La recensione / 4 – Un nuovo microgenere letterario

L’AUTOBIOGRAFIA DEL TRADUTTORE

di Giulia Baselica

A proposito di: Massimo Bocchiola, Mai più come ti ho visto. Gli occhi del traduttore e il tempo, Torino, Einaudi, 2015, pp. 211, €18,00

Ogni volta che “l’autore invisibile” prende la parola per raccontarsi, offre ai suoi lettori un dono prezioso: apre le porte di quella stanza, tutta per sé, luogo fisico e reale o metafisico e mentale, nella quale, il tempo unito alla fatica, a poco a poco prende forma e vita un’opera nuova. Nell’ultimo decennio alcune note traduttrici hanno preso la parola per raccontare – forse anche per raccontare a sé stesse – il proprio lavoro, originando nuove forme di narrazione e, soprattutto, un nuovo microgenere letterario: quello dell’autobiografia del traduttore. Un microgenere del tutto peculiare, in quanto tale forma di autobiografia pone al centro della narrazione non il traduttore con la storia della sua vita, bensì l’opera tradotta e il suo farsi attraverso il traduttore, il quale diviene, quindi, sensibilissimo strumento catalizzatore di ogni possibile esperienza, interiore ed esteriore, reale o immaginata, atta a suggerire, a cogliere infine a rivelare il senso del testo. A Di seconda mano di Laura Bocci (Rizzoli 2004), Pareti di cristallo di Barbara Lanati (Besa 2007) e Sul tradurre. Esperienze e divagazioni militanti di Susanna Basso (Bruno Mondadori 2010) si aggiunge ora Mai più come ti ho visto. Gli occhi del traduttore e il tempo di Massimo Bocchiola, autore, oltre che di saggi critici e di poesie, di numerose traduzioni di opere letterarie di autori di lingua inglese, come Kipling, Beckett, Fitzgerald, Pynchon, Auster, Amis, O’Connor, Welsh e molti altri.

Bocchiola nella stagione invernale accoglie il lettore nel suo studio milanese, dipinto di rosa carico; d’estate lo attende in una casa sulle colline pavesi dell’alto Oltrepò: il luogo è un elemento essenziale dell’atto traduttivo che «impone una staticità nello spazio di cui l’ingombro del testo originale e il bisogno di aiutarsi con almeno un dizionario – o meglio due; o meglio ancora, trenta – sono i certificati più evidenti». E proprio tali luoghi silenziosi – testimoni di lunghi e ripetuti percorsi, nella memoria e nel tempo, nelle immagini catturate da letture altre, oltre che di un lavoro tenace e potenzialmente infinito – appaiono lo scenario perfetto per meditare, innanzitutto, sul senso del tradurre, sulle sue valenze e modalità, sulle sue più recondite motivazioni. Sono generose e profonde le riflessioni dell’Autore, che condivide con i suoi ideali interlocutori la sostanza di un’esperienza tutta interiore e variamente stratificata: «tradurre significa cercare, anzi inseguire senza mai raggiungere, come un Achille – nella migliore delle ipotesi – che rincorra Achille, le parole degli altri per centinaia, per migliaia di pagine». Tradurre è però anche cercare, quindi dare, continuamente, delle risposte; è un’ecfrasi, la descrizione di un’essenza e di una forma. Ma, soprattutto, «la traduzione di un testo è la memoria che abbiamo di esso». Nel saggio di Bocchiola è centrale il motivo della memoria, connotata da un’amplissima accezione: è la memoria personale, quella del traduttore, ma anche collettiva e culturale, come espressione di un sapere linguistico e tematico trasversale a generazioni diverse e a opere insospettabilmente simili nonostante la loro apparente lontananza in termini di generi di appartenenza e di stili narrativi. Il lettore viene così invitato a compiere a ritroso il percorso, complesso, lungo e soprattutto tanto digressivo quanto appassionante, perché guidato da un’omnicomprensiva intertestualità, di una particolare lirica del poeta scozzese Mick Imlah, London Scottish: i versi del testo originale rinviano al mondo del rugby e alle sue cronache, nel contempo alla prima guerra mondiale, e a immagini e a metafore belliche dell’antica Grecia conservate nella memoria del traduttore; ma anche alla poesia Goal di Saba, oltre che a Eliot, Montale, Leopardi, e infine alle parole in dialetto pavese, la Ursprache del traduttore Bocchiola, trasmesse dal nonno Carlo, combattente della Grande Guerra, narratore di storie e fonte inestimabile di quell’«oralità di guerra» altrimenti irrecuperabile. Un percorso condotto con quella pacata lentezza che, sola, consente al traduttore che si racconta di soffermarsi sul dettaglio del rimando improvviso e folgorante per farne argomento di meditazione, liberando dalle silenziose profondità della sua coscienza traduttiva i ragionamenti che hanno condotto a delle scelte temporaneamente definitive e affidando alla pagina un discorso in origine destinato a una dimensione esclusivamente interiore.

Tradurre è dunque «costruire selettivamente nella memoria il ricordo del testo più semplice e meno falso», è attingere ai compositi sedimenti della memoria del traduttore che trasferisce al suo testo, emanazione e riflesso dell’originale, un sapere linguistico eternamente offerto alla duttilità e alla contaminazione, così facendo dono alla memoria della cultura, patrimonio eterogeneo e universale, di un’immanente e naturale facoltà rigenerativa. E il traduttore diviene, allora e più che mai, autore visibile e voce sonora.