Alle prese con una Colette mai tradotta

UN ESPERIMENTO «SEMPLICEMENTE» DIDATTICO

di Anna Battaglia

Titolo del corso di Lingua Francese Traduzione (francese–italiano) per il biennio di specializzazione all’Università di Torino è Traduzione e lettura.

Lo scopo è dimostrare l’impossibilità di tradurre – in particolare se si tratta di letteratura – senza una lettura critica del testo che tenga conto delle circostanze della sua composizione, che lo contestualizzi nel suo tempo, all’interno delle altre opere dello stesso autore, nell’insieme cui appartiene, se è un frammento, e che innanzi tutto individui le caratteristiche peculiari della struttura sintattica e lessicale che di quel testo costituiscono l’identità.

A questo proposito Berman (1995, 67-68) parla di una pre-analisi testuale che è già una pre-traduzione effettuata sull’orizzonte della traduzione:

[…] la lecture s’attache à repérer tel type de forme phrastique, tel type signifiant d’enchaînements propositionnels, tels types d’emplois de l’adjectif, de l’adverbe, du temps des verbes, des prépositions, etc. Elle relève, bien sûr, les mots récurrents, les mots clefs. Plus globalement, elle cherche à voir quel rapport lie, dans l’œuvre, l’écriture à la langue, quelles rythmicités portent le texte dans sa totalité.

[…] la lettura si impegna a individuare quella particolare forma frastica, quel particolare modo significante di concatenare le proposizioni, quel particolare uso dell’aggettivo, dell’avverbio, del tempo dei verbi, delle preposizioni, ecc. Individua le parole ricorrenti, le parole chiave. Più in generale cerca di vedere quale rapporto lega, nell’opera, la scrittura alla lingua, quali ritmicità reggono il testo nella sua totalità.

Questo il lavoro responsabile di preparazione e di accompagnamento alla pratica del tradurre che accomuna, immagino, ogni traduttore quali che siano i suoi intenti: editoriali, accademici o critici. È nel destino della loro esperienza che le strade si separano offrendo opportunità dissimili. Tradurre non per professione, non per l’editoria, consente un’economia verbale del tutto diversa da quella imposta a ciò che legittimamente può essere chiamata una traduzione:

Pour qu’on se serve légitimement du mot «traduction» […] dans la rigoureuse acception que lui aura conférée, depuis quelques siècles, une histoire longue et complexe dans un ensemble culturel donné […], il faut que hors de toute paraphrase, explication, explicitation, analyse, etc., la traduction soit quantitativement équivalente à l’original […] (Derrida 1999, 26-27).

Per servirsi legittimamente della parola «traduzione» […] nella rigorosa accezione che le ha conferito una storia di secoli, lunga e complessa, in un insieme culturale dato […], bisogna che di là da ogni parafrasi, spiegazione, esplicitazione, analisi, ecc., la traduzione sia quantitativamente equivalente all’originale.

Lo spazio e la quantità di parole – e il tempo – che l’esercitazione didattica o la tesi di laurea ammettono nei commenti a lato della pratica del tradurre, consentono non solo di spiegare, di esplicitare il contenuto di senso e le forme del testo da tradurre, non solo, come ci dice sempre Derrida (1999, 26), di manifestare «les intentions, le vouloir dire, les dénotations, connotations et surdéterminations sémantiques» (le intenzioni, i “vuol dire”, le denotazioni, connotazioni e surdeterminazioni semantiche), ma anche di cautelarsi, di spiegare i motivi di una scelta invece di un’altra, fugare il dubbio di un presunto errore, giustificare l’anomalia conservata del testo di partenza, mantenere l’esitazione.

Opportunità molto utili, come vedremo, nell’affrontare un testo come quello di Colette che sotto l’apparente semplicità, sotto una presunta naturalezza è fatta di artifici insidiosi, nascosti dalla costruzione della sua sapiente prosa. Parafrasando ancora Derrida (1967: 106), e questa volta “a sproposito”, in un’esperienza didattica non si è costretti a scomparire, ad assentarsi, a ritrarsi abbandonando il libro «privé de l’assistance de son père» (privato dell’assistenza del padre), non si deve dare il passo alla scrittura «pour être l’élément diaphane de sa procession» (per essere l’elemento diafano del suo procedere). Insomma si può indugiare all’infinito sul proprio operato senza l’urgenza di una scelta unica e ineluttabile.

Una Colette mai tradotta

L’opera adottata per l’esercitazione e la valutazione finale del corso era Où sont les enfants?, il primo dei racconti o capitoli che costituiscono La Maison de Claudine (da ora in poi MCl) di Colette, del 1922. La traduzione dell’intera raccolta sarebbe poi diventata in seguito oggetto di una tesi di laurea.

Il nome stesso con cui l’autrice si firma non può passare inosservato: i suoi primi romanzi infatti erano usciti come opere di Willy, il marito: Colette – il cui vero nome è Gabrielle Sidonie Colette – è solo il suo anonimo nègre; a partire da un certo momento sarà la volta di un nome che li contenga entrambi, Colette Willy, e solo nel 1923 con Le blé en herbe, si inaugura la firma Colette. Anche se nome di battesimo femminile, Colette di fatto è il cognome del padre, il suo cognome dunque, che utilizzato da solo perde il valore di patronimico, smette di essere un nome di famiglia e si individualizza per designare solo lei. In questa vicenda del nome si inscrive del resto la sua storia a partire dalla cancellazione dell’identità, e in seguito, con l’emancipazione dal primo marito che l’ha avviata alla scrittura, alla scelta di legare al proprio destino di scrittrice il «nome d’arte» del marito, e di riappropriarsi così del successo della propria opera, fino alla costruzione di un’unicità, di un personaggio senza un vero nome e cognome.

Anche il titolo non è scontato: la MCl non ha nessun personaggio che si chiami Claudine e non ha nulla a che vedere con la serie delle celebri Claudine (pubblicate tra il 1900 e il 1907) che hanno reso famosa la loro autrice. La scelta del titolo potrebbe anche essere il desiderio di Colette stessa di riallacciarsi ad un personaggio del passato e rivelarne apertamente la filiazione in questo momento di svolta della sua vita, o addirittura una trovata pubblicitaria voluta dall’editore. Oggi suona sviante, confonde talmente che quasi nessuno ne conosce la natura singolare rispetto agli altri. Perché di fatto si tratta di racconti, ognuno con un suo titolo (che comparirà qui tra parentesi dopo ogni singolo brano citato, se già non segnalato), narrativamente autonomi, alcuni dei quali già apparsi in periodici nel corso dei due anni precedenti. Come le Claudine, ma non sotto forma di diario, sono scritti quasi tutti alla prima persona, o meglio sono tutti condotti da una voce narrante riconducibile all’autrice, legati tutti al suo passato e per la maggior parte al periodo dell’infanzia. La prossimità dei racconti tra loro, la successione e l’ordine per niente casuali, perché frutto di una scelta sofferta da parte di Colette, producono una ricezione trasversale, concatenata, dove le singole unità si influenzano reciprocamente e determinano una continuità di lettura, componente di grande peso, questo, nella traduzione dell’integralità degli episodi.

Fin dall’inizio della sua carriera Colette non fa che attingere alla propria vita, ma in modi sempre laterali, indiretti, deformando situazioni e persone, inventando, e favorendo anzi, in certi casi, il fenomeno inverso: quello di trasformarsi lei, nella realtà, nel personaggio creato dalla finzione, tanto da dichiararsene ossessionata (Colette I, 1030-33) come da un invadente doppio. La MCl segna una data importante e piena di interrogativi nell’evoluzione del «racconto di vita» di Colette. Una precisazione: uso per semplificare il calco italiano della formula ampia e onnicomprensiva di life writing, o récit de vie, e non mi addentro nel dibattito contemporaneo su autobiografia, autofiction, scrittura dell’io. In questo nuovo modo di concepire il racconto di vita da parte di Colette, i confini tra realtà e finzione non smettono di essere fragili e porosi, i personaggi tuttavia non sono più vaghi riflessi della sua esistenza come accadeva nelle opere precedenti, l’identificazione non lascia più spazio a dubbi e ambiguità, essa è dichiarata attraverso i nomi di persone e luoghi, e attraverso le situazioni evocate. Protagonisti e circostanze appartengono con evidenza a epoche precise della vita sua e della sua famiglia, a partire dalla giovinezza della madre fino all’infanzia della propria figlia che nel 1922, al momento della pubblicazione, ha nove anni: un arco di tempo di circa sessantacinque anni ci viene così raccontato per frammenti attraverso una scrittura autobiografica lontana da ogni codificazione nota. La variabilità della distanza tra il tempo delle cose raccontate e il tempo del racconto, o della scrittura, dà luogo a fenomeni sintattici che sono per il traduttore altrettante interrogazioni, soprattutto, come si vedrà, per la componente aspettuale dei verbi, cioè per il modo in cui un verbo presenta l’azione.

La MCl opera dunque un rovesciamento fondamentale ci dice Kristeva (2002, 184): «Jusque là centré sur l’enfance et le personnage de la jeune fille insolente et libre, clé du succès commercial de l’écrivain, l’imaginaire de Colette se focalise maintenant sur l’incantation d’un lieu: “la maison”» (Fino a quel momento centrato sull’infanzia e sul personaggio della ragazzina insolente e libera, chiave del successo commerciale della scrittrice, l’immaginario di Colette si focalizza ora sull’incanto di un luogo: la «casa»).

Incanto di un luogo e di un corpo, quello della madre. A sorprenderci e conferire all’opera una tonalità del tutto particolare è il fatto che il personaggio della madre, assente fino ad allora dalle pagine di Colette, o evocata di sfuggita in una o due occasioni marginali, entra qui per la prima volta in scena, per dominarla e trasformarsi in un vero e proprio mito. Son dovuti passare dieci anni dalla sua morte prima che ciò accadesse e che si avviasse con questa prima fase la costruzione progressiva di un personaggio nel quale biografia e immaginario si intrecceranno in ruoli complessi: dopo verranno La naissance du jour e Sido. Un fatto non secondario è che nella produzione precedente di Colette le figure materne erano assenti o insignificanti nell’economia delle storie narrate. Claudine per esempio – riflesso evidente della scrittrice – non aveva una madre e non sembrava affatto soffrirne. C’è in realtà la parentesi apparentemente giocosa del personaggio materno de L’Enfant et le sortilège del 1915, musicato da Ravel, ma non ci addentriamo nelle sue complesse implicazioni psicoanalitiche che sono state oggetto di un’analisi fondamentale da parte di Kristeva (2002, 174 e sgg).

Il lavoro della memoria

In che modo Colette ritorna ora alla sua infanzia e ci parla della madre? In che modo ci dice la madre? Attraverso il frammento, l’ellittico, attraverso l’episodio rilevante che fa sentire e vedere concretamente, che non racconta, ma che mostra. È creando o ri-creando l’elemento saliente isolato, talvolta solo allusivo, in grado da solo di ricostruire la proiezione che la narratrice si fa del passato, in grado di evocare forse ciò che quel passato ha fatto del suo presente, è tratteggiando l’episodio che funga da cifra di un momento di vita, anche se «inventato»: non è certo infatti la veridicità del passato che interessa, è la necessità che spinge lo scrivente ad assumere la prima persona del pronome quando si fa scrittura di sé, mettendo in moto meccanismi destinati anche a trascendere l’intenzione.

È evidente – anche ad una prima lettura – quanto per lei sia importante spezzare, disorganizzare il tempo, la cronologialla logica i. Alla «logique illusoire de la biographie» (alla logica allusoria della biografia) si sostituisce un ritmo «dont tout l’effort […] est de soustraire le temps remémoré à la fausse permanence de la biographie» (il cui sforzo è quello di sottrarre il tempo ricordato alla falsa biografia, un ritmo complesso dove «des systèmes d’instants se succèdent, mais aussi se répondent» (sistemi di istanti si succedono, ma anche si rispondono) (Barthes 1978, 463). Illusoria infatti e non consona a lei la ricostruzione logica e cronologica del passato che ricerchi in un’anamnesi i rapporti di causa e effetto, le ragioni e il senso retroattivo degli eventi. In Colette non sembra esserci l’idea oggi diffusa (Strawson 2005) che solo nella narrazione l’individuo possa afferrare la propria esistenza e darle una finalità, un senso anche nella sua progettazione morale: nessuna concezione etica della narrazione sembra animare il suo desiderio di scrittura. Non è, non lo è in modo esplicito, il ricorso alla confessione come espressione di sensi di colpa e come richiesta di assoluzione. Né c’è spazio in lei per il rimpianto, per il pianto, per la nostalgia, né per la psicologia, tutte dinamiche frequenti nella scrittura di sé.

Per vedere come funziona questo lavoro della memoria e come esso condizioni quello del traduttore, ci addentriamo nel testo scelto – il primo capitolo intitolato Où sont les enfants? -, che inizia con la descrizione della casa, interrotta a un certo punto dall’espediente retorico della domanda sull’inadeguatezza delle parole nei confronti del ricordo. La personificazione delle cose inanimate ci porta subito ad una riflessione traduttiva: i verbi usati attribuiscono alle cose intenzione e volontà, le qualità degli oggetti sono qualità solo umane o anche umane. Impossibile non tenerne conto.

La maison était grande, coiffée d’un grenier haut. La pente raide de la rue obligeait les écuries et les remises, les poulaillers, la buanderie, la laiterie, à se blottir en contrebas tout autour d’une cour fermée. […] un noyer dont l’ombre intolérante tuait les fleurs […]. Une forte grille de clôture […] eût dû défendre les deux jardins; mais je n’ai jamais connu cette grille que tordue, arrachée au ciment de son mur, emportée et brandie en l’air par les bras invincibles d’une glycine centenaire… […] une façade […] sans grâce, une maison bourgeoise de vieux village, mais la roide pente de la rue bousculait un peu sa gravité, et son perron boitait […] maison grave, revêche […] maison qui ne souriait que d’un côté. Son revers, invisible au passant, doré par le soleil, portait manteau de glycine et de bignonier mêlés, lourds à l’armature de fer fatiguée […] une vigne d’automne que ruinait son propre poids, cramponnée, au cours de sa chute, à quelque bras de pin.

La casa era grande, e finiva con un alto sottotetto. La ripida pendenza della strada obbligava le scuderie e le rimesse, i pollai, la lavanderia, la latteria, a stringersi più in basso tutt’intorno a un cortile […] un noce che con la sua ombra prepotente uccideva i fiori […]. Una robusta cancellata di cinta […] avrebbe dovuto proteggere i due giardini, ma io l’ho conosciuta sempre solo contorta, divelta dal cemento del muro, trascinata e brandita in aria dalle braccia invincibili di un glicine centenario… […] una facciata […] sgraziata, una casa borghese di vecchio paese, anche se la ripida pendenza della strada bistrattava un po’ quella sua serietà, e la scalinata era zoppa, quattro gradini da una parte, sei dall’altra. Grande casa seria, arcigna […] che sorrideva solo da un lato. Il retro, invisibile al passante, dorato dal sole, indossava un mantello di glicine e bignonia mischiati, pesanti per la stanca armatura di ferro […] una vite d’autunno distrutta dal proprio peso, aggrappata, nella sua caduta, alle braccia del pino.

Un ostacolo si presenta con coiffée, che in questo uso non suona così lontano in francese come lo sarebbe l’italiano acconciata, proposto da molti studenti. La neutralizzazione di finiva con, che ci è sembrato più dinamico dell’alternativa di coperto, può ritenersi compensata a distanza, se si vuole, dalla traduzione di revêche con arcigna (solo umano) rispetto a scostante o rude (umano e oggetto); o ancora antropomorfizzando di più il vegetale nel caso di «quelque bras de pin» reso con «braccia del pino» (solo umano) invece che con «qualche braccio del pino» (umano e oggetto).

Per se blottir la proposta più frequente è stata rannicchiarsi, da escludere perché troppo lezioso nel contesto. Oltre alla proposta di «obbligava […] a stringersi», possibile anche l’alternativa di («costringeva […] a serrarsi»).

Il segmento «un noyer dont l’ombre intolérante tuait les fleurs», dove intolérante avrebbe potuto essere reso anche con «arrogante», ci ha consentito di abbordare il caso del relativo dont, molto efficace nella coesione della frase, ma che ha nell’italiano il pesante corrispondente «cui», da evitare in molte occasioni:

1) un noce che con la sua ombra prepotente uccideva i fiori

2) un noce la cui ombra prepotente uccideva i fiori

Nel caso 2, che opta per il poco eufonico «cui», si mantiene tuttavia «ombre» come soggetto personificato.

Il testo ci offre l’esempio di un’altra questione riguardante il relativo: la differenziazione tra que complemento oggetto e qui soggetto, che consente in francese, senza creare equivoci, una costruzione del tipo: «une vigne d’automne que ruinait son propre poids». Scartata ovviamente l’ambiguità di «una vite d’autunno che distruggeva il proprio peso», si è preferito il passivo alla forma «che il proprio peso distruggeva».

Disloquée può riguardare anche le articolazioni del corpo, ma le alternative alla scelta di «dissestata», come «sconnessa», «sbilenca», ci sono sembrate ancor più riduttive.

Si è deciso invece di mantenere l’insolito uso del verbo conoscere («je n’ai jamais connu cette grille que tordue»), evitando la formula più scorrevole e comunicativa conferita dal verbo vedere («io l’ho solo sempre vista storta»), proposta da molti. Si è pensato di conservare quasi sempre l’uso del singolare, anche quando esso pare inconsueto nella nostra lingua: l’albicocca, la melanzana, il passante… Questo perché è da considerarsi più una peculiarità della scrittrice che una consuetudine della lingua. Sempre con discrezione letterale sono da trattare gli elenchi che lei usa in inciso a scopi diversi, come per esempio – spostandoci oltre nel nostro testo – la lista dei metalli e dei minerali per rappresentare colori e effetti luminosi:

[…] le terrifiant clair de lune – argent, plomb gris, mercure, facettes d’améthystes coupantes, blessants saphirs aigus – qui dépendait de certaine vitre bleue, dans le kiosque au fond du jardin.

[…] il terrificante chiaro di luna — argento, piombo grigio, mercurio, sfaccettature di ametista taglienti, affilati zaffiri appuntiti — che dipendeva da quel vetro blu, nel chiosco in fondo al giardino.

E immediatamente dopo troviamo:

Maison et jardin vivent encore, je le sais, mais qu’importe si la magie les a quittés, si le secret est perdu qui ouvrait – lumière, odeurs, harmonie d’arbres et d’oiseaux, murmure de voix humaines qu’a déjà suspendu la mort – un monde dont j’ai cessé d’être digne?…

Casa e giardino vivono ancora, lo so, ma che importa se la magia li ha abbandonati, se si è perso il segreto che apriva – luce, odori, armonia di alberi e di uccelli, mormorio di voci umane già sospese dalla morte – un mondo di cui ho smesso di essere degna ?…

L’inciso tra antecedente e relativo, tra verbo e complemento oggetto (un ipèrbato) produce un’interruzione di ritmo, e dà rilievo a quanto vi è inscritto all’interno, non consente di tralasciarlo. Ingiusto sarebbe sciogliere la frase in modo più lineare, rendendo per esempio, nel primo caso, con «e che era così per quel vetro blu del chiosco in fondo al giardino» dove la congiunzione nella ripresa della frase, e la punteggiatura, altererebbero i termini della relativa, dando valore di apposizioni, ai segmenti precedenti. Nel secondo caso l’inciso è fondamentale perché contiene in modo ellittico ciò che la memoria sta trasformando in quel momento in scrittura. Per quanto stridente nella sua organizzazione nella lingua d’arrivo, è intoccabile, se non per l’ovvia trasposizione dell’antecedente del relativo («le secret est perdu qui…» che diventa «si è perduto il segreto che…»). Se confrontiamo «apriva […] un mondo» alla soluzione di «apriva […] a un mondo» prospettata in un primo momento per favorire la lettura d’arrivo, notiamo come una semplice preposizione possa cambiare il flusso di ritmo e senso di una frase: quella sola vocale a avrebbe «legato», avrebbe tolto dal suo isolamento quella che forse è l’unica nota esplicita di colpevolezza della raccolta: «di cui ho smesso di essere degna».

Una soluzione prospettata era stata anche quella di eliminare l’ambiguità di «mais qu’importe si la magie les a quittés» con «ma che importa se tanto la magia li ha abbandonati», dove tanto avrebbe orientato la lettura in un senso solo (non importa che esistano ancora, la magia comunque li ha abbandonati), che è senz’altro quello giusto, ma se la biforcazione esiste nell’originale perché toglierla?

Specificità della prosa

Riassumendo Delesalle (2005, 43) dobbiamo ricordare che la specificità della prosa di Colette sta anche nel suo carattere poetico, nel ritmo delle frasi e nella densità ellittica delle immagini e delle espressioni, «souvent à la limite de la grammaticalité». Sono innumerevoli nell’insieme della raccolta le frasi intoccabili, dove forma e senso sembrano inseparabili, come se si avesse a che fare con quell’«unicità fatale» (Parks 2004, 11), che è prerogativa soprattutto del linguaggio poetico.

Preso da un altro episodio della raccolta (Ma mère et les bêtes) ecco un esempio di immagini e accostamenti dove il suono e il ritmo prevalgono sul senso delle parole e più di loro si incaricano di evocare la realtà rappresentata, due cucciolate di gatti in un cesto. In conclusione un vero e proprio verso (in corsivo):

L’oreille penchée, j’écoutais, celui-ci grave, celui-là argentin, le double ronron, mystérieux privilège du félin, rumeur d’usine lointaine, bourdonnement de coléoptère prisonnier, moulin délicat dont le sommeil profond arrête la meule.

Si è deciso di rispettare (quasi totalmente) la lettera:

Le orecchie tese, io ascoltavo, alcune gravi, altre argentine le doppie fusa, misterioso privilegio del felino, rumore di fabbrica lontana, ronzio di coleottero prigioniero, mulino delicato il cui sonno profondo ferma la macina.

Oltre che di musicalità o di ritmo è sovente questione di sintassi. Prendiamo di nuovo il caso di questo breve passaggio del nostro capitolo:

Je n’aiderai personne à contempler ce qui s’attache de splendeur, dans mon souvenir, aux cordons rouges d’une vigne d’automne que ruinait son propre poids, cramponnée, au cours de sa chute, à quelque bras de pin.

Troviamo qui testimoniata la maestria di Colette nell’amplificare e confondere il senso turbando la linearità della frase. Come nel linguaggio poetico, non si avanza seguendo il percorso tracciato dalla successione delle parole, ma ci si ferma attratti dal riflesso che certe parole rimandano per la prossimità con altre, indipendentemente dalla sintassi o dal ruolo per cui sono collocate nella catena verbale. La frase si impone alla lettura con un movimento circolare, ruota intorno a quel s’attache de splendeur che agisce su contempler, su souvenir, sui cordons rouges della vite d’autunno: lo splendore della vite aderisce al ricordo, così come i tralci si aggrappano rossi e luminosi a quanto li circonda. Il ricordo e l’oggetto del ricordo agiscono allo stesso modo e diventano metafora l’uno dell’altro. Le varie combinazioni proposte in un primo tempo avevano in comune la capacità di distruggere questo dinamismo dell’immagine: [ciò che ] «attribuisce splendore, nel mio ricordo», «rimane legato di splendore, nel mio ricordo», «dona splendore, nel mio ricordo», «nel mio ricordo, si attacca con splendore», «nel mio ricordo, si congiunge nel suo splendore», «nei miei ricordi, ricopre di splendore», «dà splendore, nel mio ricordo», «nel mio ricordo rimane legato», «acquista splendore, nei miei ricordi».

La soluzione cui si giunti e che ci è parsa la meno distruttiva è stata:

Non aiuterò nessuno a contemplare lo splendore che si impiglia, nel mio ricordo, ai cordoni rossi di una vite d’autunno distrutta dal proprio peso, aggrappata, nella sua caduta, alle braccia del pino.

Non si è potuto rendere la lettera di «contempler ce qui s’attache de splendeur», ma si è cercato almeno di salvare il legame tra «splendore», «ricordo» e «vite», mettendo «splendore» in evidenza come complemento oggetto e soggetto (della relativa) e anche facendo ricorso al verbo «impigliarsi» che evoca meglio di altri traducenti l’intrico e la complessità sia della vegetazione sia della memoria, assimilandoli fra loro.

La formula «vigne d’automne» parrebbe alludere ad una varietà botanica mentre è sicuramente una precisazione circostanziale, concentrazione unica di visioni ripetute negli anni in occasione dell’autunno per questo motivo abbiamo lasciato anche in italiano «vite d’autunno».

In questa occorrenza sulla contemplazione del ricordo – Colette lo dice in modo esplicito – il ricordo è il luogo in cui si sono depositate le percezioni sensoriali, ed è da lì che si devono estrarre. Altrove dirà: «Tout est encore devant mes yeux, […] tout est sous mes doigts […]. Le vent si je le souhaite, froisse le raide papier du faux bambou et chante […]» (Ma mère et les bêtes). Tutto ciò ci dimostra con quale tipo di referente il traduttore abbia a che fare. Per referente, per mondo della referenza, se fosse il caso di precisarlo, intendiamo la realtà extralinguistica, quella realtà esterna al testo e a cui esso rinvia. Comprendere la realtà rappresentata in un testo significa ri-rappresentarla a se stessi e comunque sempre riformularla nella propria lingua o in un’altra lingua, se si tratta di una traduzione. L’operazione costituisce di per sé un ostacolo perché ciò che attraverso la creazione letteraria è diventato discorso, figura, metafora, è già a sua volta il risultato di una ricezione soggettiva della realtà fenomenica.

[Dans] le paradigme de la sémiotique d’inspiration phénoménologique, la saisie de la forme des phénomènes du monde viendrait du sujet percevant et notamment de son corps (phusis). Ce choc de perception entre les forces prégnantes du monde et l’instance corporelle sera ensuite traité par l’instance judicative (logos) qui transformera la perception en écriture (ou autre type d’expression). Les saillances du monde sont repérées et assimilées par le sujet. La reproduction de cette morphologie captée procède par discursivation, métaphorisation, figurativisation (Nowotna et Moghami 2009, 11) .

(Nel paradigma della semiotica di ispirazione fenomenologica, è il soggetto percettivo che coglie la forma dei fenomeni del mondo e in particolare il suo corpo (physis). Questo choc di percezione tra le forze pregnanti del mondo e l’istanza corporea sarà in seguito trattato dall’istanza giudicatrice (logos) che trasformerà la percezione in scrittura (o altro tipo di espressione). Le sporgenze del mondo sono individuate e assimilate dal soggetto. La riproduzione di questa morfologia captata procede con la discorsivizzazione, la metaforizzazione, la figurativizzazione).

Tempo disorganizzato, organizzare i tempi

La difficoltà di comprensione può essere dovuta inoltre alla distanza cronologica del testo. Nel caso della nostra scrittrice, per esempio, gli eventi risalgono fino alla metà dell’Ottocento e rimandano a un universo che non c’è più e che è per molti versi ignoto a chi lo affronta ora. Se poi pensiamo che si tratta di un racconto di vita, basato su esperienze ricettive personali, e che mette in gioco il tempo dilatandolo o avvicinandolo per tratti salienti, dobbiamo renderci conto che la morfologia della realtà captata è quella ricuperata nel passato dalla memoria e nello stesso tempo ri-formata dal racconto. Il traduttore, ulteriore passaggio di ricezione, si trova così a dover ri-descrivere una realtà già elaborata da una ricezione personale, dalla memoria, dal tempo e dalla scrittura.

Le modificazioni che il tempo subisce a livello dell’esistenza condizionano la sintassi. Il modo in cui Colette fa agire la memoria per ri/costruire il passato è quello di estrarre elementi che sintetizzino in un solo evento la ripetitività, l’abitudinario, le sue varianti e le sue eccezioni. È quello di tracciare quadri estremamente stilizzati in grado di riprodurre nella brevità tempi lunghi e relazioni umane complesse. La psicologia delle persone, i loro modi di essere e di porsi con gli altri o con le cose, non sono oggetto di descrizione, ma si manifestano attraverso azioni. Dal presente della narrazione sorge ad ogni capitolo un frammento di passato circoscritto e fatto di dettagli essenziali, di parole che – come dice lei stessa (Colette II, li) – devono far vedere e sentire le cose e le persone di cui si tratta. Lasciare dunque al lettore il compito di ricomporre l’insieme e il sotteso del paradigma abbozzato costituisce l’essenza della sua lezione di stile: «des touches et des couleurs détachées, et aucun besoin de conclusion» (tocchi e colori distinti, e nessun bisogno di conclusione).

Abbiamo lasciato il nostro episodio sull’asserzione di impossibilità a dire quel mondo passato descrivendolo. È a questo punto del racconto che si mette in moto senza soluzione di continuità un’altra procedura e che si entra senza mediazioni in quella casa, anzi in quel giardino di allora. Quello che ci viene rappresentato è però un giardino vuoto, gli abitanti non si vedono, di loro ci sono solo tracce, segni di presenze invisibili e silenziose:

Mais ces signes ne s’accompagnaient presque jamais du cri, du rire enfantins, et le logis, chaud et plein, ressemblait bizarrement à ces maisons qu’une fin de vacances vide, en un moment, de toute sa joie. Le silence, le vent contenu du jardin clos, les pages du livre rebroussées sous le pouce invisible d’un sylphe, tout semblait demander: «Où sont les enfants?».

C’est alors que paraissait, sous l’arceau de fer ancien que la glycine versait à gauche, ma mère, ronde et petite en ce temps où l’âge ne l’avait pas encore décharnée. Elle scrutait la verdure massive, levait la tête et jetait par les airs son appel: «Les enfants ! Où sont les enfants?»

Où ? nulle part. L’appel traversait le jardin, heurtait le grand mur de la remise à foin, et revenait, en écho très faible et comme épuisé: «Hou… enfants…».

Nulle part. Ma mère renversait la tête vers les nuées, comme si elle eût attendu qu’un vol d’enfants ailés s’abattît. Au bout d’un moment, elle jetait le même cri, puis se lassait d’interroger le ciel, cassait de l’ongle le grelot sec d’un pavot, grattait un rosier emperlé de pucerons verts, cachait dans sa poche les premières noix, hochait le front en songeant aux enfants disparus et rentrait.

La rete di significanti che prepara una situazione di silenzio e di assenza è da salvaguardare con cura, traducendo. La costruzione sintattica che isola e mette al centro il soggetto (ma mère), rispetto al predicato risponde all’esigenza di dar rilievo a ciò di cui si parla e costituisce una componente inalienabile. È del resto un elemento caratterizzante della scrittura di Colette, e riservata a personaggi e situazioni salienti. Lo ritroviamo per esempio usato, in un altro capitolo, per l’enigmatica sorella: «Le papier de la chambre, gris de perle à bleuets, portait les traces, près du lit, des allumettes qu’y frottait, la nuit, avec une brutalité insouciante, ma sœur aux longs cheveux» (Ma sœur aux longs cheveux).

Ma rimanendo nell’episodio che stiamo utilizzando, ciò su cui vale la pena dilungarsi è la sintassi dei verbi, in particolare sulle diverse funzioni che svolge. L’imperfetto svolge in questo passo funzioni diverse. Se all’inizio riferisce la ripetitività, o il perdurare di certe qualità nel passato, a partire da «c’est alors que» la sua funzione cambia e fa cambiare la prospettiva dalla quale a quel passato si guarda; la riflessione astratta della memoria si concretizza nella percezione visiva di un evento che, per come anche in seguito si svilupperà, è poco coerente con la funzione di iteratività svolta dall’imperfetto. I dettagli scelti per comporlo sembrerebbero richiedere piuttosto un racconto «singolativo» (raccontare una volta cioè che si svolge una volta). L’«iterativo» (raccontare una volta ciò accade più volte) richiederebbe infatti gesti più generici soggetti a riprodursi sempre nello stesso modo. Anche da un punto di vista essenzialmente semantico, le due precisazioni circostanziali di tempo e di luogo che accompagnano il verbo paraître / apparire non sembrano conciliarsi con la ripetitività. Ciò che abbiamo scorto in questa «licenza narrativa» è proprio l’effetto della soggettività dello sguardo e non dimentichiamo che è in questo preciso momento che il personaggio della madre fa il suo primo ingresso nel mondo narrativo di Colette. Non può che farlo con un coup de théâtre. Lo sguardo della narratrice fino a questo punto intenzionale, si identifica ora con quello del soggetto narrato e sul tempo della scrittura, cioè il presente, si allinea il passato, senza che nulla lo segnali. Dalla scena evocata la narratrice si sposta e si concentra su ciò che ha tutte le caratteristiche di una scena precisa e unica, di una percezione visiva cristallizzata, data come rappresentativa in sintesi di molte altre. L’imperfetto la mantiene sul piano della realtà – più in francese che in italiano a dire il vero: infatti per noi l’imperfetto è il tempo dell’irrealtà, quello dei bambini che giocano ruoli diversi, per esempio. Il passato remoto che alcuni studenti hanno proposto di utilizzare avrebbe spostato la narrazione sul piano del fantastico o dell’onirico.

[…] questi segni non si accompagnavano quasi mai a un grido, a una risata infantile, e la casa, calda e piena, assomigliava stranamente a quelle dimore che la fine delle vacanze svuota, in un attimo, di tutta la loro gioia. Il silenzio, il vento trattenuto di un giardino cintato, le pagine del libro girate dal pollice invisibile di un silfo, tutto sembrava chiedere: «Dove sono i bambini?».

Era allora che appariva, sotto l’arco di ferro vecchio che il glicine faceva pendere a sinistra, mia madre, rotondetta e piccola a quel tempo quando l’età non l’aveva ancora rinsecchita. Scrutava nel folto del verde, sollevava la testa e lanciava in aria il suo richiamo: «Bambini ! Dove sono i bambini?».

Dove? da nessuna parte. Il richiamo attraversava il giardino, sbatteva contro lo spesso muro del fienile, e ritornava, eco debole e come svuotata: «Hee… bambini…».

Da nessuna parte. Mia madre rovesciava il capo verso le nuvole, come se si fosse aspettata che un volo di bambini alati si abbattesse dal cielo. Dopo un momento lanciava lo stesso grido, poi si stancava di interrogare il cielo, spezzava con l’unghia un sonaglio secco di papavero, raschiava via i pidocchi da una rosa, si infilava in tasca le prime noci, scuoteva la testa pensando ai bambini scomparsi, e rientrava.

Interessanti anche alcune delle occorrenze di imperfetto non iterativo nella seconda parte di questo passo (corsivo nostro):

Le flair subtil de la mère inquiète découvrait sur nous l’ail sauvage d’un ravin lointain ou la menthe des marais masqués d’herbe. La poche mouillée d’un des garçons cachait le caleçon qu’il avait emporté aux étangs fiévreux, et la «petite», fendue au genou, pelée au coude, saignait tranquillement sous des emplâtres de toiles d’araignée et de poivre moulu, liés d’herbes rubanées…

– Demain, je vous enferme ! Tous, vous entendez, tous ! Demain… Demain l’aîné, glissant sur le toit d’ardoises où il installait un réservoir d’eau, se cassait la clavicule et demeurait muet, courtois en demi-syncope, au pied du mur, attendant qu’on vînt l’y ramasser. Demain, le cadet recevait sans mot dire, en plein front, une échelle de six mètres, et rapportait avec modestie un œuf violacé entre les deux yeux…

È un imperfetto ascrivibile alla categoria dell’«imparfait conclusif», possibile del resto anche nella nostra lingua. Ma a rendere le cose più complesse è l’avverbio demain. Nello stralcio di dialogo (discorso diretto) demain è usato in modo normale, cioè in una situazione enunciativa al presente. Ripreso dalla voce narrante, sospeso in un tempo soggettivato, fa ruotare il sipario e realizza di nuovo un allineamento del tempo: apre, rimanendo nel passato, ad un futuro prossimo cui si guarda però dalla lontananza del tempo della narrazione, esplicitamente espresso poi dai verbi al presente della frase che segue e che conclude il racconto.

Che fare in italiano? Lasciarlo alla lettera con un effetto particolarmente straniante e correre pure il rischio che passi per una sciatta adesione all’uso colloquiale dell’imperfetto per esprimere il futuro nel passato? O sostituirlo con il condizionale passato neutralizzando il gioco di contrazione cronologica?

 

Diamo le due versioni. La prima:

– Domani vi rinchiudo ! Tutti, avete capito, tutti !

Domani… Domani il maggiore, scivolando dal tetto di ardesia dove sistemava una cisterna per l’acqua, si rompeva la clavicola e se ne stava lì in silenzio, con l’aria gentile, mezzo svenuto, ai piedi del muro, aspettando che qualcuno andasse a raccattarlo. Domani il fratello più piccolo si riceveva senza dire una parola, in piena fronte, una scala di sei metri, e ostentava con modestia un bozzo violaceo in mezzo agli occhi…

La seconda:

– Domani vi rinchiudo ! Tutti, avete capito, tutti !

Domani… Domani il maggiore, scivolando dal tetto di ardesia dove sistemava una cisterna per l’acqua, si sarebbe rotto la clavicola e se ne sarebbe stato in silenzio, con l’aria gentile, mezzo svenuto, ai piedi del muro, aspettando che qualcuno andasse a raccattarlo. Domani il fratello più piccolo si sarebbe ricevuto senza dire una parola, in piena fronte, una scala di sei metri, e avrebbe ostentato con modestia un bozzo violaceo in mezzo agli occhi…

Questa seconda versione è più comunicativa e scorrevole ma deforma l’originale.

Un uso dell’imperfetto singolativo che sarebbe del tutto sviante se lo si mantenesse in italiano lo abbiamo incontrato altrove: «Il arrivait vêtu de bleu, coiffé d’un panama à ruban rayé» (L’ami). Il contesto ci dice chiaramente che l’arrivo dell’amico si è prodotto una sola volta e non sembra ricoprire nessuna della pur ricca gamma di funzioni di cui l’imperfetto in italiano. In Colette trova una sua plausibilità che non cerchiamo di individuare, ma in italiano possiamo riproporla? La scelta per ora si è fermata ad una forma perifrastica che troppo chiarisce e traduce: «Se ne era arrivato vestito di blu […]».

Continuando a prendere spunto da altri episodi della raccolta vorremmo menzionare ancora qualche problema relativo all’aspetto dei verbi. Uno è quello dell’uso frequente del passato remoto per esprimere un’azione che inizia ed è destinata a durare (il corsivo è nostro):

1 Quand j’eus huit, neuf, dix ans, mon père songea à la politique (Propagande).

2 Dès que le mot «politique» obséda son oreille d’un pernicieux cliquetis, il songea: […] (Propagande).

3 Il siffla d’admiration et travailla sans parler (Épitaphes).

4 On ne parla que de nous. On fit queue le matin à la boucherie de Léonore pour y rencontrer ma mère (Maternité).

5 […] je ne fis pas attention que, dans ce moment-là justement, ma mère souffrit de demi-syncopes nerveuses […] (Maternité).

6 Blessés, ils recanaient, après quelques jours: «Elle a attrapé une fatigue de trente-six semaines, oui!» et ils épièrent sa taille… (La petite Bouilloux).

7 Elle nous adopta tous dans son cœur, suivit ma mère à la boucherie, me fit un bout de conduite quotidienne sur le chemin de l’école (La Toutouque).

8 Les yeux gris de ma mère me cherchèrent, me couvèrent âprement […] (Ma mère et la morale).

9 Tous les matins, je pus lui donner ma tête, qu’elle étreignait des quatre pattes et dont elle râpait, d’une langue bien armée, les cheveux coupés (Bâ-tou).

10 La petite pleura brusquement et s’assit sur son lit (Le veilleur).

In francese questo uso del passato remoto non suona discordante, a livello di semantica e di tempo, con il senso del verbo o il contesto della frase. Semplicemente, rispetto alle costruzioni che consentono di esprimere il cambiamento nello svolgimento delle azioni, esso è recepito in francese come qualcosa di più fattuale, più oggettivo e meno affettivo. In casi come questi in italiano risulta quasi indispensabile ricorrere all’imperfetto iterativo o ad alcune forme perifrastiche: cominciare a, mettersi a

1 Quando ebbi otto, nove, dieci anni, mio padre incominciò a pensare alla politica.

2 Appena la parola «politica» entrò nelle sue orecchie con un pernicioso clicchettio, incominciò a pensare: […].

3 Lanciò un fischio di ammirazione e continuò a lavorare in silenzio.

4 Si incominciò a parlare solo di noi. La gente faceva la coda la mattina nella macelleria di Lénore per incrociare mia madre […] (Ci chiediamo se non sia possibile in questo caso lasciare il passato remoto: Non si parlò che di noi).

5 […] non mi accorsi che, proprio in quel periodo, mia madre incominciò a soffrire di mezze sincopi di origine nervosa […].

6 Risentiti, dopo qualche giorno ridacchiavano: «Si è presa una stanchezza di trentasei settimane, certo!» e incominciarono a spiare il suo ventre.

7 Ci adottò tutti quanti nel suo cuore, seguiva mia madre dal macellaio, mi accompagnava per un pezzo di strada a scuola, ogni giorno.

8 Gli occhi grigi di mia madre mi cercarono, si misero a covarmi con durezza […].

9 Ogni mattina potevo offrirle la mia testa e lei la stringeva con le zampe e raschiava via con la sua lingua ben armata i capelli caduti.

10 La bambina si mise improvvisamente a piangere e si sedette sul letto.

Talvolta la trasformazione suggerita dal contesto per rendere il testo più comunicativo, più fluido per il lettore d’arrivo, può compromettere di molto il risultato:

1 Au retour, elle traque encore le lézard sur la dalle chaude… (La «Merveille»).

2 Dès la tombée du jour, elle surveille la grille du jardin et aboie contre tout «suspect» (La «Merveille).

1 Al ritorno, si mette ancora a cacciare la lucertola sulla pietra calda…

2 Appena scende la sera, si mette a sorvegliare la cancellata del giardino e abbaia contro ogni individuo sospetto.

Nell’esempio che segue l’intenzione comunicativa potrebbe intervenire più pesantemente:

«En deux jours, elle a distingué sa droite» (In due giorni, ha imparato a distinguere la destra) (La «Merveille»).

Nella frase che segue, presa anch’essa da un altro episodio della MCl, la difficoltà deriva dall’accostamento tra il tempo – il passato remoto –, l’azione verbale suggerita da disparaître / sparire e l’avverbio di tempo à toute heure, che implica iterazione:

Quand la faux luisante de leurs ailes [des hirondelles] grandit et s’affûta elles disparurent à toute heure dans le haut du ciel printanier, mais un seul appel aigu […] les rabattait fendant le vent comme deux flèches […] (Ma mère et les bêtes).

Quando la falce lucente delle loro ali divenne più grande e si affilò, *sparirono / incominciarono a sparire / *sparivano a ogni momento nell’alto del cielo primaverile, ma a un solo richiamo acuto […] si rilanciavano giù fendendo il vento come due frecce.

Il passato remoto è da escludere senza esitazioni, l’imperfetto richiederebbe una pesante risistemazione dei tempi che lo circondano. La perifrasi è possibile ma forse troppo incongruente da un punto di vista semantico. Una soluzione potrebbe essere quella di modificare le parole stesse:

Quando la falce lucente delle loro ali divenne più grande e si affilò, presero l’abitudine di sparire ad ogni momento nell’alto del cielo primaverile, ma ad un solo richiamo acuto […] si rilanciavano giù fendendo il vento come due frecce […]

Una modifica si deve per forza fare con il participio presente fendant, che non si può rendere con un gerundio se non cambiando il soggetto.

Per concludere possiamo dire che nella nostra lettura condotta su quell’idea di orizzonte traduttivo insegnataci da Berman, abbiamo privilegiato alcune questioni inerenti al tempo e alla realtà di referenza perché funzionali al tipo di racconto preso in esame. Una scrittura che tocca, senza volerlo dare a vedere, i nodi più intimi della bio-grafia personale, che sente l’esigenza di proiettarsi sul passato, di trasformare in parole le sedimentazioni della memoria sul presente, agisce sulla lingua in un certo modo e la piega alle proprie istanze – non sempre consapevoli e intenzionali. La lingua diventa il materiale da forgiare per aderire a un desiderio di evocazione che si genera nel momento stesso della scrittura, per realizzare strategie sintattiche e lessicali che consentano, senza essere troppo esplicite, l’espressione di intime esigenze, e di ambiguità irrisolte. Diventa di primaria importanza, anche quando ciò sembra condurre a una maniacale micro-lettura, puntualizzare l’uso particolare, individuale e talvolta anomalo delle forme sintattiche, lessicali, semantiche, i nodi più ellittici, la vicinanza spaziale delle parole, le ricorrenze, gli automatismi. Cercare insomma di individuare – è quanto ci dice Berman – quale rapporto leghi, nell’opera, l’attualizzazione individuale al codice linguistico, la scrittura alla lingua.

Critica letteraria e traduzione formano un binomio caro a tanti teorici della traduzione: il testo tradotto, consegnato «da solo» a un nuovo lettore, dopo aver cancellato tutto ciò che spiega e giustifica, dovrebbe dimostrarne l’efficacia. Non è detto, ma la fortuna di un’esperienza didattica è che questo lettore per ora non c’è…

 

Nota: Le traduzioni nel testo sono mie.

Riferimenti bibliografici

Barthes 1978: Roland Barthes, «Longtemps je me suis couché de bonne heure», Conférence au Collège de France, 19 octobre 1978, publiée dans la collection «Les inédits du Collège de France», ora in Roland Barthes, Œuvres Complètes, V, Seuil, Paris, 1995, 459-70 (nel testo, l’indicazione delle pagine si riferisce a questa edizione)

Berman 1995: Antoine Berman, Pour une critique des traductions: John Donne, Gallimard, Paris, 1995.

Cadeddu 2005: Paola Cadeddu, Les mille et un visage de Colette. Analyse de ses traductions en italien, in Colette, 50 ans après. Mythes et images, «Cahiers Colette» 27, 2005, 197-202

Delesalle 2005: Simone Delesalle, Colette: la cible et l’exemple, in Colette, 50 ans après cit., 33-47

Derrida 1967: Jacques Derrida, L’écriture et la différence, Paris, Seuil, 1967 (traduzione italiana di Gianni Pozzi, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino, 1971)

Derrida 1999: Jacques Derrida, Qu’est-ce qu’une traduction relevante? in Assises de la traduction littéraire (Arles 1998), Actes Sud, Arles, 1999. Ho preferito tradurre io queste poche parole invece di ricorrere alla traduzione italiana di Julia Ponzio: Jacques Derrida, Che cos’è una traduzione “rilevante”?, in “Athanor”, La traduzione, a cura di Susan Petrilli, Meltemi, Roma, anno X, n. 2,
1999-2000, 25-45

Kristeva 2002: Julia Kristeva, Le génie féminin. La vie, la folie, les mots. III, Colette, Fayard, Paris, 2002 (Gallimard, Paris, 2004) (ora nella traduzione italiana di Monica Guerra, Il genio femminile, 3 voll., Donzelli, Roma 2010: vol. I, Colette: le parole)

Nowotna et Moghami 2009: Magdalena Nowotna et Amir Moghami (sous lo direction de), Les traces du traducteur, Actes du Colloque international, Paris, 10-12 avril 2008, Inalco / Cerlom, Paris, 2009

Parks 2004: Tim Parks, Dire sempre una cosa diversa, Relazione al Premio di poesia e traduzione poetica «Achille Marazza – Città di Borgomanero», 2003, Fondazione Achille Marazza, Borgomanero, 2004

Strawson 2005: Galen Strawson, Against Narrativity, in Id. (ed.), The Self?, Blackwell, Malden (MA), 2005, 63-86

Per le opere di Colette si fa riferimento all’edizione delle Œuvres, pubblicate nella Bibliothèque de la Pléiade, sotto la direzione di Claude Pichois, presso Gallimard, Paris, dal 1984 al 2001 in 4 volumi. La Maison de Claudine presentata e annotata da Maurice Delcroix è nel volume II del 1986 (pp. 965-1084). Nel caso di citazioni da altre opere si rimanda al volume della Pléiade in cifra romana e alle pagine.

Le prime traduzioni italiane di Colette appaiono nel 1906. Negli ultimi decenni sono apparse soprattutto presso Adelphi. I Meridiani di Mondadori le hanno consacrato un volume nel 2000 sotto la direzione di Maria Teresa Giaveri (vedi Cadeddu 2005).

La Maison de Claudine non risulta sia mai stata tradotta.