La recensione / 3 – Il ruolo delle traduzioni nel mercato editoriale

di Damiano Latella

A proposito di «Tirature ’16», a cura di Vittorio Spinazzola, Milano, il Saggiatore / Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2016

Chi parla di traduzione in modo pragmatico è sempre il benvenuto. Proprio per questo, consigliamo la lettura di questo «Tirature ’16», l’annuario sulla produzione editoriale disponibile gratuitamente on line (http://www.fondazionemondadori.it/cms/culturaeditoriale/799/tirature-16-un-mondo-da-tradurre). Quando si parla di industria culturale, come da anni fa egregiamente «Tirature», spesso ci si sofferma solo sugli autori, in particolare quelli che vendono di più, trascurando il ruolo che i traduttori svolgono nella circolazione dei libri in tutto il mondo.

Nell’introduzione, Vittorio Spinazzola ricorda uno degli aspetti decisivi per un discorso pragmatico: la professionalizzazione della figura del traduttore. La decisione di tradurre costituisce la prima reazione di ogni mercato editoriale nazionale quando si confronta con la novità, con l’alterità culturale rappresentata da un testo straniero. Se è pur vero che il netto predominio della lingua inglese ha condotto a un livellamento del gusto dei lettori, almeno per quanto riguarda la narrativa di intrattenimento, accanto ai successi internazionali di massa coesistono altri modi di scrivere e altre lingue meno legati all’immediata utilità commerciale.

Nei loro contributi, Laura Cangemi, Roberta Scarabelli, Giovanni Peresson e Andreina Speciale hanno raccolto alcuni dati di partenza per un ragionamento complessivo sulla professione. Da un lato, l’amplissima offerta formativa sviluppatasi negli ultimi anni ha prodotto schiere di aspiranti traduttori che non trovano riscontro in un mercato caratterizzato dal calo lento ma costante del numero di opere tradotte in italiano (meno del 20% del totale). Dall’altro, sono ben pochi – volendo seguire la statistica del CEATL (Conseil européen des associations des traducteurs) – i traduttori “puri”, vale a dire coloro che guadagnano con la professione almeno il 75% del loro reddito. Il compenso minimo lordo, calcolato dalla fondazione Pro Helvetia, ammonterebbe in media a 16 euro a cartella, mentre il compenso pagato dagli editori italiani si situa tra i 12 e 14 euro. È facile, quindi, giungere alla conclusione che i nostri traduttori non sono ancora retribuiti equamente ed è difficile che possano permettersi di vivere di sola traduzione. Sul fronte dei rapporti con l’estero, il calo dei libri tradotti è controbilanciato dall’aumento dei titoli italiani (in particolare per bambini e ragazzi) di cui si vendono i diritti in altri paesi, più che raddoppiati in una decina d’anni. Persistono, tuttavia, molte differenze tra grandi e piccoli editori.

Alla luce dei dati, a nostro avviso, meriterebbero un approfondimento le cause del ritrovato slancio verso l’esportazione, vista e considerata la storica chiusura dei mercati di lingua inglese, fermi all’ormai famigerato 3% proveniente da altre lingue. Ci auguriamo che corrispondano a un effettivo risveglio dell’interesse per la cultura italiana nel mondo e non solo, più prosaicamente, a una migliore promozione e a un modo per tamponare le perdite dovute al perdurare della crisi economica.

L’articolo di Sara Sullam ci conduce in un ipotetico giro del mondo in libreria, in cui salta all’occhio che alcuni paesi si sono specializzati in un sottogenere romanzesco preciso e riconoscibile, scritto in una lingua priva di asperità adatta all’esportazione, nonché alle vette delle classifiche. È il caso, ad esempio, dei romanzi neo-Victorian per l’Inghilterra, delle storie d’amore romantiche ambientate a Parigi, sebbene non nate dalla penna di autori francesi, o dei gialli per la Scandinavia. L’immaginario che emerge da questo tipo di narrativa non esita a ricorrere a molti stereotipi già noti al pubblico, riproposti anche nell’era della globalizzazione, come ben sappiamo noi italiani (sarebbe interessante ampliare il discorso, esaminando l’accoglienza riservata ai libri italiani negli altri paesi europei). Curiosamente, questo modo di procedere non trova riscontro per nazioni anche di grande tradizione letteraria, come la Russia.

E in Italia, appunto, come accogliamo la narrativa straniera? Sono riconoscibili ancora oggi strategie di mediazione come in passato? Il discorso è senza dubbio complesso e non si può esaurire in poche righe, ma non siamo d’accordo con alcuni giudizi espressi nell’intervento di Paolo Giovannetti. Si può notare nell’italiano dei traduttori qualche tratto più strettamente conservativo, ma la definizione «forma pedante e smorta» suona davvero ingenerosa. Proprio per i motivi pragmatici menzionati all’inizio (compensi, ma anche revisioni e soprattutto tempi di consegna), difficilmente i traduttori trovano il tempo di esercitarsi in formulazioni pedanti. Semmai è più facile incorrere nella sciatteria, nella scarsa cura formale o in semplici cadute di tono a cui un buon revisore porrebbe rimedio senza difficoltà. Al contrario, condividiamo l’appello di Giovannetti a far nascere dalle traduzioni una narrativa italiana più coraggiosa.

Alessandro Terreni approfondisce un uso molto particolare del «testo a fronte». Di solito è un’espressione che evoca edizioni di autori classici ben radicati nel canone oppure raccolte di poesie, antiche o moderne. In entrambi i casi, si suppone che siano opere rivolte a un pubblico dotato di strumenti di comprensione più fini. Nell’insegnamento dell’italiano come seconda lingua, invece, si trovano rari esempi di uso del testo a fronte. Fanno eccezione due progetti editoriali molto interessanti e poco noti che valorizzano la dimensione interculturale. Le collane «I mappamondi» di Sinnos e «Storiesconfinate» di Carthusia propongono testi narrativi per bambini e ragazzi, non per forza di origine straniera, in varie lingue, comprese quelle senza grandissima tradizione letteraria, come il tagalog o il cingalese. Pur con le comprensibili difficoltà per tenere vivi questi tipi di scambi (bene ha fatto Terreni a documentarsi sui prestiti bibliotecari), sono progetti che offrono strade percorribili per giungere a un’integrazione socioculturale più profonda.

Un testo può essere sottoposto a varie trasformazioni, diverse da quelle impresse dalla mano del traduttore. Paolo Costa, Giacomo Papi e Tina Porcelli affrontano rispettivamente tre tipi diversi di trasformazione: la traduzione automatica, la riscrittura, l’adattamento cinematografico.

Finora non ci risulta che gli strumenti informatici abbiano fornito risultati soddisfacenti quando si cimentano con un testo letterario. Il problema è spesso dato dall’incapacità di riconoscere il contesto, senza differenze tra figure retoriche della poesia o della lingua colloquiale. I traduttori tecnici, invece, sfruttano sempre di più strumenti di traduzione assistita, eppure l’intervento umano resta indispensabile (ci domandiamo: per quanto tempo ancora?). Cambiando settore, negli ultimi anni le riscritture di vario genere, dalle fanfiction ai sequel derivati da altri libri, sono tornate alla ribalta. Nulla si crea e nulla si distrugge in letteratura, tuttavia la domanda più interessante che emerge dall’articolo di Papi riguarda l’influsso delle nuove tecnologie sulle tecniche narrative. Le riscritture di questo tipo circolano a una velocità impressionante, si arricchiscono di commenti e di modifiche della community dei lettori in un processo potenzialmente infinito e destinato a non concludersi. È ancora troppo presto per valutare l’impatto di queste novità, ma senza dubbio si tratta di un campo da seguire con attenzione in futuro. Infine, la storia del cinema è costellata di adattamenti da opere letterarie più o meno importanti (anzi, più ci si avvicina al capolavoro, più il compito del regista e degli sceneggiatori diventa arduo). Ai giorni nostri spesso gli editori si affrettano ad apporre una bella fascetta che richiama il film in uscita, anche quando la qualità lascia a desiderare. Nonostante il rapporto tra le due arti sia antico e consolidato, i critici cinematografici di oggi non sempre danno conto del testo precedente, e siamo d’accordo con Porcelli nel rammaricarci del mancato raffronto di approcci diversi allo stesso tema.

Insomma, il mondo da tradurre che emerge dalla pluralità di voci di «Tirature» suscita molti interrogativi e si rivela vasto, complesso e multiforme. Oggi si parla molto, se non moltissimo, di traduzione, ma non sempre in modo adeguato. L’importante è non limitarsi a considerarla un semplice anello della catena editoriale, o ancor peggio coinvolgere il traduttore solo come mero supporto alla promozione di un’opera, ma essere coscienti del suo ruolo fondamentale di mediazione tra culture.