra gli «Scrittori di tutto il mondo», come i romanzi − Due prigionieri, Qualcosa galleggia sull’acqua, Il disertore − di discreta fattura e di ottimi sentimenti dell’allora popolarissimo scrittore ungherese Lajos Zilahy (1891-1974) o il mondano e frivolo Il cappello verde dell’armeno anglicizzato Michael Arlen (1895-1956), un vero best seller dell’epoca (ma non in Italia) con la sua descrizione dei disordini, degli eccessi e delle stravaganze dell’alta società inglese. Altro testo gradevole, ma di non grande profondità, è La figlia del mare di Joan Lowell (1902-1967), in cui l’autrice racconta della sua vita sulla goletta paterna fino ai diciotto anni, marinaio tra i marinai. Come scrive nella prefazione Guido Milanesi, allora popolare scrittore di avventure di mare: «Ella è talmente mascolinizzata da perdere ogni caratteristica femminile e non dare il minimo peso al proprio sesso. Bestemmia, lancia con virtuosità dei getti di saliva, parla il più basso gergo che mai risuonerebbe nei bassifondi dei porti» (prefazione a Lowell 1929, 9).

Insomma il tema è moderno e odora di “maschiette” e di emancipazione. Milanesi elogia anche il traduttore Tito Diambra, che «non si perita affatto di salir nelle zone superiori del linguaggio di bordo, come tediato di dover soffermarsi sulle inferiori. Sembra dire: Italiani è ora di comprendere come si parla in mare…» (prefazione a Lowell 1929, 13).

Ma accanto a questi titoli, tutti gli altri (almeno finché durò l’autorità di Gian Dàuli, certamente mediata con le proposte di Dall’Oglio tra il 1932 e il 1934), per un verso o per l’altro rivestono grande o grandissimo interesse. Innanzitutto citiamo quattro capisaldi della letteratura del Novecento, fatti tradurre per la prima volta dal nostro versatile editore/editor: Berlin-Alexanderplatz. Storia di Franz Biberkopf di Alfred Döblin, La montagna incantata di Thomas Mann, Nuova York – Manhattan Transfer di John Dos Passos, Viaggio al termine della notte di Céline, affidandoli, rispettivamente, al triestino Alberto Spaini, grande esperto di letteratura tedesca, alla solerte Bice Sorteni Giachetti, alla poliglotta Alessandra Scalero e ad Alex Alexis, pseudonimo di Luigi Alessio, ex legionario fiumano, editore e romanziere di scarsa ventura e collaboratore della rivista «Le grandi firme». La traduzione fu l’unica a circolare in Italia, spesso carsicamente, fino alla nuova versione di Ernesto Ferrero del 1992. Se la struttura de La montagna incantata (o magica, come vorrà in tempi vicini a noi Renata Colorni), tutto sommato, si può considerare ancora legata alla tradizione (il suo impatto sarà soprattutto ideale, con l’approdo di Thomas Mann a una visione umanistica), lo stesso non si può certo dire per gli altri titoli. Döblin (1878-1957) e Dos Passos (1896-1970) mirano a creare il doppio letterario della modernità. I loro romanzi sono sperimentali e sinfonici, vogliono rendere l’idea della simultaneità, della metropoli (Berlino o New York) brulicante e caleidoscopica, ricorrendo alla citazione di slogan pubblicitari, di canzonette, di titoli di giornale: rompono con la struttura fluida del romanzo tradizionale (certo, c’era già stato l’Ulisse joyciano). Céline (1894-1961), a sua volta, rompe anche con l’ortografia tradizionale, e, in lui, soprattutto, c’è l’eversione della Weltanschauung aristocratico-borghese del mondo: il suo romanzo è tutto giocato secondo una prospettiva dal basso, antieroica e antiraffinata, da un punto di vista nichilista e plebeo insieme (piacque soprattutto a sinistra, prima che Céline si rendesse inviso con le sue odiose Bagatelle per un massacro in manifesta convergenza con l’antisemitismo hitleriano).

Un altro folto gruppo di romanzi appartiene agli autori della rinascita letteraria ebraica austro-tedesca. Teniamo tuttavia presente che per i contemporanei che non fossero contaminati dall’ideologia antisemita, si trattava, semplicemente, di autori tedeschi o austriaci. Tra costoro, oltre al già citato Döblin, il praghese Alfred Neumann (1895-1952), scrittore di non eccelso livello letterario ma assai popolare e capace di coinvolgere i lettori con i suoi romanzi storici ricchi di analisi psicologiche e non privi di allusioni al presente: il suo Il diavolo inaugura la collana, che pubblicherà poi ancora i suoi Il patriota e Re Haber. E poi il bavarese Jakob Wassermann (1873-1934) altro autore molto popolare, soprattutto per Il caso Maurizius, di cui Etzel Andergast è il seguito, sul tema dell’«ingiustizia della giustizia umana» (sicuramente più interessante è però il suo romanzo storico Gli ebrei di Zirndorf, pubblicato tra i «Corvi» nel 1933, l’anno stesso dei roghi nazisti dei libri di cui furono vittime anche le opere dello stesso Wassermann, il quale non resse all’angoscia e morì il 1° gennaio 1934); o, ancora, Lion Feuchtwanger (1884-1958), anch’egli bavarese, autore de La brutta duchessa e di Süss l’ebreo (storia del celebre ebreo di corte del duca del Württemberg, il finanziere Süss Oppenheimer, vicenda che diventerà poi, sviluppata in chiave diversa, argomento dell’omonimo film tedesco di propaganda antisemita del 1940). Più validi sotto il profilo letterario sono i racconti di Sovvertimento dei sensi del viennese Stefan Zweig (1881-1942), autore oggi in pieno revival per merito di Adelphi e di Ada Vigliani e famoso cantore del finis Austriae col Mondo di ieri, romanzo citato perfino dal giovane regista Wes Anderson come ispiratore del suo recente film Grand Hotel Budapest: le pulsioni sessuali, non esclusa l’omosessualità, e il freudismo dominano questi racconti.

Di un altro viennese della colta borghesia ebraica, Arthur Schnitzler (1862-1931), interessato alla psiche umana sulla base dei suoi studi di medicina, la collana pubblicò tre romanzi dell’ultimo periodo creativo, segnato da un cupo pessimismo: La signorina Elsa, un lungo monologo interiore con una prefazione di Antonio Baldini; Teresa, con una prefazione al femminile di Sibilla Aleramo; e lo splendido Fuga nelle tenebre, un altro monologo interiore grandemente ammirato da Freud, che vide nello scrittore il suo alter ego, in certa maniera invidiandone la capacità di penetrazione. Compaiono nella collana altri due notevoli e originali romanzi, oggi quasi dimenticati, scelti probabilmente da Enrico Dall’Oglio: Il ciarlatano di Hermann Kesten (1900-1984) − esponente della Neue Sachlichkeit (Nuova oggettività), non senza reminiscenze espressionistiche; e Giorgio Letham, medico e assassino di Ernst Weiss (1884-1940), scrittore ammirato da tanti contemporanei (come Thomas Mann, Kesten, Zweig, Max Brod), morto suicida all’arrivo delle truppe tedesche a Parigi, dove si era rifugiato. Di Weiss il Corbaccio nel 1934 pubblicò tra i «Corvi» anche Musica a Praga. Riprendiamo qualche passo dalla già citata prefazione di Gian Dàuli al Ciarlatano:

Ma ve ne furono che – più cerebrali o più scaltri – vollero esprimere lo stato d’animo dell’ora, o meglio, lo sconvolgimento del proprio e dell’altrui animo e fecero opera demolitrice o cinicamente crudele. Non videro che rovine, esagerarono il male, annunziarono catastrofi. E nello stesso tempo […] cercarono disperatamente, sadicamente, una formula nuova, sempre più moderna. Così dal naturismo di Holtz nacque in Germania, con Freud, il nuovo naturalismo di Döblin. Ho nominato Döblin, aggiungo Kästner e questo Kesten, anche col suo Ciarlatano, che per la prima volta viene pubblicato in Italia. Così per la Francia altri scrittori si ebbero quali Céline, col Viaggio al termine della notte.
Qualunque sia il giudizio che sulla scuola espressionista tedesca si possa dare oggi e dopo, certo è che, se si vorrà avere una completa visione dell’anima umana nei primi dieci anni del dopoguerra, si dovrà ricorrere a questi racconti esasperati ed esasperanti, che comunque sublimano i mali del passato in una creazione artistica – anche se repellente – indubbiamente piena di forza espressivaQuesto Ciarlatano è uno dei “romanzi” più sconnessi […] che io conosca […] Per tutto il libro i personaggi s’inseguono come in un girone dantesco, fustigati da un invisibile ananke spietato, recando sul dorso lo schiacciante fardello dei propri vizi e delle proprie perfidie; sicché il lettore soffre con loro nella loro corsa dannata. Per di più – ad aggiungere smarrimento a smarrimento – ogni personaggio cambia carattere, senza ragione apparente, all’improvviso, con tagli netti di pensiero che sembrano rasoiate. A tutto ciò si aggiunga lo stile e la concezione di questo giovane romanziere – classe ‘900 – che dà il molto in pochissimo e spreme un destino di uomo in poche gocce asprigne di frasi brevi ed è brutale nella forma non meno che nella sostanza.
Ma detto questo, io affermo che pochi libri è necessario leggere come questo Ciarlatano, che, se lascia la bocca amara e il cuore stretto, ha pure bellezze squisite di pensiero, vibrazioni nuove e una sua inorridente ingenuità davanti al male, che del male è corrosiva condanna.
E poi soltanto queste opere danno una visione sincera di uno degli aspetti della società umana del dopoguerra, che è pure indispensabile tener presente, se si vuole spiegare certi avvenimenti, quali quelli attuali [febbraio 1934] di Parigi e di Vienna, e quelli di ieri di Berlino.
L’Italia da questo quadro europeo è fuori, a parte. La volontà, il genio e la fortuna di un Uomo hanno fatto sì che il nostro paese viva in fervore di giovinezza operante e osante. Ma, ahimè!, questa nostra Italia è nella sua rinascita materiale e morale in ogni campo, tranne che in quello letterario […] Dirlo sinceramente, da noi stessi, è, oltreché onestà, segno di comprensione determinata e tenace.
Dopo la guerra e la rivoluzione – nello spirito come nella vita materiale – si ebbe il caos. Ebbene la nuova falange di giovani scrittori tedeschi, tra i quali uno dei primi è Kesten, ci ha rappresentato il caos in cui visse.
In opere, che saranno forse o senza dubbio sorpassate domani, ma che oggi rimangono formidabili documenti di uno dei periodi più tormentati della storia umana, di quel periodo, cioè di assestamento, che segue sempre ad ogni sconvolgimento sociale, come ad ogni sommovimento tellurico […] tali opere raccomandiamo soprattutto ai giovani. A coloro che, nati a secolo iniziato, non conobbero la guerra e non fecero la rivoluzione; perché conoscano la martoriante esperienza spirituale attraverso alla quale abbiamo dovuto passare, per giungere all’Era nuova (prefazione a Kesten 1934, 11-15).

Insomma per Dàuli – uno «scampato alla carneficina», come egli stesso si definisce qualche riga più sotto – il valore del Ciarlatano, di cui peraltro mette bene in luce, sia pure per via negativa, gli aspetti eversivi sul piano della struttura e della forma, è soprattutto di tipo documentario rispetto a un’epoca di caos di cui è bene i giovani abbiano memoria e in tal senso il romanzo sarebbe meritevole di lettura. Ribadisce i meriti dell’Uomo per aver salvato l’Italia dal caos postbellico, rilevando peraltro come la letteratura nazionale non sia stata ancora in grado di rinnovarsi, a diversità delle altre sfere della vita sociale. Si capisce anche da questo brano, stupefacente nella sua sincerità (quale mai quarta di copertina o premessa oggi parlerebbe in termini analoghi del libro che va presentando?), come Kesten non fosse esattamente nelle corde di Dàuli, che peraltro lo accolse, o lo dovette accogliere, nella collana da lui diretta. Il suo gusto personale certamente andava ad autori meno aggressivi, più distesi e morbidi – ispirati, secondo le sue parole, ad “armonia” e “bellezza” −, come il citato Byrne o John Galsworthy, del quale curò per il Corbaccio tra il 1927 e il 1932 l’opera integrale in 16 volumi (anno in cui l’autore inglese vinse il Nobel), di cui, come delle altre collane curate dal nostro, diamo a parte l’elenco. Tuttavia la sua apertura al nuovo e il suo fiuto lo portavano a pubblicare anche testi a lui poco congeniali, purché significativi.

Quanto all’austriaco Ernst Weiss, figlio di un commerciante ebreo di Brno, il suo straordinario, onirico ed espressionistico Giorgio Letham medico e assassino (in nome di una morbosa passione per la scienza) venne tradotto da Alessandra Scalero. Questo romanzo, del 1931, scritto anch’esso quindi, a Berlino, sull’orlo dell’abisso e come ossessionato da immagini di topi, a legioni, che sembrano infestare ogni cosa, fantasmi già presenti nel cinema espressionistico di Weimar, è pervaso da una soffocante sensazione di annichilimento. L’autore, medico come il suo personaggio (e come Schnitzler), è profondamente imbevuto di concezioni psicanalitiche. E’ stata Laura Terreni (Weiss 1986, 199) che con Silvana De Lugnani a disseppellire dall’oblio Weiss in Italia con la pubblicazione – già nel 1975 per Rizzoli, dopo la riscoperta tedesca dei primi anni sessanta − del suo romanzo postumo Il testimone oculare,nel quale la narrazione è affidata alla voce di un medico che guarisce dalla cecità isterica il caporale Adolf Hitler. La vicenda si basa su un’ampia documentazione e il romanzo ebbe una seconda stesura, oggi perduta, come si sa dalle lettere scritte prima di suicidarsi da Weiss all’amico Stefan Zweig, che più tardi ne seguirà l’esempio di fronte all’incubo del nazismo e della guerra. In entrambi i romanzi i personaggi sono agiti da una volontà dionisiaca di potenza, sono insieme vittime e tiranni, testimoni e accusati: non c’è via d’uscita.

4.2. Gli ebrei americani

Altri due romanzi di autori ebrei, ma questa volta di lingua inglese, compaiono tra il 1933 e il 1934, ancora in epoca Dàuli: si tratta di Ebrei senza denaro, unico romanzodell’americano di origini rumene Michael Gold (1894-1967), anch’esso tradotto da Alessandra Scalero per il numero 35 dei «Corvi» e anch’esso dimenticato, benché offra con lingua rapida e nervosa, ben resa dalla traduttrice, un vivacissimo quadro di vita vissuta, si direbbe cinematografico, dell’East Sidenewyorchese, dove erano concentrati gli immigrati più miseri, ebrei, italiani, irlandesi. Con la scelta del titolo, Jews Without Money (1930), in un’epoca in cui i Samuel Goldwin e i Louis Mayer dominavano a Hollywood, era come se Gold volesse ironicamente dire: ebbene sì, esistono anche ebrei poveri! Le moltitudini israelite dell’est europeo parevano infatti come rimosse dalla memoria collettiva. L’autore, dall’antifrastico nom de plume di “Gold” (il vero nome era infatti Itzok Isaac Granich), iscritto sin dagli anni venti al partito comunista americano, cui rimase indefettibilmente fedele, fu anche celebre giornalista dallo stile tagliente, nonché caustico critico letterario a sostegno del “realismo proletario”: nel 1935 fu personaggio di spicco, con il violinista messicano Silvestre Revueltas e il romanziero ecuadoregno Jorge Icaza, al First American Writers Congress tenuto a New York con il sostegno dell’Unione sovietica. L’altro romanzo, di Ludwig Lewisohn (1882-1955), porta in italiano il titolo Il popolo senza terra, che echeggia uno slogan assai diffuso del quale Theodor Herzl, padre del sionismo, si fece banditore, mentre quello originale era un più preciso The Island Within. Esso riveste un interesse soprattutto documentario. L’autore, di origini tedesche, vi racconta l’ardente volontà di assimilazione che lo animò (a tal fine si fece perfino metodista con tutta la sua famiglia) non appena giunto bambino negli Stati uniti, per poi accorgersi che la sua aspirazione all’uguaglianza sancita dalle leggi americane non era attuabile: vi si opponevano costumi, pregiudizi e convenzioni, una barriera invisibile ma ben reale. Gli ebrei appunto restano un’“isola” inassimilabile nell’oceano americano; di qui il ritorno di Lewisohn alla religione tradizionale e la sua adesione al sionismo.

E così i lettori di Corbaccio hanno imparato che non sempre gli ebrei erano ricchi e che nel melting pot americano non erano poi così ben accetti. Il popolo senza terra reca una prefazione della traduttrice, Lia Bertelè Colombo, interessante per capire il clima culturale dell’epoca. Vi si illustra con una certa ampiezza, ricusandolo, l’ormai travolgente antisemitismo nazista e, per contro, la diversa – per il momento − situazione italiana:

L’attuale situazione creatasi in Germania in seguito alla rigorosa strenua applicazione dei principî contenuti nella simbolica croce uncinata conferisce un’evidenza quasi profetica a certe asserzioni di Lewisohn. E vana è la sottile distinzione che uno scrittore tedesco [il nobile studioso di letteratura medievale Ernst Robert Curtius in Deutscher Geist in Gefahr, 1932!] fa tra gli Ebrei di Germania e gli Ebrei di altri Stati d’Europa: la contraddizione sta nella sua stessa affermazione, che definisce la lotta contro Israele come una rivolta “non all’Ebraismo, ma al suo spirito di distruzione; non ad una razza, ma ad una nazione”. Altri misfatti si imputano ad Israele: l’opera di degradazione svolta dall’intelligenza ebraica nella cultura moderna […]; l’organizzazione di un piano per la conquista e l’asservimento del mondo alla potenza giudaica [il famigerato apocrifo Protocollo dei savi di Sion]. Di queste puerili giustificazioni alle barbare persecuzioni che l’avvenire riversava alla sua razza, è stato profeta Lewisohn […] No: non piano, non cospirazione, non sistematica disgregazione delle civiltà ariane, non antitesi originaria con la mentalità degli altri popoli: ma logico derivato storico, istinto di difesa, tormento interiore che in parte paralizza, in parte spinge all’azione un popolo che da secoli soggiace e resiste a tutte le persecuzioni.
Non vorremmo che la “questione ebraica” si chiudesse per troppi lettori nelle angustie di un problema meramente politico, diplomatico, sociologico. Allora, come potrebbe sentirsi interessata l’Italia d’oggi, così altamente equanime e serena verso tutte le confessioni pur essendo il centro del Cattolicesimo: l’Italia fascista in cui gli ebrei vivono con una larghezza di libertà, di decoro, di stima e onori ignota agli ebrei di altri paesi? (prefazione a Lewisohn 1934)

Certo né la nostra prefatrice né altri prevedevano le leggi razziali che pochi anni dopo avrebbero colpito l’ebraismo italiano. Nel frattempo, però, non mancavano i controlli e le censure sul Corbaccio, per motivi politici, ideologici e razziali. Alla fine del 1933 Dall’Oglio si vide sequestrare, per ordine diretto di Mussolini che non voleva grane col nuovo regime tedesco, il romanzo Croce rossa e croce di ferro, tradotto da Gian Dàuli, in cui il celebre medico e benefattore svedese Axel Munthe (1857-1949) descriveva il barbarico comportamento delle armate tedesche in Belgio e nella Francia del nord durante la Grande Guerra. Il libro fu sostituito con Naufragio dell’Europa IV, un innocuo lavoro di un allineato al regime quale eraGuido Stacchini (1897-1969) e fu pubblicato quale numero 37 degli «Scrittori di tutto il mondo» solo nel luglio del 1945, una volta caduto definitivamente il fascismo (premessa di Enrico Dall’Oglio a Munthe 1945, 5).

4.3. I nuovi francesi

Pochi i nuovi francesi nella collana, se si pensa all’egemonia che fin allora la cultura francese aveva esercitato in Italia. D’altronde Dàuli non amava troppo i contemporanei d’oltralpe, che considerava sfibrati e ripetitivi, a parte Céline, di cui s’è già detto, e il cattolico Georges Bernanos (1888-1948), di cui venne pubblicato nel 1926 Sotto il sole di Satana, un testo sicuramente non conciliante sul tema del male − protagonista la prima “perversa” Mouchette – tradotto da Cesare Vico Ludovici e presentato da Tommaso Gallarati Scotti (1878-1966). Quale miglior anfitrione per l’accoglienza del romanzo di Bernanos in Italia del biografodi Dante e Manzoni, di san Francesco e, soprattutto, di Fogazzaro? Ecco cosa scrive Gallarati Scotti nell’introduzione, in consonanza con Gian Dàuli:

Il nuovo turba sempre, e il romanzo di Bernanos è essenzialmente nuovo; diverso da quanto la letteratura francese va ripetendo da molto tempo, lontano da tutte le complicazioni erotiche e gli estetismi morbidi sia pur truccati di misticismo. Esso rompe anche con la tradizione di quella stucchevole e perfetta composition, che era quasi una conquista tecnica della letteratura narrativa francese, per cui i romanzi che si ammucchiano a dozzine, belli o brutti, empii o pii, hanno uno stampo comune di fattura, una formula di svolgimento e di misura, quasi una marca di fabbrica. Questo finalmente è un libro ribelle ai buoni precetti di composizione di un romanzo, a cominciare dalla sproporzione delle parti […] Nulla in esso è concesso all’artificio di intrecci o di situazioni, alle comparse e presentazione dei personaggi. Nulla alle ingombranti descrizioni di natura e di ambienti. Chi scrive non sa guardare le cose dal di fuori; vede poco i colori e le forme; è di una sobrietà puritana. Il suo occhio guarda al di dentro e dal di dentro, ed è troppo preoccupato del problema centrale dell’anima, per perdersi in curiosità laterali (Tommaso Gallarati Scotti, Introduzione a Bernanos 1929).

Quanto a Guy Mazeline (1900-1996) e al suo I lupi, che ebbe un buon esito commerciale − un romanzo farraginoso, una di quelle storie di grandi famiglie che tanto piacevano in Francia – è rimasto nella memoria solo per aver trafugato il Goncourt 1932 al Voyage au bout de la nuit,che lo avrebbe evidentemente ben più meritato ma che appariva agli occhi della giuria troppo eversivo e provocatorio.

4.4. I russi contemporanei

La collana adottò poi anche due scrittori russi delle nuove generazioni, ignorati dalle collane che contemporaneamente lanciavano traduzioni finalmente attendibili dei classici ottocenteschi, come la Slavia di Alfredo Polledro (cfr. Baselica 2011). Si tratta di Aleksandr Sytin, nato nel 1894, col suo Pastore delle stirpi,e di Nikolaj Nikitin (1895-1963), con La spia bianca. Sytin non ha lasciato traccia nelle storie letterarie e ben poche il suo romanzo ne ha lasciate nelle biblioteche d’Italia; Nikitin invece è ricordato quale esponente dei Fratelli di Serapione, una tendenza letteraria formalista, che faceva leva sulla nozione di straniamento. Ma questa appartenenza e comunque la sua libera e produttiva ricerca stilistica riguardano solo le opere degli anni venti, visto che via via andò poi sempre più conformandosi ai dettami del realismo socialista, perdendo anima e brillantezza, tragitto che sinistramente e trionfalmente culminò con l’ottenimento del Premio Stalin nel 1950 per il romanzo Severnaja Avrora (Aurora boreale). Traduttrici dei due testi furono, rispettivamente, Lia Neanova (in realtà, Fanny Felia Rozemberg), moglie di Ossip Felyne, e Iris Felyne, sua figlia (tutti e tre, peraltro scrittori in proprio anche nella lingua di adozione), nel quadro di quell’emigrazione bianca che tanto contribuì alla conoscenza della cultura russa in Italia.

4.5. La bibbia del lesbismo tra le due guerre

Il numero 2 di «Scrittori di tutto il mondo» editi da Modernissima fu, nel 1930, lo scandaloso Pozzo della solitudine di Radclyffe Hall (1880-1943), scrittrice britannica, che si presentava senza nome proprio: un puro doppio cognome senza sesso dichiarato. Il suo nome di battesimo era Marguerite, che lei rifiutò a favore di John, nomignolo attribuitole dalla sua prima compagna, la cantante di lieder Mabel Batten. Per la prima volta questo libro affronta apertamente il tema dell’omosessualità femminile, finendo per diventare la bibbia di quel lesbismo esploso alla luce del sole nel corso degli anni venti. La parola “lesbica”, peraltro, nel testo non compare: vi si parla, piuttosto, di “inversione”, come usava allora, secondo la terminologia messa in auge dal sessuologo Havelock Ellis che aprì la strada allo studio spregiudicato dell’omosessualità. In patria The Well of Loneliness aveva subito nel 1928 un processo per oscenità: il magistrato inglese lo aveva fatto bandire e distruggere come obscene libel. Era pura sessuofobia: un’analoga sorte toccò all’indubitabilmente “etero” Amante di Lady Chatterley di David Herbert Lawrence. Ciò nonostante, o forse anche per questo, il libro ebbe una straordinaria diffusione, grazie all’edizione parigina, e venne tradotto ovunque. Coraggiosamente Dàuli lo pubblicò (della Radclyffe Hall recuperò, presso il Corbaccio, poi anche un’opera precedente, La stirpe di Adamo) in una cultura italiana aliena da simili temi, tanto più se si pensa alla concezione che il fascismo andava elaborando della donna come angelo del focolare. Ne affidò la traduzione ad Annie Lami e, a propria garanzia, lo fece introdurre dal popolare e solleticante scrittore Guido Da Verona, nonché mantenne, nel risguardo, una Dichiarazione del citato Havelock Ellis, che accompagnava l’edizione originale inglese del 1928:

Ho letto con grande interesse Il pozzo della solitudine, perché, a parte le sue finissime qualità narrative, dovute ad un’artista eccezionale, è di un grandissimo significato psicologico e sociale […] Certi tipi, benché differenti dal loro prossimo, sono talvolta dotati del più nobile carattere e dei più elevati sentimenti; e le relazioni con la società nella quale vivono, società spesso ostile, presentano problemi difficili e non ancora risoluti. Le tragiche situazioni che ne derivano sono narrate in questo romanzo in modo così evidente ed onesto che dobbiamo, volenti o nolenti, porre il libro di Radclyffe Hall al livello dei grandi libri dell’Umanità.

4.6. La letteratura “negra”

Ben tre volumi sui diciannove editi dalla Modernissima nella collana di «Scrittori di tutto il mondo» sono traduzioni da scrittori americani “negri”, come si diceva normalmente in tempi di political incorrectness. E’ un’assoluta novità. Ecco titoli e autori: al numero 4, nel 1929, compare, da un anno appena uscito negli Stati uniti, Sua Maestà nera di John W. Vandercook (1902-1963), americano nato a Londra, con prefazione e traduzione del poliglotta Giacomo Prampolini (1898-1975), che conosceva le lingue più diverse e disparate, dal bretone all’islandese e all’afrikaans, dall’indonesiano al tibetano e al vietnamita, oltre alle ovvie lingue occidentali (si diceva in tutto una sessantina di lingue), con un penchant particolare per l’olandese. Sua Maestà nera è la biografia romanzata di Henri Christophe, re di Haiti dal 1811 al 1820. Insomma, anche i “negri”, e addirittura gli schiavi negri, avevano una storia e, per di più, un portamento regale. E con che eleganza sapevano vestire! Basta volgere l’occhio ai ritratti di Toussaint Louverture, Jean-Jacques Dessalines, Henri Christophe e del superbo Jean-Baptiste Belley, il primo deputato nero al tempo della Rivoluzione francese. Di questi personaggi parla appunto Vandercook. Non sono macchiette come erano nei film tra anni trenta e quaranta (tutti ricordiamo Prissy, la stordita cameriera di Via col vento interpretata dall’impareggiabile Butterfly McQueen).

Ecco cosa scrive Prampolini nella prefazione:

Esiste un problema negro. La più parte di noi ne ricevette, durante la fanciullezza, una prima e retrospettiva idea dalla lacrimosa lettura della Capanna dello zio Tom. Dalla data di pubblicazione del libro […] molte cose sono cambiate senza che il problema sia stato risolto. Anzi sembra essere diventato sempre più complesso e attuale. Nella sua essenza riguarda Stati e popoli lontani da noi; non molti italiani avranno avuto occasione, come il signor Vandercook, di assistere al linciaggio di un negro e di riportarne un’impressione decisiva per la propria vocazione e la propria carriera. Ma per le ramificazioni, gli influssi sottili emanati dalla razza hanno penetrato le civiltà europee di più antica data e compatta struttura, indebolite dalla recente guerra, sì che parecchie voci già si sono elevate per gridare al pericolo. Pensiamo […] alla pronta ospitalità ricevuta da “jazz”, “shimmy”, “blues” e “charleston”, come movimenti di danza e motivi musicali, e al largo favore di cui gode oggi l’arte negra. Questa razza […], che dappertutto ha padroni, s’è impadronita del mondo intero con lieve facilità, coi mezzi più innocenti e amabili: suoni, gesti, statuette, amuleti. Le sue canzoni sono piaciute alle stanche malinconie degli uomini bianchi, i suoi idoli contendono ai quadri del post-espressionismo o realismo magico l’onore dei salotti alla moda […] Dunque la razza alla quale con giovanile ardore s’interessa il signor Vandercook, senza avere del tutto perduto le sue caratteristiche esotiche, è in certo modo all’ordine del giorno sulla lavagna dell’attenzione universale (prefazione a Vandercook 1929, 7-10 passim).

Al numero 6 della collana dauliana fa poi capolino Il paradiso dei negri di Carl Van Vechten (1880-1964), nato in Iowa, scrittore e fotografo (oltre a riprendere numerosi nudi maschili omoerotici, fece ritratti di Francis Scott Fitzgerald, di Frida Kahlo, di Diego Rivera, di Bessie Smith, di Langston Hughes, uno dei maggiori protagonisti della Harlem Renaissance, della quale nel 1926 aveva stilato il manifesto, The Negro Artist and the Racial Mountain), frequentatore abituale del Jazz Clubdi Harlem, l’allora quartiere nero di Manhattan. Fu amico di Gertrude Stein, con la quale intessé una lunga amicizia, testimoniata da una fitta corrispondenza e dal suo ruolo di esecutore testamentario della scrittrice. Il romanzo venne pubblicato da Modernissima nel 1930 con prefazione e traduzione di Gian Dàuli, il cui nome scomparirà dall’edizione 1964 per «I corvi».

Dopo un rapido schizzo di come la “razza negra”, che in passato gli era apparsa inferiore, fosse emersa dall’ombra nel campo della poesia, delle arti e soprattutto nella musica («quella sensualità musicale, quella profonda malinconia di ritmi e di cadenze che prende nella carne più che nello spirito, o, meglio, lo spirito attraverso la carne»), ecco come Gian Dauli, nella prefazione a Van Vechten 1930 (pp. XVII-XVIII) illustra il suo progetto di «letteratura negra»:

La Casa Editrice Modernissima nel suo compito di dare con la collezione «Scrittori di tutto il mondo» una visione generale del pensiero e dell’arte degli altri paesi, non poteva trascurare la letteratura negra. Ha scelto tre romanzi che formano nell’assieme la migliore visione panoramica dei negri nella vita e nell’arte: Sua Maestà nera, il racconto inobliabile di un grande e sventurato negro, Henri Christophe, nato schiavo nel 1767, morto re di Haiti nel 1820, che mostra a quali altezze può arrivare anche un uomo di colore, ignorante, quando anteponga a tutto l’amore della sua razza e della sua patria; Il Paradiso dei negri, inquietante quadro della vita che conducono a Nuova York quei cattivi negri che cercano di imitare i bianchi specialmente nei vizi e che aspirerebbero a confondersi e fondersi con loro; il Ritorno ad Harlem, che riproduce lo stesso quadro di vita, ma ci mostra la passione, le sofferenze, i sogni di quei negri i quali vogliono che la propria razza si emancipi dai bianchi e abbia una propria individualità e una propria coscienza e lavori per conquistarsi un suo posto nel mondo.

Il lessico usato da Dàuli, come del resto da Prampolini e anche da Alessandra Scalero, prefatrice di McKay, è d’epoca: “razza” e “negro” oggi non potrebbero usarsi con la medesima noncuranza. Si userebbe “letteratura afroamericana” o “nera” (African-American o black literature) e non “letteratura negra”. Peraltro, come risulta dalle note a fondo pagina, Dàuli era ben al corrente del significato di molti termini di slang, come ofay, jig-chaser, sheikh, monk, che vengono più di una volta usati senza essere tradotti nel corso del testo, con una scelta per allora inusuale e innovativa. Come ben sapeva che gli afroamericani non amavano l’appellativo di nigger, ovvero di“negro” (Van Vechten 1930, 27, nota 1). Oggi Van Vechten non è stato dimenticato, come invece Vandercook, ma il suo Nigger Heaven è un libro contestato, inevitabilmente, da parte dei cultural studies o dei black studies, con quel suo Byron Kassoon che aspira a farsi “bianco” senza riuscirvi. Anche in Italia se ne è ricordata di recente, nel 2010, la casa editrice Elliot di Roma pubblicando la traduzione di Marco Simonelli, Una tigre in casa, del suo The Tiger in the House, risalente al 1922.

Anche il terzo testo del gruppo, Ritorno ad Harlem di Claude McKay (1890-1948), uscì nel 1930, nella traduzione di Alessandra Scalero e anche con una sua prefazione. L’autore questa volta è un nero (non scrive di “neri”, scrive in quanto “nero”, come sottolinea la prefatrice, peraltro usando ovviamente il termine di “negro”), ed esattamente un giamaicano, anch’egli importante protagonista della Harlem Renaissance. Come scriveva Hughes nel suo manifesto, l’oggetto del lavoro artistico degli afro-americani doveva essere l’identità del nero, e il loro dilemma stava nella consapevolezza di essere insieme neri e americani; e l’Africa era lontana, una dimensione perduta. I due protagonisti di Home to Harlem, Ray e Jake, diversamente dal Byron Kassoon di Vanvechten, accettano la loro condizione di “negri”, il primo più riflessivamente e malinconicamente, il secondo più spensieratamente. Con questo romanzo, come con Il paradiso dei negri, si spalancava per il lettore italiano un mondo variopinto, rutilante, con i suoi bars (parola nuova, allora), le sue case da gioco, i suoi cabarets, la sua musica, il jazz soprattutto, di cui poteva avere qualche pallida immagine muta dal cinema. Un mondo promiscuo, sottilmente bisessuale e omosessuale, quello della Harlem artistica, dove bianchi e neri cercavano una difficile fusione: d’altronde della Harlem Renaissance si è detto che era as gay as it was black, come suonava il titolo di una mostra newyorchese del 2010 sul movimento di rinascita nero e i suoi protagonisti.

4.7. Gli amati americani

Ma, neri o ebrei o amanti del mare o omosessuali, questi scrittori interessavano Gian Dàuli soprattutto perché americani. E americani erano infatti i suoi idoli, coma Jack London e Thornton Wilder (1897-1975), di cui Modernissima pubblica nel 1929 Il ponte di San Luis Rey e il Corbaccio, nel 1932, La cabala, un romanzo di esotica (per gli americani) ambientazione romano-cardinalizia con tanto di reazionaria aristocrazia nera, in una sgradevole traduzione di Laura Babini Alvaro, moglie di Corrado (La cabala è stata riproposto di recente nella nuova versione di Alessandro Zabini per Tre Editori, di Roma). Il ponte di San Luis Rey fu invece tradotto da Lauro De Bosis (1901-1931), un singolare amante della libertà, di sentimenti monarchici, che si rese celebre con un volantinaggio antifascista su Roma la sera del 3 ottobre 1931, e si trattava di centinaia di migliaia di manifestini, impresa che gli costò la vita: il piccolo aereo da turismo che pilotava, al ritorno verso la Francia, rimasto senza carburante, precipitò nelle acque della Corsica. De Bosis era fine traduttore di tragedie greche: in particolare, non a caso, dell’Antigone, il dramma che inscena lo scontro tra legge morale e legge dello stato. Ma era anche un perfetto conoscitore della lingua inglese grazie alla madre americana e alla sua frequentazione degli Stati Uniti, e oltre che di Wilder realizzò anche, per l’editore Stock di Roma nel 1925, una versione – ridotta − del celebre saggio antropologico di James Frazer The Golden Bough (Il ramo d’oro), ripresa nel 1964 da Boringhieri e ancora oggi circolante.

Per Il ponte di San Luis Rey Gian Dàuli, nella forma fittizia di una lettera a Thornton Wilder, scrive un’importante prefazione che si può considerare una sorta di suo manifesto culturale e letterario. Dopo aver parlato delle conseguenze spirituali della Grande guerra – tematica ricorrente in lui, che si dichiara, peraltro come tutti gli europei, un «superstite» – e aver tratteggiato i caratteri della civiltà dell’anteguerra come civiltà del privilegio, contrapponendola alla civiltà dell’era postbellica sbandierante la formidabile parola di «libertà», che però presto «corruppe e distrusse», Dàuli prende a illustrare quello che definisce l’ideale americano, che evidentemente lo affascina:

Oggi predomina l’ideale […] della salute e della forza fisica, del massimo sforzo per il bene materiale, un ideale che ai cristiani può sembrare una forma di satanismo, e agli Europei, in generale, una pericolosa norma di vita fine a se stessa, un’esaltazione dell’edonismo più cieco, che per la ricchezza e il comfort abbassa e calpesta le ragioni superiori della vita e dello spirito.
L’uomo è creazione di Dio; ma la macchina non è forse creazione di Satana se tende a “standardizzare” ogni cosa, a specializzare ogni attività umana, a sopprimere ogni libera attività per accrescere la forza e la ricchezza collettiva; a distogliere l’uomo da ogni avventura spirituale?
Così sembra; ma non è vero!
La smentita ci viene dallo stesso Paese dove trionfa più che altrove la civiltà delle macchine; dal Paese che noi Europei, in fondo, siamo avvezzi a disprezzare come il Paese della praticità, dei dollari, dei parvenus; da quei luoghi in cui ci pare che il materialismo trionfi e che supremo ideale siano la forza e la salute; dove persino l’amore sembra considerato come semplice funzione biologica. Dai paesi dell’arrivismo e dell’affarismo forsennato, ci giunge una rigogliosissima fioritura di opere d’arte che stanno a testimoniare come anche là dove i valori dello spirito parevano schiacciati dalla macchine e dalla strenuous life, essi hanno finito, invece, col prevalere, con una vittoria che è la più grande conquista dello spirito per il progresso del genere umano, poiché per la prima volta lo spirito prevale e vince dov’è forza, salute e ricchezza [il corsivo è di Dauli].
E dobbiamo ricavarne questo insegnamento; la poesia, per nascere e vivere, non ha bisogno di albergare in corpi deboli, inerti e malati, né di essere spronata dalla miseria o favorita dalla scapigliatura […] Lo spirito vive, e più intensamente che mai, dove è ordine, che vuol dire dignità, dov’è ricchezza che vuol dire libertà, dove è salute, cioè bellezza.
A iniziare la pubblicazione delle opere più care al mio cuore e più significative al mio spirito, le opere degli scrittori nordamericani, non ho scelto a caso questo vostro Ponte di San Luis Rey.
Al patrimonio artistico, come alla vita economica e sociale, degli Stati Uniti, al grande crogiolo di energie umane partecipano Inglesi, Tedeschi, Russi, Francesi, Olandesi, Spagnoli, Ebrei, Negri e anche figli della mia terra. Quest’ultimo fatto mi ha indotto, in un primo tempo, ad accarezzare l’idea di dare per prima la traduzione di un romanzo dell’italo-americano, del Forgione, ad esempio [plausibilmente The Men of Silence di Louis Forgione, Dent & Co., New York 1928 – Nota mia]; ma letto il vostro Ponte di San Luis Rey, non ho saputo resistere al suo fascino particolare e caratteristico dei nuovi scrittori americani.
Dirò che presso di noi gli Americani non sono ancora riusciti a sfuggire al pregiudizio che li fa apparire in una luce ingiusta e poco veritiera. I più pensano degli Stati Uniti in una maniera semplicistica e spesso irriverente. Secondo una tradizione, o nomea o diceria corrente, gli Americani del Nord sono gente goffa, rude, intenta solo a far quattrini, a misurar tutto in dollari […](prefazione a Wilder 1929, 13-17 passim).

Dopo aver sottolineato il carattere multirazziale della società americana, di crogiolo di razze al quale aveva dato un grande contributo il sangue italiano, crogiolo da cui derivano «la ricchezza americana, la salute americana», Dàuli elogia lo stile di Wilder e la sua prospettiva sul mondo, che considera di «schietta impronta americana». E così continua:

Questa vostra sensibilità artistica, che pare affinata da un’esperienza più sottile e universale, da maggiore umanità e profondità di visione, è – sebbene in diversa maniera realizzata – comune a tutti i più moderni scrittori della vostra terra, dal conturbante Sherwood Anderson, implacabile cercatore della verità, al sereno Joseph Hergesheimer che ci concilia con le traversie dell’esistenza; ai vari Winston Churchill [non il grande statista inglese, naturalmente, bensì l’omonimo scrittore americano assai popolare a inizio Novecento – N.d.A.], Ellen Glasgow, Edith Wharton, Boosh Tarkington, Waldo Frank, Henry Beston, Willa Cather, James Hoper, Oliver La Farge, Meridel Le Sueur, John S. Sexton, Frank Shay, Allan Sullivan, ecc., osservatori pazienti e acuti della passata e presente vita americana, continuatori della tradizione di Hawthorne e Henry James; dal detestato Sinclair Lewis, notevole per l’inesorabile satira della classe media, a Theodore Dreiser col suo sconcertante naturalismo, al socialistoide Upton Sinclair; da John Dos Passos che cerca di racchiudere in un romanzo il parossismo delle grandi folle, a Carl Van Vechten, a F. Scott Fitzgerald e al negro pensoso poeta ClaudeMcKay, i quali descrivono l’avventura, la follia, la tragedia dell’età del jazz, con continue e profonde annotazioni del cuore che svelano sospiri di nostalgia, battiti di pietà umana, stanchezze mortali e ribellioni generose […] falange poderosa di scrittori tra i più interessanti del mondo.
Ed ora […] io mi domando come possano essere accolte dai miei conterranei non solo le vostre opere, ma le altre opere nordamericane che vedranno la luce nella nuova collezione. Vi confesso francamente che gli scrittori americani non hanno, come si dice, una buona stampa presso di noi, per quella nomea di arricchiti parvenus che è diventata un luogo comune. Da noi si ammette, semmai, che gli Americani possano scrivere dei bei romanzi di avventure alla London o alla Curwood, ma vere e squisite opere d’arte, di poesia, di psicologia, oh, no! Quest’è la realtà attuale. Ma io mi permetto oggi una facile predizione. Potrà darsi che la critica non si occupi neppure di Voi, come non si è occupata fin qui di quella impareggiabile opera che è Sua maestà nera di Vandercook, o sorrida alla pubblicazione di molte opere di scrittori nordamericani, come sorride ancora, sdegnosa, del successo formidabile delle opere di Jack London; ma il pubblico nostro finirà con lo scoprire da sé le vostre opere e le opere degli scrittori americani, con ammirazione e con gioia, e accoglierà la nuova letteratura nordamericana con quello stesso favore che già concesse alle vostre invenzioni e alle vostre macchine, riconoscendo quella novità e forza di concezione, quella verità di forme e di soggetti, direi quasi, quella salute e ricchezza artistica che noi Europei o abbiamo perduta o non possediamo ancora (Wilder 1929, pp. 19-21, passim: i corsivi sono di Dàuli).

Ciò che risulta sicuramente da questa prefazione − dall’argomentazione talora concettualmente incerta e confusa, dal linguaggio, come abbiamo già osservato, d’epoca (ma non è il caso di fare gli schizzinosi da parte nostra che viviamo, invece, in uno scenario di convenzioni lessicali “corrette”) − è l’ammirazione di Dàuli per il vitalismo americano e, invece, il fastidio per la morbosa e malata sensiblerie europea, a meno che non si trattasse delle nuove tendenze a forte caratura psicanalitica della contemporanea narrativa ebreo-tedesca o ebreo-austriaca (sulla quale peraltro palesò qualche perplessità, come nella prefazione al Ciarlatano di Kesten). Questa “americanità” egli ravvisa anche in Wilder, autore, peraltro, fortemente letterario, non il tipico narratore americano di vita vissuta, come poteva essere un London. Altro aspetto che traluce da questa prefazione, un vero e proprio «inno all’America» (David 1989, 31), ai suoi boxeurs, ai suoi bars, al suo jazz, alle sue dancing girls, ai suoi “negri” anche, è la conoscenza davvero analitica che rivela degli autori americani contemporanei, conoscenza in cui gli fece da battistrada la moglie Edith Carpenter, e in cui gli furono d’aiuto i suoi contatti editoriali e con i traduttori. Spiace che Pavese, dopo esserglisi rivolto nella citata lettera del 1934, non abbia mai più fatto il nome di Dàuli. Solo più tardi infatti arrivarono la «Medusa» di Mondadori e il Vittorini di Bompiani; ma su questo pioniere, il silenzio.

Due anni dopo Il ponte di San Luis Rey, nella collana compare Babbit di Sinclair Lewis (1885-1951) − uscito in America una decina di anni prima − nella traduzione di Liliana Scalero. Questo celebre romanzo, sicuramente il capolavoro di Lewis, epopea satirica dell’americano medio, venne tradotto prima del conferimento a Lewis del Nobel per la letteratura nel 1931 e di ciò «Gli editori» − cioè Giuseppe Ugo Nalato alias Gian Dàuli e, ovviamente, Dall’Oglio − si compiacciono nella breve presentazione, dove si legge che il Premio «rappresenta in certo modo la sanzione del mondo intellettuale alla moderna letteratura nordamericana»: fu infatti il primo Nobel assegnato a un autore statunitense. L’eco del romanzo, che suscitò contro Lewis l’odio di gran parte dell’establishment, fu tale che la parola babbit penetrò presto nel vocabolario degli States per indicare un uomo d’affari conformista, soddisfatto di sé, materialistico, per quanto “innocente”. Dal punto di vista specifico della traduzione, poi, Lewis presentava rilevanti problemi: è noto l’ampio uso da lui fatto dello slang e, in questo senso, può essere considerato pionieristico nella narrativa americana. Tale scelta discendeva d’altronde, pressoché inevitabilmente, dalla sua volontà di dipingere un quadro della provincia americana rigorosamente fedele. «Questa specie di gergo e di dialetto, espressione nazionale americana, è da lui compresa e amata e fatta, infine, poesia, risultandone la vera creazione di un linguaggio – il volgare americano» (Pavese 1978, 27). Liliana Scalero optò per una gradevole normalizzazione, a differenza di quanto farà Pavese (buon conoscitore di Lewis, al quale dedicherà vari saggi, come il prezioso e seminale Senza provinciali, una letteratura non ha nerbo, comparso su «La Cultura» del novembre 1930) traducendo di Lewis il precedente Our Mr Wrenn (1914) per Bemporad.

E infine il dimenticato, ma sicuramente degno di riconsiderazione, Joseph Hergesheimer (1880-1954). Vuole il caso che di lui si parli proprio in Babbit. Babbit una sera si trova solo in casa e cerca nella biblioteca domestica qualcosa di piacevole da leggere. «Nessuno di quei libri gli piacque. Sentiva in essi uno spirito di ribellione contro i costumi e lo spirito borghese. Questi autori […] non si preoccupavano di raccontare una bella storia per far dimenticare al lettore i propri guai». Ma poi lo sguardo gli cade su The Three Black Pennys di Joseph Hergesheimer:

Ah, ecco finalmente ciò che cercava! Doveva essere un romanzo d’avventure, forse di falsari, di poliziotti […] Mise il libro sotto il braccio, scese pesantemente le scale e cominciò solennemente a leggere sotto la luce della lampada vicino al pianoforte […] Sempre la stessa cosa: ribellione alle buone vecchie cose. Babbit posò il libro e ascoltò in silenzio» (Lewis, 1930, 340-341).

Dunque, se ne può desumere, all’epoca, Hergesheimer era uno scrittore noto e, per di più, non aveva certo la fama di essere convenzionale, come ci fa intendere la satira piuttosto scoperta, e anche un po’ greve, di Lewis. La valutazione nei suoi confronti oscillò straordinariamente e, alla fine, attorno a lui, si fece il silenzio. Peculiarità di Hergesheimer erano uno stile elaborato e umbratile, una narrazione visiva e di atmosfera, una grande morbidezza di toni e una propensione per le ambientazioni esotiche. Tampico, pubblicato originariamente nel 1926, comparve nella collana «Scrittori di tutto il mondo» nel 1933, uno degli ultimi titoli della gestione Dàuli. Il romanzo, la cui vicenda si svolge sullo sfondo del Messico del petrolio, ha poco da invidiare a un buon Graham Greene. Ma sicuramente più notevole, sotto il profilo letterario, è Lo scialle di Manilla, uscito tra «I Corvi» nello stesso anno, quando ancora Dàuli era un ascoltato suggeritore di titoli, nella traduzione di Luigi A. Garrone. Questa volta l’ambientazione è Cuba negli ultimi anni coloniali, poco prima della guerra ispano-americana del 1898, voluta fortemente dall’espansionista Thedore Roosevelt, la splendid little war che portò all’ “indipendenza” dell’isola, cioè al suo ingresso nella sfera di influenza americana (si sa che Roosevelt, e non solo lui, riteneva l’America centrale e i Caraibi il «cortile di casa» degli Usa). Il protagonista del romanzo, Charles Abbot, di sentimenti puritani, si fa portatore degli ideali americani tra i cubani stanchi dell’esangue ma occhiuto dominio spagnolo: in realtà, sotto tale alibi, egli sente una forte attrazione per il sensuale mondo tropicale, e la sua sarà una storia, neppure troppo celata, di amore omosessuale, naturalmente sublimato. Romanzo dai toni delicati, tanto da risultare un po’ spaesante oggi. Comunque, per il lettore italiano si aprivano nuovi orizzonti e sottili suggestioni.

5. Fascista?

fascistaEbrei, “negri”, omosessuali, freudiani, anarchici, espressionisti, pacifisti, protofemministe e suffragette, inquieti e inquietanti scrittori d’avanguardia di qua e di là dall’Atlantico: si agita, nelle opere promosse in Italia da Gian Dàuli editore, direttore di collane e traduttore, un mondo ben lontano da quello strapaesano, quadrato, maschio e sciovinista voluto con tutte le sue forze dal fascismo arrembante. Eppure, tra il 1935 e il 1936, il nostro accampa un altro nom de plume, Ugo Caimpenta, e sforna per la casa Aurora di Milano, introdotti da lui stesso col proprio “vero” nom de plume Gian Dàuli, un terzetto di volumi apologetici del neonato impero e dei suoi conquistatori: Il Maresciallo Graziani l’Africano, L’impero italiano d’Etiopia (o L’impero abissino), Il Maresciallo Badoglio. Con Lucchi, l’editore dell’Aurora, Dàuli avvia, dopo la rottura con Dall’Oglio – dovuta probabilmente proprio a questa sua acquiescenza al regime −, una politica di diffusione popolare di libri a prezzi stracciati e da pioniere di metodi propri dell’industria editoriale moderna che gli attira la disistima dei letterati e l’ostilità dei sopracciò, a cominciare dai gerarchi della Federazione fascista degli editori (cfr. Caccia 2013 e Caccia 2014). Tanto bastò a isolarlo in quegli anni e a farne, inviso sia agli antifascisti sia ai nostalgici, un dimenticato dopo la morte, che lo colse poco dopo la fine della guerra.

Ma era davvero fascista, questo «Uomo di Disordine», come lo chiama con acuta pertinenza il suo affascinato biografo Michel David (1989, 75)?

Certamente non mancano ondeggiamenti, cedimenti, episodi ed epifanie che avvicinano Dàuli a un certo mussolinismo: nel 1917, dopo la disfatta di Caporetto partecipò alla propaganda bellica insieme al futuro duce (David 1989, 23). Ma com’è noto, l’atteggiamento degli intellettuali italiani di fronte all’intervento fu di quasi universale favore: tra gli scrittori si conta l’isolata e parziale eccezione di Aldo Palazzeschi. Era il clima di un’epoca, i figli della piccola e media borghesia sognavano, tutti, e idealizzavano, l’avventura virile della guerra, in cui vedevano una sorta di riscatto patriottico e di fusione nazionale. Ma l’avventura ebbe conseguenze impreviste per l’Europa. Molto significativa, in proposito, è la prefazione di Dàuli al Ciarlatano di Hermann Kesten, il numero 35 degli «Scrittori di tutto il mondo», uscito nel 1934, il cui titolo allude sarcasticamente alla capacità di cambiare casacca ideale e si riferisce un po’ a tutti i personaggi del romanzo che agiscono febbricitanti, e presto dimentichi del passato, nella Germania sull’orlo del baratro del 1932:

Trauma della guerra mondiale: profondo sconvolgimento degli spiriti. Tale era stata la carneficina, che, sepolti i cadaveri, i rimasti si guardarono perplessi […] Così, pur terminato il conflitto, seguirono in ogni nazione, con le rovine, i crolli successivi e altri cadaveri – metaforici e no – si aggiunsero all’enorme mostruosa ecatombe. Come altri conflitti scoppiarono, in seno a ogni nazione, e alla guerra successero le rivoluzioni. Immediatamente violente e sconvolgitrici là dove erano comunque latenti sotto un’impalcatura sociale corrosa alle basi – più lontane dove quell’impalcatura aveva basi che resistessero […] Era la ribellione a ogni vincolo nei reduci dal fronte; era la follia dissipatrice e il cinismo avido in coloro che dalla guerra avevano tratte fonti impensate di guadagni non sudati; era il vizio e il libertinaggio in tutti, ché tutti […] avevano perduto il controllo morale ed erano giunti a considerar morale tutto quanto fosse piacevole o utile, se pur momentaneo.
L’abisso era, e non poteva non essere, incolmabile tra coloro che, durante la guerra e per la guerra, avevano tutto perduto, e si trovavano poveri, mutilati nel corpo e nell’anima, avvelenati nello spirito, e coloro che, rimasti a casa e raggiunta una subita, impensata fortuna, avevano perduto ogni contatto col lecito […] I reprobi avevano alzato il capo e, volta la faccia verso la Russia, anelavano ad una furia livellatrice, che riparasse […] alle antiche ingiustizie. I soldati, vittoriosi o vinti, reclamavano un compenso ai propri sacrifici, e gridavano i nomi dei morti e levavano moncherini e mostravano i corpi feriti. Le vecchie plutocrazie accentuavano, per spirito di conservazione, il loro cieco egoismo.
In mezzo a questo sconvolgimento pauroso, la più smarrita di tutte le classi fu quella degli “intellettuali”, di coloro che vivevano per mediare, per cercare il bello, l’armonia, la pace serena dello spirito. E tra costoro, gli artisti, i “creatori” esasperati nella loro sensibilità dal terribile spettacolo della guerra […] cercarono vanamente di riallacciare i vincoli col passato […] Ma i tronchi erano stati recisi, le radici divelte […] Tra essi, e in poche nazioni, soltanto un piccolo nucleo – gli appartenenti alla razza più antica e diseredata del mondo, coloro che non avevano patria e che vivevano estranei nella loro stessa nazione – poté rimanere spiritualmente sereno […] e continuare a pensare e a creare: gli israeliti. Così si ebbe soprattutto in Germania, nel campo delle lettere, una prodigiosa rinascita israelita e i maggiori romanzieri del dopoguerra furono ebrei: da Thomas Mann a Feuchtwanger, da Wassermann a Schnitzler.
Gli anni che precedettero l’avvento al potere dell’antisemita Hitler segnano il trionfo indiscutibile degli scrittori ebrei; mentre in tutti i paesi anche quelli fortunatamente salvi, come l’Italia, che aveva trovato, per volontà di un Uomo, un nuovo ordinamento, la propria salvezza – gli scrittori indigeni non ebbero la forza di ritrovar se stessi e di uscire dal proprio smarrimento. Quando vollero fare, o balbettarono motivi d’anteguerra o tentarono di cantare, novelli Tirtei claudicanti, dietro alle forze giovani marcianti verso la vita. Fecero pena. E meglio fu per coloro che tacquero.

Testo emblematico per tanti versi, tra detti e non detti, anche sul piano linguistico (plutocrazie, reprobi). Accanto a un’analisi del primo dopoguerra da un punto di vista interclassista (o, meglio, di chi si sente schiacciato tra le due forze sociali opposte e soverchianti dei ceti proprietari e degli operai) e non privo di suggestive intuizioni, emergono, da una parte, il plauso all’Uomo, al salvatore della patria, ovviamente il duce, visto come colui che era riuscito a evitare all’Italia il disastro toccato ad altri paesi, dall’altra, una critica non tanto sottesa nei confronti dell’antisemitismo hitleriano (critica ulteriormente e più apertamente testimoniata dalla lettera a un lettore tedesco del 5 giugno 1936, riportata da David 1989, 179), chiaro apprezzamento nei confronti dell’intellettualità ebraica (di cui si reputava allora facesse parte lo stesso Thomas Mann) e una pesante critica nei confronti delle produzioni letterarie «indigene», incapaci di stare al passo coi tempi. Quanto al plauso nei confronti del duce, forse “doveroso” da parte di chi intendeva continuare a lavorare nell’editoria, occorre dire che si tratta di piaggerie della stessa grana di quelle dei vari Alvaro − delatore, tra l’altro, verso il 1928, dello stesso editore Dall’Oglio alla polizia politica fascista (Gigli Marchetti 2000, 48) −, Ungaretti, Bontempelli, Cecchi, Bellonci e di un quanto meno sincero Piovene, ecc., tutti dal più al meno futuri “redenti”.

Sulla base di questa analisi si spiegano tante scelte editoriali di Dàuli e di Dall’Oglio, suo socio e sodale. Se il lungo brano che abbiamo citato può indurre a vedere in Dàuli un sostenitore del fascismo o comunque un personaggio che ne condivideva taluni topoi (come la polemica contro i “pescecani”, coloro che avevano lucrato della guerra a scapito dei combattenti), le sue scelte editoriali testimoniano, e palesemente, in senso contrario. Quasi certamente ci fu, verso il 1934, all’epoca del “consenso” di massa verso il fascismo, un certo avvicinamento di Dàuli al regime, tra convinzione e convenienza, e a questo avvicinamento, e anche alle sue continue richieste di denaro all’editore, Ada Gigli Marchetti (2000, pp. 63-64) attribuisce la rottura, in realtà mai definitiva, con Dall’Oglio, il quale, a ogni buon conto, da quel momento fece sparire le prefazioni di Dàuli dalle successive edizioni degli «Scrittori di tutto il mondo». Di sicuro, Dàuli era e si manifestò sempre contrario alle politiche razziali antiebraiche.

E, comunque, le sue più riuscite opere narrative, in filigrana, ci rivelano un Dàuli non certo assimilabile ai programmi culturali del fascismo, in particolare La rua (più indirettamente Cabala bianca). Nel romanzo, uscito originariamente nel 1932, quando il regime era ormai pienamente assestato, non si cantano certo le lodi dell’interventismo e del coraggio di trincea, tanto che il protagonista e narratore Giovannino (una sorta di alter ego dell’autore) è molto felice perché grazie alle sue doti di scrivano può starsene tranquillo in qualche fifaus, termine di facile decrittazione con il quale la truppa indicava le sedi dei comandi o altri luoghi da “imboscati”:

Ma io ebbi la fortuna che si scoprisse subito che avevo una bella calligrafia, e per la calligrafia in pochi mesi arrivai sino al comando di Reggimento […] Quando c’era d’andare avanti, noi si rimaneva indietro, e qualche cosa ci scappava sempre da bere e da mangiare meglio che altrove. Io, poi, stavo meglio dello stesso signor Colonnello, ché lui, poveretto, doveva andare avanti e in trincea a fare del suo meglio per non prendere delle “pipe” dai comandi superiori (Dàuli 1932, 331).

Dàuli/Giovannino non tace, senza peraltro condannarle, sulle idee contro la guerra che circolavano tra i soldati al fronte:

Durante la guerra in licenza ci fui due volte e devo dire la verità che mi bastarono per capire certe idee che avevano alcuni miei compagni contro la guerra. Io, se fossi stato Cadorna, i soldati in licenza non ce li avrei mai mandati […] nascevano delle idee in testa e si facevano poi dei ragionamenti che se li avessero sentiti i superiori ci avrebbero mandati sotto processo (Dàuli 1932, 333).

E sul “biennio rosso”, il dopoguerra sconvolto dalle lotte sociali e politiche dominate dalle agitazioni proletarie, dice cose certamente riprovevoli agli occhi dei benpensanti e di quelli della prima ora, dalle quali traspare non poca ironia e scetticismo nei confronti delle nuove sorti italiche:

I giorni seguivano i giorni, le settimane le settimane, i mesi i mesi e quando i fascisti cominciarono a gridare «A noi!» e a lavorare di manganello, feci tirare fuori da Sofia la mia vecchia divisa del glorioso fante e rinfrescare i nastrini e le mostrine, ché oramai dovevo mettere il cuore in pace che la rivoluzione come in Russia non ci sarebbe stata (Dàuli 1932, 336).

Tutto ciò, ovviamente, non significa un antifascismo ideologico e ideale, bensì un antifascismo per così dire istintivo ed esistenziale. E peraltro tutto il romanzo trasuda di una visione antieroica del mondo che mette in primo piano emozioni e sentimenti privati, per di più non sempre onorevoli ed edificanti. Giovannino è un borghese spostato, inconcludente, privo di ambizione, molto affettuoso, incapace di fare del male, che nella società circostante vede solo del marcio: arrivismo, avidità, sensualità, caratteristica, quest’ultima, dominante anche in lui.

6. Conclusione e fin de partie

Insomma il quadro complessivo è variegato: tra imprese realizzate e progetti rimasti tali, Dàuli praticamente fiutò ogni novità letteraria della prima metà del Novecento. La sua collana più ambiziosa, quella di cui abbiamo parlato diffusamente, fornì il modello a molte altre iniziative editoriali. Questo merito solo negli ultimi anni gli si va riconoscendo, lentamente. e, direi, stentatamente, con l’eccezione di Michel David, che fu folgorato dal personaggio, e di qualche specialista di storia dell’editoria.

In quegli ultimi, amari anni, durante i quali sgorgò il suo Cabala bianca, per Lucchi riprese il feuilleton Le pont des soupirs dell’anarchico corso Michel Zévaco (1860-1918), amato da generazioni di lettori fino a tutti gli anni quaranta, che inizia con una celebre allocuzione a Venezia, celebre, naturalmente, tra i lettori di romanzi d’appendice: «O Venezia! Come eri tu bella e pura, in quella sera di festa magica!». Dàuli ne predispose per Lucchi una versione adattata (in realtà, molto ridotta e, di fatto, riscritta), Il ponte dei sospiri, che circolò a lungo sulle bancarelle. A poche righe dalla conclusione vi inserì una frase tutta sua (come spesso gli capitava in questa produzione popolare) che può compendiarne in certo modo la personalità, perché coglie bene lo spirito con cui sempre operò, secondo le testimonianze e le lettere: massima disponibilità, nessun rancore, mai piegato dalle circostanze, sempre pronto a ripartire: «Purtroppo gli uomini ignorano quasi sempre o nella foga del vivere dimenticano troppo spesso la potenza ricostruttrice dell’amore e quella distruttrice dell’odio e credono alla fatalità del Destino» (Zévaco 1940, 283).

Una frase (anche se non “firmata”, rivelatrice del pensiero di Dàuli: si sa che tra le pieghe dei testi si colgono i più profondi tratti di verità) che nessuno oggi, in tempi disincantati e avvezzi alla decostruzione, oserebbe scrivere o pronunciare. Ci si sentirebbe ridicoli. Ma è proprio questo che affascina di Gian Dàuli: la strana mescolanza di ingenuità e di raffinata sensibilità letteraria. Gian Dàuli è, per così dire un ossimoro, un intellettuale non intellettuale, un provinciale cosmopolita, un dilettante professionale, se vogliamo perfino un fascista non fascista. Questa è la sua cifra, unica.

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