«È bello, è divino, per l’uomo onorato morir per la patria»

TIRTEO A USO E CONSUMO DELL’IDEOLOGIA TRA OTTO E NOVECENTO

di Enrico Cerroni

I lirici greci prima di Quasimodo: un canone diverso dal nostro

Goffredo Mameli nel ritratto di Gerolamo Induno

Goffredo Mameli nel ritratto di Gerolamo Induno

Quando si pensa alla lirica greca arcaica, spesso le prime impressioni che vengono alla mente sono quelle suscitate nel tempo delle letture liceali dai versi malinconici di Mimnermo, dalla convivialità politica di Alceo o dal ribellismo di Archiloco. I più dotti e filelleni ricordano la simbiosi tra antico e moderno ricercata dalle traduzioni e dalle riscritture modernizzanti tentate da molti poeti del Novecento, come Salvatore Quasimodo o Odisseas Elitis, che traduce in greco moderno e completa frammenti mutili di Saffo.

Di là da una cerchia ristretta (Alceo, Saffo, Archiloco, Mimnermo), tuttavia, dei nove poeti lirici del canone alessandrino alcuni hanno progressivamente ridotto la loro presenza nell’immaginario moderno e contemporaneo.

Un intero ambito, come la tradizione dell’elegia parenetica, caratterizzata da una forte urgenza esortativa in contesto bellico, oggi non gode più dell’apprezzamento che le hanno tributato epoche non troppo lontane. Valga l’esempio di Solone, uno dei venerabili sette saggi della Grecia arcaica, che a inizio Novecento riceveva ancora le simpatie di Giovanni Pascoli, autore di un poema conviviale Solon. Tuttavia, nonostante la poliedricità del personaggio, maestro di morale ed equilibratore dei conflitti politici nell’Atene di inizio VI sec. a.C., anche per lui la partita con Saffo, in termini di quantità di traduzioni e edizioni moderne, è persa in partenza.

All’interno dello stesso genere dell’elegia arcaica, una sorpresa ci è riservata invece da un altro poeta, che pure ha perduto, almeno negli ultimi settant’anni, il notevole fascino esercitato nel passato.

Mi riferisco a Tirteo, poeta del VII sec. a.C. che con i suoi canti militari aveva fatto la fortuna militare di Sparta nel corso della seconda guerra messenica e del quale invece si lascia scoprire una gran fortuna nell’Ottocento. Una fortuna che si protrasse, sia pur con progressivo illanguidimento, fino agli anni Trenta del secolo scorso.

Oltre alla prevedibile Saffo, insieme a Pindaro la più tradotta (con una trentina di edizioni solo tra il 1800 e il 1890), l’Ottocento risorgimentale, militarista e patriottico leggeva Tirteo, infatti, ben più appassionatamente di Mimnermo (che invece il Novecento avrebbe eletto tra gli autori preferiti) e più dello stesso Archiloco, la cui fama negativa era iniziata, del resto, già nel mondo antico.

L’elegia più celebre del poeta è senza dubbio il frammento 10 West, la cui unità è sostenuta dallo stesso Martin West, mentre «altri critici (tra cui Wilamowitz, Diehl e Prato) la ritengono il frutto dell’accorpamento di due elegie indipendenti (vv. 1-14, 15-32), ciascuna con una composizione ad anello in sé conchiusa. Segno di tal accorpamento sarebbe il brusco passaggio dal ‘noi’ al ‘voi’ al v.15» (Di Noi 2015, 15).

Eccone il testo originale:

τεθνάμεναι γὰρ καλὸν ἐνὶ προμάχοισι πεσόντα
ἄνδρ᾽ ἀγαθὸν περὶ ᾗ πατρίδι μαρνάμενον·
τὴν δ᾽ αὐτοῦ προλιπόντα πόλιν καὶ πίονας ἀγροὺς
πτωχεύειν πάντων ἔστ᾽ ἀνιηρότατον,
πλαζόμενον σὺν μητρὶ φίλῃ καὶ πατρὶ γέροντι                     5
παισί τε σὺν μικροῖς κουριδίῃ τ᾽ ἀλόχωι.
ἐχθρὸς μὲν γὰρ τοῖσι μετέσσεται οὕς κεν ἵκηται,
χρησμοσύνῃ τ᾽ εἴκων καὶ στυγερῇ πενίηι,
αἰσχύνει τε γένος, κατὰ δ᾽ ἀγλαὸν εἶδος ἐλέγχει,
πᾶσα δ᾽ ἀτιμίη καὶ κακότης ἕπεται.                                      10
†εἰθ᾽ οὕτως ἀνδρὸς τοι ἀλωμένου ούδεμί᾽ ὤρη
γίνεται οὔτ᾽ αἰδὼς οὔτ᾽ ὀπίσω γένεος,

θυμῶι γῆς περὶ τῆσδε μαχώμεθα καὶ περὶ παίδων
θνήσκωμεν ψυχέων μηκέτι φειδόμενοι.
ὦ νέοι, ἀλλὰ μάχεσθε παρ᾽ ἀλλήλοισι μένοντες,                 15
μηδὲ φυγῆς αἰσχρῆς ἄρχετε μηδὲ φόβου,
ἀλλὰ μέγαν ποιεῖσθε καὶ ἄλκιμον ἐν φρεσὶ θυμόν,
μηδὲ φιλοψυχεῖτ᾽ ἀνδράσι μαρνάμενοι·
τοὺς δὲ παλαιοτέρους, ὧν οὐκέτι γούνατ᾽ ἐλαφρά,
μὴ καταλείποντες φεύγετε, τοὺς γεραιούς.                         20
αἰσχρὸν γὰρ δὴ τοῦτο, μετὰ προμάχοισι πεσόντα
κεῖσθαι πρόσθε νέων ἄνδρα παλαιότερον,
ἤδη λευκὸν ἔχοντα κάρη πολιόν τε γένειον,
θυμὸν ἀποπνείοντ᾽ ἄλκιμον ἐν κονίηι,
αἱματόεντ᾽ αἰδοῖα φίλαις ἐν χερσὶν ἔχοντα ‒                       25
αἰσχρὰτά γ᾽ ὀφθαλμοῖς καὶ νεμεσητὸν ἰδεῖν ‒

καὶχρόα γυμνωθέντα: νέοισι δὲ  πάντ᾽ ἐπέοικεν,
ὄφρ᾽ ἐρατῆς ἥβης ἀγλαὸν ἄνθος ἔχηι,
ἀνδράσι μὲν θηητὸς ἰδεῖν, ἐρατὸς δὲ γυναιξίν,
ζωὸς ἐών, καλὸς δ᾽ ἐν προμάχοισι πεσών.                           30
ἀλλά τις εὖ διαβὰς μενέτω ποσὶν ἀμφοτέροισι
στηριχθεὶς ἐπὶ γῆς, χεῖλος ὀδοῦσι δακών.

Di questa poesia Filippo Maria Pontani ((1913-1983) ha reso la traduzione più consona per gli orecchi dei nostri contemporanei, condotta con fedeltà al testo greco. Essa è suddivisa in due distinti componimenti, secondo la tesi di Wilamowitz e Prato, che Pontani segnala con titoli ad hoc:

Dulce et decorum

Giacere morto è bello, quando un prode lotta
per la sua patria e cade in prima fila.
Abbandonare la città, le sue ricche campagne,
e mendicare, vagando con la madre diletta,
il padre vecchio, i bimbi, la cara sposa,                                         5
è la cosa più turpe.
Dovunque giunga l’esule sarà come un nemico,
vittima del bisogno e dell’odiosa
miseria. E insozza la sua stirpe, guasta la figura,
ogni infamia lo segue, ogni viltà.                                                    10
Se per chi va così ramingo non c’è cura,
non c’è rispetto o riguardo o pietà,
combattiamo coraggiosi per la patria, e per i figli
moriamo. E non risparmiamo la vita.

I vecchi e i giovani

Via, combattete gli uni accanto agli altri, giovani,                     15
non datevi alla fuga, al panico,
fatevi grande e vigoroso l’animo nel petto,
bandite il meschino amore della vita,
perché la lotta è con uomini; non lasciate,
fuggendo, chi non ha più l’agilità: gli anziani.                            20
È uno scandalo che un vecchio cada in prima fila
e resti sul terreno innanzi ai giovani,
con quel suo capo bianco e il mento grigio, e spiri
l’animo suo gagliardo nella polvere,
con le mani coprendo il ventre insanguinato                              25
(spettacolo indecente, abominevole),
e le carni nude: nulla c’è che non s’addica
a un giovine finché la cara età brilla nel fiore.
Da vivo, tutti gli uomini l’ammirano, le donne
l’amano, cade in prima fila: è bello.                                              30
Resista ognuno ben piantato sulle gambe al suolo,
mordendosi le labbra con i denti (Pontani 1969, 18-19)

Il mito di Sparta durante la Rivoluzione francese

La fortuna moderna di Tirteo, in realtà, era partita qualche decennio prima, già alla fine del Settecento in Francia. La Rivoluzione aveva celebrato, accanto al mito della Repubblica romana, anche il perfetto ordine spartano; e l’Italia avrebbe seguito il fervore filospartano d’Oltralpe con relativa rapidità.

È del 1791 la pubblicazione della versione dei canti militari di Tirteo di Onofrio Gargiulli (1748-1815), massone, professore di lingua greca prima a Chieti, poi a Napoli, autore di versi anche in italiano (tra l’altro un poema dedicato a Caterina di Russia). Al Gargiulli faceva seguito Andrea Rubbi (1738-1817), gesuita veneziano (a riprova che certe passioni erano, come dire?, bipartisan), autore di un volume della collana «Parnaso de’ poeti classici d’ogni nazione» contenente anche versioni piuttosto libere di Tirteo, data alle stampe nell’anno 1795.

Nelle condizioni modificate dell’età napoleonica si situa un’altra traduzione, quella di Luigi Lamberti (1759-1813), pubblicata a Parigi per Treutel nel 1801 sotto il titolo Cantici militari di Tirteo. Lamberti, che avrebbe occupato di lì a poco il posto di bibliotecario di Brera a Milano e riscosso grandi favori dal nuovo regime, cercava di presentare il poeta spartano a un pubblico desideroso di exempla eroici, in un periodo già abituato al trionfo di rituali imperiali. Lo stile rimaneva patinato, condizionato dall’esperienza neoclassica, come dimostra il seguente estratto, traduzione del noto frammento 10 W. sulla bellezza del morire in guerra.

Bello è all’uom prode il cader morto in guerra,
fra le ordinanze prime, con l’ardita
destra pugnando per la patria terra;

ma, più ch’altra giammai, dogliosa vita,
è l’andar mendicando all’altrui porte,                                            5
lasciati i campi e la cittade avita;

e l’ir ramingo insiem con la consorte
giovinetta, e la madre, e la bambina
prole, e col padre omai vicino a morte;

poiché l’uom bisognoso, cui trascina                                          10
la rea necessità, grave diviene
a quelli, a cui chieggiendo e’ s’avvicina.

Ei sua stirpe incivilisce, ei le serene
sembianze infosca, e d’ogni obbrobrio al fondo
trabocca, e ogni malor dietro gli tiene                                           15

né, di lui ch’è mendico e vagabondo,
trovar si puote chi pensier gli pigli,
né lo tien caro o in riverenza il mondo.

Dunque pugniam per questo suol, pe’ figli
moriam volonterosi, e la sicura                                                      20
alma esponiamo agli ultimi perigli.

Di pugnar ben serrati abbiate cura,
garzoni, né ad altrui farvi di vile
fuga esempio vogliate, o di paura;

ma avvalorando in sen l’alma virile,                                               25
nullo amor della vita il cor vi prema,
mentre il braccio opponete al ferro ostile;

né lassar, vinti da importuna tema,
vogliate addietro i pugnator men biondi,

a cui la lena del ginocchio è scema.                                                 30

Troppo sconvien, che giaccian moribondi
prima i più antichi nella prima schiera,
e che i freschi guerrier caggian secondi;

troppo sconvien, che l’uomo, a cui la nera
barba e il crin s’imbiancò, deggia, col viso                                   35
fra la polve, esalar l’alma guerriera.

E col manto incomposto, e brutto e intriso
tutto del sangue suo, scopo si faccia,
per turpe nuditate, a scherno e a riso.

Ma il garzon, a chi i membri orna, e la faccia                               40
di giovinezza il fior, fa sempre mostra
bella e vaga di sé, comunque ei giaccia.

Agli uomin caro, amabil si dimostra
alle donzelle, insin ch’è vivo e baldo,
bello anco estinto in bellicosa giostra.                                           45

Dunque ognun di valor e d’ira caldo,
si tegna, ben disgiunti i piè possenti,
in sul fido terren, fondato e saldo,

mordendo il labbro inferior co’ denti.

Il Lamberti credeva di fare versione fedele rendendo il distico greco con la terzina italiana, il che gli permise di inserire aggiunte accessorie (un esempio, «con l’ardita destra» ai vv. 2-3), numerose dittologie («mendico e vagabondo», al v. 16, «scherno e riso» al v. 37, «bella e vaga» al v. 42, «vivo e baldo» al v. 44, «di valor e d’ira caldo» al v. 46, «fondato e saldo» al v. 48), talora epifrastiche («di vile fuga, o di paura» ai vv. 23-24, con sequenza trimembre «incomposto, e brutto e intriso» al v. 39) e frequenti inarcature. Il suo Tirteo era un poeta antico declinato in chiave neoclassica, più vicino a Monti che alla Sparta del VII sec. a.C. Un esempio per tutti: la scena cruda dell’anziano che copre con le mani i genitali lordati di sangue (vv. 25-26 dell’originale, vv. 37-39 della traduzione) veniva sacrificata sull’altare del decoro e resa con la dittologia «scherno e riso». Questa nota di pruderie sarebbe rimasta anche nelle traduzioni successive (per esempio quella dell’Arcangeli), per essere rimossa a favore di una resa fedele solo dal Cavallotti (1878, che, come vedremo, avrebbe reso αἰματόεντʼαἰδοῖα con «vergogne cruente», al v. 32).

La versione di Lamberti rimase tra le più apprezzate nei primi decenni dell’Ottocento: basti ricordare l’elogio di di Ennio Quirino Visconti (Federici 1828, 40) e le riedizioni: a Parigi nel 1805, Brescia nel 1808, Milano nel 1822.

A ridosso del Congresso di Vienna vedevano la luce altre due traduzioni, una, anonima, nel 1816, per i tipi dell’editore Favale di Torino (Canti guerrieri di Tirteo volgarizzati; l’incipit del canto quarto suonava: «È gloriosa morte / per la patria morire in prima schiera»). La seconda traduzione, a cura dell’abate Francesco Venini (1737-1820), che uscì a Milano nel 1818, e quindi a Restaurazione consolidata, non conteneva invece il celebre elogio del morire in guerra.

Un antico poeta greco al servizio del Risorgimento italiano

Ci sarebbe voluto il Risorgimento, per fare di Tirteo un poeta utile alla lotta per l’indipendenza e per declinare davvero i suoi versi sul terreno dell’impegno militare.

Molto importante in questo senso fu l’edizione del sacerdote Giuseppe Arcangeli(1807-1855), una voce del cattolicesimo liberale: il suo Tirteo, pubblicato nel 1838 a Prato nel Saggio di versioni poetiche dal greco e altri versi, molto poco fedele al testo greco (si tratta quasi di un testo riscritto), ebbe ampia risonanza, probabilmente ben al di là del valore reale della traduzione. Arcangeli, figura rappresentativa della cultura toscana di metà Ottocento, cattolica di ispirazione giobertiana, univa allo studio del mondo classico, spesso in funzione scolastica, un coscienzioso impegno politico, nell’alveo del moderatismo liberale. L’interesse per Tirteo, come per i tanti altri autori greci tradotti, aveva iniziato a palesarsi sui vent’anni, nell’ambito degli studi al seminario di Pistoia (1829-1830), ma la pubblicazione è di vari anni successiva.

Riporto le strofe celebri dello stesso frammento 10 W. citato per il Lamberti:

È bello, è divino per l’uomo onorato
morir per la patria, morir da soldato
col ferro nel pugno, coll’ira nel cuor.
Tal morte pel forte non è già sventura:
sventura è la vita dovuta a paura,                                                   5
dovuta all’eterno de’ figli rossor.

Chi son quei meschini che vanno solinghi,
sparuti per fame, cenciosi, raminghi,
ch’in volto han dipinto l’obbrobrio e il dolor?
Se il chiedi ai vicini così ti diranno:                                              10
quei vili raminghi più patria non hanno;
fuggiron dal campo; l’infamia è con lor.

Mirate quei padri, quei vecchi cadenti,
le squallide spose co’ figli morenti,
mirate miseria ch’è senza pietà.                                                    15
Non alzan que’ i volti dannati allo scherno:
il ciel della patria non miri in eterno
chi un cor per amarla nel petto non ha.

Ah! Dunque di fuga pensier non v’alletti,
non sieda paura ne’ liberi petti;                                                   20
ma v’arda cocente di guerra il desir.
Pugniam per la patria, pugniamo pe’ figli,
l’amor della vita viltà non consigli;
se il vincere è bello, pur bello è il morir.

Che infamia se i vecchi lasciando sul campo,                            25
i vecchi che speme non hanno di scampo,
la vita codarda correte a salvar!
Ma spose, ma figli quei vecchi non hanno?
(Gli stessi nemici fremendo diranno:)
perché quei meschini non vanno a scampar?                             30

Bruttata di sangue la barba, le chiome
riversano al suolo que’ vecchi, siccome
figliuoli del fango, dannati a morir.
Orrendo a vedersi! Di sangue grondante
ciascuno morendo con labbro tremante                                       35
s’ascolta all’ignavia de’ suoi maledir.

Non piombi sul capo cotanta vergogna!
Non s’oda dai padri sì dura rampogna!
Si mora più tosto, ma salvo l’onor.
La lode de’ forti si chiuda nell’urna;                                             40
le Greche donzelle nell’ora notturna
la spargan pietose di pianto, e di fior.

Felice Cavallotti, qualche decennio dopo, avrebbe detto della traduzione dell’Arcangeli che questi aveva trovato in Tirteo «dei materiali per cavarne delle odi liriche adatte a’ suoi tempi: e ha battezzate le proprie strofe col nome dell’ateniese. Ecco tutto. Indole lirica all’Arcangeli certo non mancava» (Cavallotti 1878, 23). Il giudizio del Cavallotti coglie tuttora nel segno: la libertà presa rispetto all’originale fu tale che l’Arcangeli non si peritò a inserire intere aggiunte, per es. già la fine della prima strofe, che arricchisce l’immagine della morte del coraggioso e dipinge la condizione opposta della vita conservata per paura (vv. 3-6) «col ferro nel pugno, coll’ira nel cuor. / Tal morte pel forte non è già sventura: / Sventura è la vita dovuta a paura, / Dovuta all’eterno de’ figli rossor». L’artificio dialogico che segue nella seconda strofe (vv. 7-11), con l’interrogazione sull’identità degli esuli sconfitti e la risposta dei vicini, sia pur molto efficace, è del tutto assente dall’originale: un testo parenetico di età arcaica come quello di Tirteo rimaneva su di un livello descrittivo più oggettivo e impersonale. L’impronta di stigmatizzazione verso i vili scampati alla guerra per viltà è molto più marcata nella traduzione dell’Arcangeli: se Tirteo si esprimeva solo con congiuntivi esortativi in prima persona plurale e imperativi in seconda, per esortare alla lotta, il traduttore ottocentesco caricava di gravità morale la scena con l’intervento di voci estranee, come quelle dei nemici (vv. 29-30), ben al di fuori dell’orizzonte lirico, non drammatico.

Il Tirteo di Arcangeli era un testo piuttosto familiare con gli istituti poetici del Romanticismo italiano (a partire dall’organizzazione in sestine, con due dodecasillabi in rima baciata e quattro in rima incrociata), decisamente vicino a Berchet («Tirteo italico», al quale l’autore dedicò la sesta edizione della traduzione) e a Manzoni. Inoltre, la chiusa foscoliana, con il richiamo alla lode dei «forti» chiusa nell’«urna» e l’immagine delle fanciulle greche, «pietose», raccolte in ora notturna sulla tomba degli eroi, obliterava l’esortazione a rimanere piantati in terra mordendosi le labbra coi denti. (Da questo punto di vista, se c’è qualcosa di cui dolersi, nella storia della ricezione della lirica tirtaica, probabilmente è che essa non sia mai stata tradotta da Foscolo).

La versione di Arcangeli godette di un’ampia circolazione, anche a causa del prestigio acquisito dall’autore, divenuto nel frattempo vicesegretario dell’Accademia della Crusca: dal 1838 al 1849 si contano ben sei edizioni, sia pure in sedi disparate. Nel 1847 l’inno primo su riportato (così era chiamato all’epoca) fu persino messo in musica e cantato alle feste nazionali in Arezzo (Arcangeli 1857, 240). Lo stesso anno vide la luce una raccolta miscellanea dal titolo Quattro canti militari dell’antica Grecia fatti per ogni Età per ogni Nazione. Autori Tirteo e Callino (con dedica alla Guardia Civica Italiana e una vibrante prefazione patriottica), a cura di un altro classicista romantico, l’anconetano Severiano Fogacci (1803-1885). Reduce da un esilio a Corfù, dove aveva avuto un ruolo nell’organizzazione della spedizione dei fratelli Bandiera del 1844, Fogacci ripubblicava il Tirteo di Arcangeli nel mezzo del biennio delle riforme di Pio IX, che tante speranze suscitava nei patrioti italiani.

In effetti, il fervore tirtaico del decennio 1830-40 non è casuale. Il 6 luglio 1849 l’Italia assisteva impotente al fallimento dell’esperienza sognante della Repubblica Romana, a difesa della quale morì uno dei tanti Tirtei moderni del Risorgimento, quel Goffredo Mameli autore del Canto degli Italiani, divenuto nostro inno nazionale. D’altra parte, i mesi di lotta appassionante di Mazzini e Garibaldi, eroi risorgimentali per antonomasia, trovarono presto celebrazione in una ricca produzione letteraria. Ormai dopo l’Unità lo scrittore livornese Francesco Domenico Guerrazzi, che aveva avuto un ruolo da protagonista nella rivoluzione toscana del 1848-49, dedicò all’eroico momento di indipendenza romana un’opera dal titolo Lo assedio di Roma. Vi riecheggiava due volte il nome di Tirteo, a proposito della celebre, poi disattesa, allocuzione di papa Pio IX del 30 marzo 1848 («le magnifiche parole da digradarne Tirteo») e, soprattutto, in riferimento al giovane Mameli:

E tu Mameli Tirteo, e Köerner [sic] italiano in questo combattimento riportasti la ferita, che inciprignendo ti tolse all’ammirazione della gioventù italica, allo amore delle Muse, e al culto della Libertà: la nemica palla ti colse sul terzo superiore della tibia vicino all’articolazione del ginocchio sinistro né parve grave sicché ti forniva argomento di motteggio: ora sei scomparso, e le notti di Genova proviamo più buie perché uno dei suoi astri è tramontato per sempre; l’altro tengono lontano da te l’ira dei tiranni, e la viltà del popolo (Guerrazzi 1870, 776-7).

È verosimile che il battagliero e democratico Guerrazzi avesse letto Tirteo nella traduzione di Arcangeli. In ambito dotto un altro documento della diffusione del suo Tirteo cattolico-risorgimentale è nei lavori dell’erudito calabrese Pietro Ardito (1833-1889), sacerdote di idee liberali, sospeso a divinis per il carattere progressista di certe sue posizioni. In un suo saggio, recentemente ripubblicato a cura di Raffaele Gaetano per Rubbettino, Ardito (1872) accostava i versi della Pentecoste di Manzoni all’inno primo di guerra di Tirteo, citato proprio nella versione di Arcangeli.

Nel frattempo il fervore suscitato dalla seconda guerra d’indipendenza si accordava a un generale moto patriottico che spiega pubblicazioni come La lira di Tirteo. Canzoniere politico, raccolta di poesie ispirate alla contemporaneità che un poco noto Luigi Stocchi, cosentino, dava alle stampe sul finire del 1861.

Il Tirteo del secondo Ottocento

Fatta l’Italia, nei decenni postunitari che scontavano la delusione per gli ideali mancati delle battaglie risorgimentali, il canto di Tirteo poteva rischiare di perdere la sua attualità. Non fu così, almeno a guardare il gran numero di pubblicazioni che ripresentavano il suo mito. Difficile raccoglierle tutte, ma basterà citarne alcune: nel 1871 Sante Bentini pubblicava a Faenza presso l’editore Conti I canti militari di Tirteo. Lo scudo di Ercole di Esiodo Ascreo; l’anno successivo il bellunese Lodovico Dal Ferro i Canti di guerra di Callino e Tirteo. Una rassegna dell’epoca è nel volume Tirteo nelle versioni italiane di Arnaldo Monti (Torino 1911).

Il successo è riconducibile a una molteplicità di motivi, fra cui la protratta celebrazione del mito risorgimentale (peraltro ancora non del tutto realizzato), destinata a durare fino al 1918, ma anche il riuso scolastico delle elegie, proprio all’indomani della riforma Casati che aveva introdotto lo studio del greco nel liceo. Da guida morale dell’esercito spartano contro i Messeni, il poeta si ritrovò così a servire da sprone al valore militare e al sacrificio per i giovani del neonato Regno d’Italia. In tal senso vanno letti il libro Elegie di Tirteo illustrate ad uso delle scuole, a cura di Massimo Dagna, pubblicato a Torino per i tipi di G. Baglione nel 1875, o, nel 1908, il lavoro di Valerio Milio, Le elegie ed i frammenti commentati per le scuole, pubblicato a Messina da Trimarchi. Tirteo era persino diventato il titolo di un canto corale composto nel 1887 ad uso degli alunni dei collegi militari secondo il programma ministeriale del 1885, dal cremonese Giuseppe Marcarini (1832-1905).

Di là degli orizzonti della scuola, uno fra i più acuti interpreti della nuova temperie culturale e politica fu con buona probabilità Felice Cavallotti (1842-1898), spirito combattivo di politico e figura poliedrica di intellettuale, autore di una nuova traduzione nel 1878.

Oggi certo per l’Italia non volgono giorni di battaglie e di eserciti, né si domanda il Tirteo che susciti combattendo le schiere colla sacra fiamma del canto. E tu dormi sui colli di Roma, o Mameli! Eppure qual campo vasto di altre lotte feconde! Quante belle e sante battaglie del pensiero! (Cavallotti 1878, 19-20).

Quello di Cavallotti era un Tirteo appassionante, finalmente non travisato o abbellito, piuttosto ricondotto a una dimensione eticamente improntata e a una forma che cercava di contenere le forti urgenze espressive, del poeta e del traduttore stesso (Trezza 1881, 173-179). Ecco come rende il celebre frammento dedicato alla morte in guerra:

Bello al forte, fra i primi caduto,
per la patria pugnando morire!
Non v’ha lutto ch’uguagli il soffrire
di chi il lare nativo lasciò,
e i bei campi, col padre canuto                                                     5
seco errante e la madre amorosa,
e i piccini e la giovane sposa,
mendicando per terre vagò.

A qual parte abbia i passi rivolto,
giunge infesto ovunque egli arriva:                                            10
ogni gente spregiando lo schiva
poi che il caccia la vil povertà.
La fierezza deturpa del volto
macchia il nome ed il sangue de’ sui;
sta ogni infamia, ogni lutto su lui,                                                 15
grazia alcuna per l’esul non v’ha!

Or se nulla speranza gli resta,
se l’onor più non rendongli i fati,
su, gagliardi pe’ figli, per questa
terra, l’alme pugnando a gittar!                                                    20
Su, garzoni! l’un l’altro serrati,
la vil fuga spregiando e ‘l timore,
fatto ai rischi imperterrito il core,
su a forti coi forti a lottar!

Vil chi indietro, fuggendo, lo stanco                                          25
vecchio lascia che tragge il piè tardo!
Turpe – ai giovani innanzi! – un vegliardo
là tra i primi riverso mirar:
e del mento e del crine già bianco

l’alma forte rendendo alla rena,                                                   30
delle man’ – fera vista ed oscena! –
le vergogne cruente celar!

Ma del giovin fra l’armi giacente
tutto spira superba bellezza,
sin che il volto l’april gli accarezza,                                               35
sin che ha il fior de l’amabile età.
Lui degli uomini orgoglio, vivente,
lui desio de le donne leggiadre:

morto in campo, dinanzi alle squadre,
bello ancora la morte lo fa.                                                           40

Con la scelta dell’ottava di decasillabi, la forma metrica di Marzo 1821 e della Battaglia di Maclodio del Manzoni, l’autore reintroduceva, anche in traduzioni da poeti classici, versi tradizionali della lirica italiana in anni che vedevano, su impulso del Carducci, il fiorire della metrica barbara. Una chiara passione politica e civile innerva un testo cantilenante, trapuntato da anafore («su» ai vv. 19, 21, 24, «sin che» ai versi 35-36, «lui» ai versi 37-38), che sa mantenersi fedele all’originale, pur con i rimaneggiamenti suggeriti dall’indole passionale del «bollentissimo» traduttore (così lo definiva Gabriele D’Annunzio). L’ultima strofe, per esempio, si presta a un abbellimento cesellato sul motivo della bellezza dell’eroe: il poeta greco non descriveva le carezze dell’aprile sul volto del giovane (v. 35), limitandosi all’immagine del fiore della giovinezza splendente all’eroe (v. 28 dell’originale), così come non poteva certo in una poesia parenetica bellica parlare di «donne leggiadre» (v. 38). Ancora: la virtù di essere ammirato dagli uomini (θηητός al v.29), descritta in un quadro in cui un forte ruolo giocava la componente visiva (vv. 21-32), diventa un più enfatico «orgoglio degli uomini». Non mancano scelte più ricercate, tolte da un repertorio più latino che greco, come la resa di πόλιν e πίονας ἀγρούς con «lare nativo» (v. 4).

Mentre il Tirteo di Cavallotti iniziava a far discutere (e godeva di nuove edizioni), in disparte da eccessivi clamori il mondo accademico aveva celebrato l’accurata traduzione del filologo livornese Antonio Lami del 1874, finalizzata alla partecipazione a un concorso alla cattedra di lettere greche dell’Università di Pisa. Il Lami, che dedicava l’opera «ai Cretesi che dal 1866 al 1868 valorosamente combatterono», corredava il testo del poeta che aveva cantato la gloria di Sparta, assunta a modello di ogni sentimento patriottico, di una «versione in prosa latina e italiana e metrica poliglotta (cioè: latina, italiana, francese, inglese, tedesca, olandese)». Sull’edizione gravava una forte tara accademica, non stemperata dai sentimenti filelleni dell’autore simpaticamente rivolti ai greci di Creta in rivolta contro l’impero ottomano (ma la conferenza di Parigi del 1869 aveva sancito la permanenza dell’isola sotto il dominio turco; cfr. Svoronos 1974, 75). Seguiva poi, a chiudere il secolo, il siciliano Vittorio Taccone (1898), seguito dal filologo Cesare Giarratano, che nel 1905 a Napoli presentava una memoria dedicata a Tirteo e i suoi carmi presso la Reale Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti.

La filologia classica e la Grande Guerra

La temperie politica stava cambiando. Le ambizioni nazionalistiche dettarono, con la guerra di Libia, i Canti di guerra e di attualità delsacerdote e classicista Leopoldo Taruschio (1912). Nell’Italia giolittiana il nome più illustre fra i traduttori resta, però, quello di Giuseppe Fraccaroli (1849-1918), professore di letteratura greca all’Università di Torino dal 1895 al 1906 ed esponente di quella filologia positivistica costretta a misurarsi con le coeve istanze irrazionalistiche: suo è il discusso saggio Lirrazionale nella letteratura (Torino, Bocca, 1903). Fraccaroli fu autore di una nuova versione nell’ambito di un volume dedicato al giambo e all’elegia arcaica pubblicato nel 1910. Il suo primo esperimento sui versi di Tirteo risaliva in realtà al 1889, anno in cui ne aveva tradotto i principali frammenti come strenna nuziale per il matrimonio Zamboni-Liorsi: la buona società dell’Italia fin de siècle adorava scambiarsi traduzioni di lirici greci in occasione di fidanzamenti e matrimoni.

L’incipitdel fr. 10 West (l’ottavo nella raccolta di Fraccaroli) tradotto suonava così:

Bello è morire all’uomo valoroso di mezzo alle prime
File cadendo, mentre pugnasi per la patria.
Ma chi la città propria, ma chi lascia i suoi fertili campi
Per mendicare, è doglia questa su tutte acerrima,
Con la diletta madre vagabondo, col padre canuto,
Coi suoi piccoli figli, con la sua sposa tenera,
poi ch’egli inviso a tutti sarà, ovunque egli vada, alla dura
Necessità cedendo e all’odïosa inopia;
Macchierà la famiglia, farà torto al suo nobile aspetto,
Sarà colpito d’ogni miseria e d’ogni infamia.

Nonostante la dichiarata intenzione di svecchiare le rese ottocentesche e di ritornare a fare una critica letteraria più coraggiosa, rimaneva una irriducibile componente aulica. Non ci sorprende che i lirici greci di Fraccaroli fossero accolti da una dura recensione di Renato Serra, che riconosceva i meriti dell’autore, ma con una certa sufficienza: «si vede che quest’uomo ingegnoso per natura e acuto, non senza qualche frutto ha speso la sua vita in mezzo ai classici» (Serra 1958, 486). In uno scritto critico di estrema acutezza dal titolo Intorno al modo di leggere i Greci lo scrittore romagnolo dissentiva dall’eterna e ingenua rivalutazione dell’antico operata dai moderni («io fastidisco e rifiuto in lui qualche cosa di più in generale, la Grecia dei lettori moderni»), ai quali moderni si rivolgeva l’operazione, sia pur onesta e accuratissima, di Fraccaroli. Probabilmente le ragioni di Serra erano valide e le sue osservazioni lessicali (per es. la critica all’impiego di «vocaboli eletti in mezzo al greggio comunale», oppure di arcaismi come esizio) sembrano annunciare quelle che avrebbe fatto poi Quasimodo, demolitore di quello stesso linguaggio classicheggiante in voga nelle traduzioni. C’è da dire che il giudizio di Serra era severo, ma non ingeneroso.

Il Fraccaroli è una di quelle brave persone che seguono il movimento del loro tempo, secondano l’andare del branco, senza confondersi con esso, anzi distinguendosi; ma la distinzione è affatto contingente, nasce da una indipendenza di giudizio e di buon senso e di critica, che opera acutamente sui particolari e tuttavia non sa sollevarsi più in alto (Serra 1958, 488-489).

Purtroppo la voce di Serra restò isolata in un contesto avviato, di lì a breve, alla celebrazione della guerra e della morte eroica. Nella profluvie di pubblicazioni a carattere parenetico degli anni 1914-1918 si segnala un piccolo opuscolo, a cura del sacerdote Raffaele Baratti (1867-1951), che per la tipografia di Romeo Pecorini di Guastalla pubblicò una nuova versione dal titolo I Canti di Tirteo nuovamente tradotti. Era il marzo del 1916, l’Italia in guerra ancora non aveva sperimentato le difficoltà sopraggiunte a partire da maggio per l’avvio della Strafexpedition dell’esercito austriaco.

In esergo al libro era la dedica: «ai nostri soldati in terra in mare e in aria combattenti per la grandezza della patria e per la libertà dei popoli risuoni cara quest’eco languida della gagliarda voce di Tirteo non incitamento ma plauso e premio a un valore che rinnova le più gloriose gesta degli eroi».

Il Baratti rappresenta l’esempio tipico dell’alto livello di partecipazione emotiva e culturale indotto dall’avvio della Grande Guerra negli intellettuali, scrittori e insegnanti dell’epoca (e come è noto, i filologi classici non furono da meno). Nella prefazione al libro egli indicava chiaramente al lettore l’istanza patriottica del libricino:

tali elegie io presento al pubblico novamente tradotte in versi italiani, convinto che nessun’altra voce antica meriti maggiormente d’essere riudita ora, che le prime Nazioni d’Europa, strette insieme a difesa della loro libertà e del diritto di tutti i popoli, eroicamente combattono la guerra più grande che il mondo abbia mai vista (Baratti 1916, 7)

Riporto la sua versione del frammento 10 W., da lui intitolata È bello morir per la Patria:

È bello nella mischia – cader fra i primi, al forte
pugnante per la patria – bello è incontrar la morte;

ma nessun duolo agguaglia – quel di chi deve, in bando
da la città e dal fertile – suo campo, ir mendicando.

Errante andar col vecchio – padre e la madre cara                         5
e la pia sposa e i teneri – figli è pur sorte amara!

Ché inviso a tutti vivere – gli tocca ovunque giunge,
mentre l’odiosa inopia – ed il bisogno il punge.

Macchia sua stirpe, il nobile – vòlto deturpa e oscura,
lo segue l’ignominia, – l’opprime ogni sventura.                          10

Se dunque chi va profugo – dal patrio suol cacciato,
non ha grazia fra gli uomini – e passa inonorato,

suvvia, pugniamo intrepidi – per questa terra avita,
né per i figli dolgaci – abbandonar la vita.

Stretti l’un l’altro, o giovani, – fermi de’ pié lottate,                     15
e principio ad ignobile – fuga o a terror non date;

ma generoso l’animo – nutrendo e invitto il core,
non abbiate in battaglia – troppo a la vita amore.

E i vecchi, di cui agili – le membra più non sono,
fuggendo voi, non restino – i vecchi in abbandono.                     20

Qual indegno spettacolo – è un vegliardo vedere
pugnante innanzi ai giovani – infra i primier cadere,

coi capelli già candidi – e il mento biancheggiante,
riverso nella polvere, – la forte alma spirante!

Con le mani premendosi – il ventre sanguinoso,                            25
ignudo corpo squallido, spettacol odïoso!

Invece tutto al giovane – s’addice, insin che il fiore
di giovinezza adornalo – del vago suo splendore:

vivo, è ammirando agli uomini – e da le donne amato;
bello, se nella mischia – fra i primi è al suol prostrato.                 30

Baratti, che ricercò volutamente la rima baciata, per ragioni metriche nella resa del primo distico si distanziò dalle precedenti versioni, distinguendo il momento del cadere da quello del morire. Il contegno del filologo, inoltre, lo portava ancora a sterilizzare l’immagine scabrosa delle vergogne insanguinate del vecchio, rese con «ventre sanguinoso» (v. 25), ma si giustificava: «Il testo ha aimatoent’aidoia, rappresentando le orribili nudità del vecchio ferito con un verismo raccapricciante. Io ho creduto di poter rendere la stessa idea, senza tener conto qui, come qualche volta altrove, della più scrupolosa fedeltà letterale» (Baratti 1916, 28). Insomma, neanche l’esperienza drammatica della guerra era sufficiente a rendere accettabile il realismo del testo greco.

D’altra parte, la letteratura stava prendendo altre strade. In quegli stessi anni, ispirata a Orazio (che conosceva il testo di Tirteo) e al suo verso celebre dulce et decorum est pro patria mori (Carm. III, 2, 13) è la nota poesia Dulce et decorum est del poeta inglese Wilfred Owen. Scritta nel 1917, in piena guerra, essa esprimeva invece l’intento dissacrante di demolire il mito della bella morte sul campo di battaglia (definito the old Lie, l’anticaMenzogna). Owen morì sul fronte francese a venticinque anni per le ferite riportate in battaglia uno degli ultimi giorni di guerra. Uno dei lasciti della prima guerra mondiale fu proprio nella scoperta di una linea pacifista, che direi anti-tirtaica, che però esula dagli intenti del presente articolo.

Dal primo dopoguerra ai lirici greci di Quasimodo

La fortuna di Tirteo non si era esaurita però nella retorica bellicistica delle “radiose giornate”. Dopo la guerra venne il momento, anch’esso epico e lirico per antica tradizione, della celebrazione dei caduti.

Un argomento di ricerca interessante, in parte ancora inesplorato, è costituito proprio dalla scelta dei testi celebrativi per i monumenti ai caduti di quel conflitto. Il comune di Peschici, per esempio, probabilmente per il ruolo di qualche professore locale, scelse di onorare i propri morti con il distico iniziale della traduzione ottocentesca di Arcangeli. La lapide è ancora oggi visibile nella Casa comunale del paese: altra prova della circolazione e della consacrazione del Tirteo di Arcangeli, anche di là dai confini temporali della retorica risorgimentale (e del Risorgimento la Grande Guerra era, del resto, nell’ottica di molti, la conclusione).

Quando nel 1935 uscì la traduzione di Ettore Romagnoli (1871-1938), allora già divenuto Accademico d’Italia, il clima era ormai decisamente mutato ed era ormai segnato dalla propaganda fascista. Con Romagnoli, in genere molto più apprezzato per le traduzioni dei giambografi e di Aristofane, la ricerca di uno stile piano, assertivo, ricco di enfasi, condusse a un Tirteo decisamente vicino al lettore degli anni trenta. Ecco il noto frammento sulla bellezza della morte in guerra, suddiviso in due distinti brani recanti ciascuno un titolo:

La sorte dei vinti
Sì, che morire è bello, cadendo fra i primi in battaglia,
per l’uomo prode, quando la patria sua difende.
Ma la città lasciare, lasciare gli opimi poderi,
e andar pitocco, è male più di ogni altro esecrando,
e con la madre vagar fuggiasco, col padre vegliardo,               5
coi piccoletti figli, con la fedele sposa.
Poiché male gradito riesce a chiunque s’accosti,
l’uom dal bisogno oppresso, dall’esosa miseria,
svergogna la sua stirpe, deturpa il decoro dell’uomo,
ed ogni obbrobrio ed ogni malanno lo persegue.                     10
Se dunque l’uom che va randagio pel mondo, non trova
riguardo né rispetto né commiserazione,
per questa terra, pei figli con tutto l’ardor si combatta,
si muoia, della vita non si faccia risparmio.

I giovani alla battaglia
Giovani, su, combattete, piantandovi l’un presso l’altro,      15
né il segno alcuno dia del terror, della fuga;
ma grande il cuore in petto rendete, ma tutto valore,
né troppo, nella pugna, cara vi sia la vita.
No, non fuggite, lasciando sul campo i guerrieri più annosi,
i vecchi che non hanno salde più le ginocchia:                         20
ché turpe cosa è che giaccia, caduto fra i primi in battaglia,
dinanzi ai giovinetti, un uom già grave d’anni,
che bianche ha già le chiome, canuta sul mento la barba,
e che l’animo prode nella polvere esali,
coprendo con le mani le sanguinolenti vergogne,                 25
turpe vista, ed oggetto di sdegno a chi lo mira,
e con le membra ignude. Ma tutto nel giovine è bello,
se in esso ride il fiore dell’amabile età.
È bello a contemplare per gli uomini, è caro alle donne,
quand’egli è vivo, è bello quando fra i primi cadde.                30

Fedele al greco, sia nella resa del contenuto, sia nella corrispondenza tra versi italiani e originali greci, il tanto criticato Romagnoli (per esempio, e comprensibilmente, da Cesare Pavese) correggeva un’imprecisione lessicale delle versioni precedenti: κουριδίῃ τʼἀλόχῳ al v. 6 era perlopiù inteso nell’Ottocento come «consorte giovinetta» (Lamberti), «sposa giovane» (Cavallotti), laddove il significato è piuttosto di «sposa legittima», cui allude Romagnoli con «fedele». Secondo Condello (2009, 57) l’aggettivo «giovane» sarebbe un esempio tipico di una «ipertraduzione» da parte di «traduttori-poeti». Già Baratti nel 1916, in realtà, aveva reso con «pia sposa», esagerandone tuttavia la portata in una incongrua dimensione religiosa.

Romagnoli proponeva una mimesi dell’oralità attraverso scelte topologiche non ardite (rari gli iperbati e le inarcature) e il frequente uso di connettivi oppositivi («né», «ma»), funzionale al gioco delle antitesi dell’elegia tirtaica. Alla resa dell’enfasi cospirava la predilezione per le ripetizioni (la copula «è»negli ultimi due versi) e lo schema giustappositivo, che lega enunciati per asindeti, quasi a pausare i concetti, anche a costo di non riprodurre le congiunzioni del greco (per es. ai vv. 5-6 l’elencazione protratta dei congiunti dell’esule). Anche in ambito lessicale cura principale era la coloritura espressiva: il «padre canuto» di Cavallotti diventa il «padre vegliardo» di Romagnoli (al v. 5), il πτωχεύειν dellʼesule (v. 4) è efficacemente reso con «andar pitocco». Rari erano gli arcaismi, come l’aggettivo «opimi» riferito a «poderi» al v. 3.

Il Tirteo di Romagnoli era il frutto avanzato di una stagione ormai al tramonto, quella che Quasimodo nel 1940 avrebbe definitivamente congedato tracciandone un quadro forse impietoso, ma non privo di una sua verità. In Chiarimento e note alla traduzione egli definiva il linguaggio delle traduzioni precedenti «aromatico», in virtù di alcuni aspetti inconfondibili di affettata arcaicità (basti pensare a certi termini, come opimo, pampineo, rigoglio, fulgido, florido). Il progresso poetico delle traduzioni di Quasimodo fu senz’altro enorme, grazie a una forma che l’esperienza ermetica rendeva vicina alla nostra sensibilità novecentesca. Quello che, però, con lui andò perduto (e solo la critica degli ultimi anni ha cercato faticosamente di recuperare) fu non solo l’acribia filologica delle generazioni precedenti, ma anche la specificità storica degli antichi greci, come ha insegnato il compianto Luigi Enrico Rossi (1995).

Ciò non toglie che sia un motivo di rammarico il fatto che Quasimodo non abbia voluto misurarsi con i versi di Tirteo. Probabilmente la sua scelta era però consapevole. Di là dal fatto che la sua selezione lirica si limitava alla melica monodica e corale (pur con varie deroghe), in effetti il 1940 in Italia e in Europa risuonava già a sufficienza di marce militari.

Dopo la seconda guerra mondiale la ricezione dell’antico cantore della bella morte avrebbe percorso strade decisamente diverse e, almeno in Italia, le letture attualizzanti tipiche del secolo decimonono si sarebbero rivelate ormai del tutto anacronistiche. Ma questa è un’altra pagina di quel capitolo, così complicato, affascinante e imprevedibile, che è la storia della ricezione.

Riferimenti bibliografici

Traduzioni

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– 1857: Giuseppe Arcangeli, Poesie e prose, vol. I, Poesie, Firenze, Barbèra

Baratti 1916: Raffaele Baratti, I Canti di Tirteo nuovamente tradotti, Guastalla, Pecorini

Bentini 1871: I canti militari di Tirteo. Lo scudo di Ercole di Esiodo Ascreo recati in versi italiani da Sante Bentini,Faenza, Pietro Conti

Canti guerrieri 1816: Canti guerrieri di Tirteo volgarizzati, Torino, Favale

Cavallotti 1878: Felice Cavallotti, Canti e frammenti di Tirteo. Versione letterale e poetica, con testo e note, preceduta da un’ode a Giosuè Carducci, Milano, Rechiedei-Brigola Battisti

Dagna 1875: Massimo Dagna, Elegie di Tirteo illustrate ad uso delle scuole, Torino, G. Baglione

Dal Ferro 1872: Lodovico Dal Ferro, Canti di guerra di Callino e Tirteo, s.l., s.n.

Fogacci 1847: Severiano Fogacci, Quattro canti militari dell’antica Grecia fatti per ogni Età per ogni Nazione. Autori Tirteo e Callino, Ancona, Sartori e Cherubini (introvabile nelle biblioteche, lo si può leggere online: https://it.wikisource.org/wiki/Quattro_canti_militari_dell%27antica_Grecia)

Fraccaroli 1910: Giuseppe Fraccaroli, I lirici greci (elegia e giambo), Torino, Bocca

Gargiulli 1791: Ta Tyrtaioy polemisteria mele. I canti militari di Tirteo. Tradotti in versi italiani da Onofrio Gargiulli regio professore di lingua greca, Napoli, presso Vincenzo Orsino, MDCCLXCI [i. e. 1791]

Giarratano 1905: Cesare Giarratano, Tirteo e i suoi carmi. Memoria letta alla Reale Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Art,i in «Rendiconti della Reale Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti», vol. 24, Napoli, Stamperia della Regia Università, pp. 108-130

Lamberti 1801: Luigi Lamberti, Tyrtaioy Asmata.I Cantici di Tirteo tradotti ed illustrati, Parigi e Argentina, Treuttel e Würtz

– 1808: Luigi Lamberti, Poesie di greci scrittori recate in versi italiani, Brescia, per Nicolò Bettoni

Lami 1874: Antonio Lami, Tirteo, I canti di guerra e i frammenti, in Livorno, coi tipi di Francesco Vigo

Milio 1908: Valerio Milio, Le elegie ed I frammenti. Commentati per le scuole, Messina, Trimarchi

Pontani 1969: Filippo Maria Pontani, I lirici greci, Torino, Einaudi (una nuova edizione, a cura di Simone Beta, è uscita da Fabbri nel 2015)

Romagnoli 1935: Ettore Romagnoli, I poeti lirici, vol. IV: Tirteo – Solone – Le canzoni attiche, Bologna, Zanichelli

Rubbi 1795: Andrea Rubbi, Teocrito, Mosco, Bione, Anacreonte, Saffo, Tirteo, Venezia, presso Antonio Zatta e figli

Stocchi 1861: Luigi Stocchi, La lira di Tirteo. Canzoniere politico, s.l., s.n., 1861

Taccone 1898: Vittorio Taccone, Elegie. Traduzione in versi italiani, Acireale, Tip. dell’Etna

Taruschio 1912: Leopoldo Taruschio, Canti di guerra e di attualità, Macerata, Giorgetti

Venini 1818: Francesco Venini, Saggi della poesia lirica antica e moderna, Milano, G. Silvestri

Altri riferimenti

Ardito 1872: Pietro Ardito, Artista e critico. Corso di studi letterari, Venezia, Grimaldi (ora in una nuova edizione critica a cura di Raffaele Gaetano, Soveria Mannelli, Rubbettino 2004)

Cerroni 2015: Enrico Cerroni, Appendice: i lirici greci nelle traduzioni italiane prima di Quasimodo in Lirici greci, a cura di Chiara Di Noi, Roma, Salerno editrice

Condello 2009: Federico Condello, Tradurre la lirica, in Hermeneuein. Tradurre il greco, a cura di C. Neri e R. Tosi, Bologna, Pàtron

Di Noi 2015: Lirici greci, a cura di Chiara Di Noi, Roma, Salerno editrice

Federici 1828: Fortunato Federici, Degli scrittori greci e delle italiane versioni delle loro opere, Padova, Minerva

Guerrazzi 1870: Francesco Domenico Guerrazzi, Lo assedio di Roma, Milano, Dante Alighieri (I edizione 1864)

Monti 1911: Arnaldo Monti, Tirteo nelle versioni italiane, Torino, Bona

Quasimodo 1940: Salvatore Quasimodo, Lirici greci, Milano, Corrente

Rossi 1995: Luigi Enrico Rossi, Letteratura greca, Firenze, Le Monnier (con successive riedizioni)

Serra 1958: Intorno al modo di leggere i Greci, in Scritti di Renato Serra, a cura di Giuseppe De Robertis e Alfredo Grilli, Firenze, Le Monnier, pp. 467-498 (I edizione 1938)

Svoronos 1974: Nicolas Svoronos, Storia della Grecia moderna, Roma, Editori Riuniti (traduzione di Ugo Bartesaghi da Nicolas Svoronos, Histoire de la Grèce moderne, Presses Universitaires de France, 1953)

Trezza 1881: Gaetano Trezza, Nuovi studi critici, Verona-Padova, Drucker & Tedeschi

West 19922: Martin West, Iambi et Elegi Graeci ante Alexandrum cantati, vol. II: Callinus, Mimnermus, Semonides, Solon, Tyrtaeus, Minora Adespota, Oxford, Clarendon (I edizione 1972).