Reminiscenze e borbottii / 6

Il vecchio lettore

Uno degli aspetti più platealmente volgari del gran parlare mediatico di traduzioni è l’inconsapevolezza critica delle distinzioni che vi vengono praticate. Sì, perché salta all’occhio che ai poeti traduttori di poeti e ai grandi traduttori o ritraduttori di classici antichi e moderni vengono riservati (per solito al servizio pubblicitario delle grandi case editrici) attenzione e spazio molto superiori che ai normali professionisti delle versioni della letteratura corrente, dei quali viene a mala pena menzionato il nome, onore minimo che invece viene completamente negato agli autori delle ben più impegnative traduzioni di saggi. Che ci siano delle belle differenze tra questi tre ordini del trasporre da una cultura all’altra (e anche all’interno di ciascuno di essi) è proprio vero, tanto che qualsiasi teoria assoluta e asseverativa della traduzione finisce sempre inevitabilmente per non cogliere tutte le distinzioni che occorrono. Ma quali sono queste differenze e come vadano valutate è cosa ignota, a stare alla gerarchia che viene osservata.

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Tra i meriti da ascrivere alla moda del discorrere di traduzioni va annoverata la recensione che l’insigne (ma demodé?) italianista Alberto Asor Rosa ha dedicato alla nuova traduzione einaudiana di Claudia Zonghetti di Anna Karenina su «la Repubblica» del 1° febbraio 2017. Asor Rosa compie pressoché in apertura la semplice ma salutare operazione di: 1. confessare di non avere nessuna competenza per confrontare la nuova traduzione con quella “storica” di Leone Ginzburg, uscita postuma nel 1945 (non 1946), e da lui letta pochi anni dopo («mi risulta che nel merito ferva una polemica»); 2. indicare le caratteristiche di ciascuna che risultano a lui lettore («più fluida, scorrevole, avvolgente, quella di Ginzburg; più concisa ed essenziale e decisamente più modernizzante, quella di Zonghetti»); 3. (ed è il punto più interessante) «osservare […] che le due traduzioni presentano due libri profondamente diversi fra loro».

A questo punto non è sufficiente rendersi conto del variare della lingua italiana nell’arco dei settant’anni trascorsi fra una traduzione e l’altra, come coscienziosamente fa Asor Rosa, il quale aggiunge anche, a ragione, la considerazione del cambiamento intervenuto nel lettore invecchiato e reso più consapevole. Occorrerebbe un passo in più: ma allora, il libro che ho letto, sia la prima che la seconda volta, è proprio Anna Karenina di Leone Tolstoi? O non è forse l’Anna Karenina di Leone Ginzburg (probabilmente 1939-42 o -43) il primo e quello di Claudia Zonghetti (2014-2016?) il secondo, sia pure entrambi seguendo dappresso il testo tolstoiano? Asor Rosa non compie questo passo, ma preferisce, come facciamo tutti, credere di consolarsi: siamo «di fronte al mondo misterioso e affascinante della traduzione, il quale, non solo, bontà sua, rende possibile la trasmissione di universi letterari che altrimenti resterebbero incomunicabili, ma al tempo stesso li formalizza secondo modi e abitudini che rispondono di volta in volta a bisogni e consuetudini diversi» (corsivo di chi scrive qui). Sarà anche «un mondo misterioso e affascinante», la traduzione, ma questa “formalizzazione” sa tanto di stravolgimento dei valori estetici e culturali autentici del testo originario. Se i critici, come in una certa misura ha cominciato qui a fare Asor Rosa, se ne rendessero sempre conto quando recensiscono un testo tradotto, sarebbe già un piccolo passo avanti.

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Come sono dure a morire certe cattive abitudini, nonostante tutto il parlare che si fa di traduzione. La gloriosa rivista «Passato e presente» ha pubblicato il suo numero 100. Traguardo non sufficiente a etichettarla, come fa orgogliosamente la sobria paginetta anonima intitolata E 100 che apre il fascicolo, «la più longeva rivista italiana di storia contemporanea», ma certo prestigioso. Vi compare, anch’esso anonimo, un bel ricordo, commosso ma equilibrato e sereno, di Claudio Pavone: non solo un grande storico, ma soprattutto uno di quegli intellettuali d’antan animati di spirito civico che hanno interpretato il loro ruolo di studiosi come servizio alla collettività. Non si può fare a meno di lamentare, però, che, anche in quella sede, ai traduttori, soprattutto di saggistica, si continui a negare visibilità, soppiantati nella immagine pubblica dai loro editori (spesso tutt’altro che meritori). Il libro più importante di Pavone, Una guerra civile (Bollati Boringhieri 1991), che costituisce una pietra miliare della storiografia italiana contemporanea, è stato – secondo «Passato e presente» – «tradotto nel 2005 in francese da Seuil e nel 2013 in inglese da Verso». Ristabiliamo noi il giusto: Une guerre civile è opera di Jérôme Grossman; A Civil War l’ha scritto Peter Levy. A riprova della laboriosità del tradurre, entrambi hanno avuto bisogno di assistenza: il primo da Bernard Groz, il secondo da David Broder.

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Meno libri si vendono, più si allontana la grande editoria dal connubio con la grande cultura per dedicarsi alla venerazione del quarter (per i pochi, i felici pochi, rimasti ignari: così si chiama in affari il trimestre, alla fine del quale si devono già rilevare profitti, prontamente registrati in borsa dal corso dei titoli della società per azioni editrice), e più si moltiplicano le scuole, pardon: i master, in editoria. Il vecchio lettore è molto curioso di sapere che cosa vi si insegni. Come si fa un libro – immagina – e come lo si vende. Ma l’italiano? Lo sanno, l’italiano, i redattori interni ed esterni alle case editrici? Ci sono traduttrici e traduttori che, quanto più sono provetti e sperimentati, tanto più lamentano la progressiva scomparsa della figura del revisore dalle redazioni (sia interne che esterne) delle case editrici: figura essenziale. Non c’è traduttore al quale, per quanto bravo, non sfugga una svista, un’immagine non appropriata, una caduta (o, più spesso, una elevazione) di registro, una ripetizione, una dissonanza, un periodo ingessato. Occhi freschi che, con competenza, segnalino questi inconvenienti e suggeriscano rimedi sono benvenuti. E invece si rarefanno. E quei pochi, poi, occorre che, appunto, possiedano competenza. Chi gliela fornisce? La scuola e l’università hanno ormai abdicato a formare: si limitano a impartire nozioni un tanto all’etto. Si può sperare negli autodidatti, che abbiano letto molto, e non traduzioni, ma autori italiani? Mmmh… c’è da dubitarne. Converrebbe che nei master di editoria, così come ormai avviene in quelli per traduttori, si tenessero corsi intensivi di italiano letterario (non – Dio ne scampi! – di scrittura creativa, come si pretende spesso).

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A proposito di scuola e università. Un paradosso dei tempi nostri è che la generazione che cinquant’anni fa si ribellò unanime al nozionismo, sia riuscita in tempo relativamente breve a ridurre la scuola a nozionificio. Ma siamo prossimi alla scuola che delega al web la fornitura di informazioni, riservandosi un ruolo di coordinamento. Questo ruolo richiederebbe nei docenti almeno due qualità: una conoscenza profonda e ampia dei motori di ricerca e degli strumenti enciclopedici on line (a cominciare, ovviamente, da Wikipedia, tanto benemerita quanto da prendere con le molle), in grado di preparare gli allievi a farne un uso critico, soprattutto per quanto riguarda il sovente pessimo italiano delle voci, spesso tradotte – e talvolta col traduttore automatico – da voci straniere; e una forte capacità critica propria sulla materia di competenza, che finora era mediata dall’auctoritas dei compilatori di testi scolastici. Le avranno, i docenti, queste due qualità? E come le acquisiscono?

E ancora: si sente dire che ci sono docenti universitari che (per fortuna!) consigliano agli allievi di leggere di nascosto i testi imprescindibili che per l’eccessivo (secondo i benemeriti riformatori) numero di pagine farebbero schiantare il bilancino dei “crediti” (perfino nell’istruzione e formazione si è riusciti a infilare il lessico bancario). Siamo già in tempi di clandestinità!

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Il vecchio lettore si fa delatore. Denuncia al ceto dirigente del paese che nelle università esistono ancora insegnamenti come la filologia o la glottologia o la filosofia teoretica. E che per di più sono previste delle borse di studio, finanziate con fondi pubblici, per coltivare queste discipline. È così che si spreca il danaro dei contribuenti? A che servono questi studi? Ne sortiscono forse dei produttori e consumatori?

Fa specie che chi plaude all’emigrazione dei giovani cosiddetti “talenti” che vanno a studiare all’estero, così non rompendo più le scatole in Italia, sopporti ancora questo autentico scandalo. Ma può comunque rasserenarsi: con l’attuale appiattimento della formazione e l’abolizione dello studio a favore del puro apprendimento professionale, ben presto i nostri giovani, che oggi spiccano nel grigio panorama internazionale, saranno come tutti gli altri, e difficilmente verranno accolti così entusiasticamente all’estero.

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Gli storici dell’editoria hanno individuato nel Novecento figure di editori-letterati (uno per tutti: Valentino Bompiani) e di letterati-editori (nomi a caso: Franco Antonicelli, Elio Vittorini, Cesare Pavese, Vittorio Sereni). Ma al vecchio lettore piace anche ricordare che nella stessa epoca si facevano editori, per passione umanistica e civile, banchieri e imprenditori e manager industriali: da Raffaele Mattioli (Ricciardi) a Adriano Olivetti (Comunità), da Aldo Garzanti a Giangiacomo Feltrinelli, da Giuseppe Eugenio Luraghi (Meridiana) a Roberto Olivetti (Adelphi), da Giovanni Monti (Longanesi) a Gianfranco Dioguardi (Bibliopolis). Sembrava qualche anno fa che li volesse seguire perfino un rampollo degli Agnelli, ma ha preferito le glorie calcistiche di famiglia, lasciando però spazio all’unico che attualmente il vecchio lettore conosce: Paolo Benini (ADD). Berlusconi? Non scherziamo!

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Il vecchio lettore vanta tra le sue amicizie due insigni traduttrici: Renata Colorni e Franca Cavagnoli. Spera ora di non perdere il loro affetto se, spinto dalla pignoleria, contesta loro le scelte per le quali tutti i media hanno parlato di loro più o meno recenti fatiche: i titoli delle ri-traduzioni di Der Zauberberg di Thomas Mann, nel primo caso, e di A Portrait of the Artist as a Young Man di James Joyce, nel secondo. Colorni difende il suo La montagna magica (Mondadori 2010), contro La montagna incantata, come il romanzo è noto ai lettori delle generazioni precedenti dalle traduzioni di Bice Sorteni Giachetti e di Ervino Pocar, appellandosi al modello del Flauto magico con cui è comunemente nota l’opera di Mozart Die Zauberflöte, intendendo che la montagna, come il flauto, produce e non subisce incantesimo. Il vecchio lettore sommessamente contesta che la tradizione letteraria italiana distingue, quale che sia la loro funzione, oggetti e persone dai luoghi. Se il flauto e il pifferaio sono magici, il castello il bosco il giardino sono sempre incantati.

Cavagnoli giustifica la sua scelta di Un ritratto dell’artista da giovane (Feltrinelli 2016), contro il classico senza articolo Ritratto di Cesare Pavese, facendo presente che i pittori inglesi distinguono: talvolta intitolano i loro quadri Portrait of XY e talvolta A Portrait of XY. Già, ma lei scrive in italiano, e i pittori italiani questa distinzione non la fanno mai: non c’è un solo quadro italiano – e Dio solo sa quanti ritratti hanno fatto i nostri pittori – che abbia per titolo Un ritratto di XY. Probabilmente i pittori italiani lo hanno sempre saputo, che un ritratto è sempre uno dei tanti possibili (come le traduzioni, d’altronde). Anzi, non è raro il caso di più ritratti dello stesso personaggio fatti dallo stesso pittore, e sempre Ritratto sono, non Un ritratto. Conosciamo la replica: Lawrence Venuti. Far sentire la presenza della lingua di partenza, per rispetto alla sua cultura. Fino al punto di forzare e stravolgere quella d’arrivo, la propria? La questione resta aperta. Ma intanto non sarà inutile osservare che la posizione di Venuti rivela la coda di paglia, liberal e – diciamolo pure – paternalistica, del locutore della lingua imperiale e dominante alle prese con lingue periferiche, dominate e in via di ineluttabile estinzione. Ma queste? Nei tempestosi frangenti che stiamo vivendo si avverte minacciosa la rivendicazione delle identità, capace di esiti sanguinosi. Non occorre proprio arrivare a tanto, basta avere il senso di sé. Finché si scrive nella propria lingua – senza necessariamente cadere nel purismo – la si rispetta. Presto o tardi non ci sarà più bisogno di tradurre dall’inglese. Ma finché si traduce, si traduce in italiano. Sta di fatto che al vecchio lettore quel titolo suona male, innaturale e forzato.

Fin qui ci si è appellati alla tradizione linguistica. Ma, certo, c’è sempre una prima volta: fino a vent’anni fa nessuno si sarebbe azzardato a scrivere «implementare» e «così tanto». E il vecchio lettore continua a guardarsene bene.

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Il trapassato remoto, ormai, è proprio così: trapassato remoto.