Il destinatario, questo sconosciuto…

A CHI SI RIVOLGE IL TRADUTTORE?

di Christiane Nord

(traduzione dal tedesco di Elisabetta Zoni)

Nella traduzione, come nella produzione di ogni testo conforme alla propria funzione, l’importanza del riferimento al destinatario dovrebbe essere ormai indiscussa, anche per chi non aderisce necessariamente a teorie funzionali della traduzione. Eppure, proprio da costoro proviene la domanda che viene continuamente rivolta ai funzionalisti: come è possibile sapere con precisione:

a. chi è il destinatario del testo di arrivo che vogliamo produrre;
b. quante e quali conoscenze pregresse possiamo presupporre nel destinatario e quali sono le sue “aspettative”.

Neppure gli studenti, durante le lezioni di traduzione, concordano sempre con i docenti in merito a questi interrogativi. Le macrostrategie che preferiscono adottare oscillano spesso tra due estremi:

a. spiegare, con glosse spesso debordanti, tutto ciò che loro stessi non hanno capito a una prima lettura e su cui, pertanto, si sono dovuti documentare; oppure

b. non fornire alcun tipo di spiegazione, con la motivazione che, dopotutto, non va sottovalutata la preparazione culturale del ricevente.

I docenti, al contrario, tendono a considerare se stessi come rappresentanti tipici o addirittura prototipici della categoria dei destinatari e a elevare a metro di giudizio universale le proprie conoscenze enciclopediche, nonché le proprie aspettative riguardo al testo.

Premessa teorica: dal ricevente al profilo del destinatario

Nella letteratura traduttologica si incontrano molteplici denominazioni per indicare la persona, o la cerchia di persone, che usufruiscono del testo: ricevente, pubblico, lettore/ascoltatore sono solo alcune fra queste. Il concetto è presente fin dall’antichità nei discorsi sulla retorica e sulla traduzione. In rapporto alla traduzione, la definizione”½ricevente” viene utilizzata spesso nel significato di “ricevente individuato” (intendierter Empfänger), come, ad esempio, in Vermeer (1986, 278), che definisce il ricevente come «il destinatario del risultato traduttivo». A differenza del destinatario, il ricevente può anche essere qualcuno al quale il testo non era originariamente rivolto: in quest’ultimo caso, Vermeer (1990, p. 222) parla di «osservatore». L’«ascoltatore» (Reiss eVermeer 1984, 70), invece, può anche essere quello inteso dal produttore del testo, per esempio i telespettatori di un dibattito parlamentare trasmesso in televisione. Anche il traduttore è, in piena regola, un ricevente del testo di partenza e può, ma non deve necessariamente, far parte del gruppo dei riceventi individuati.

Nel processo traduttivo, quando ancora non è noto chi sarà il ricevente ultimo del testo d’arrivo, in realtà si ha a che fare solo con il ricevente individuato della traduzione, che in taluni casi è diverso dal ricevente individuato o reale del testo di partenza, per cui già Kade (1968) definisce il traduttore (T) come «ricevente indiretto», dove «indiretto» significa che il messaggio di E (emittente del testo di partenza) in realtà non è destinato a T, ma che E si serve dell’intermediazione di T solo perché il vero ricevente R non è in grado di recepire il messaggio nella codifica della lingua di partenza LP (Kade 1968; 54, traduzione mia û N.d.T.). Qui R è il ricevente individuato del messaggio formulato dall’emittente del testo di partenza, mentre il ricevente della lingua di partenza non viene incluso nel modello.

Reiss (1971), invece, intende il ricevente solo come ascoltatore o lettore del testo di partenza, le caratteristiche del quale, nel caso di una traduzione che tende all’equivalenza, valgono anche per il lettore o ascoltatore (individuato) del testo di arrivo. Viceversa, nel caso in cui il ricevente del testo di arrivo non possa essere descritto in termini analoghi al ricevente del testo di partenza, Reiss (1971, 102 sgg.) utilizza l’espressione «lettore specificamente individuato»».

Un ruolo particolare spetta al ricevente del testo di arrivo, qui ovviamente inteso come «ricevente individuato», nei paradigmi funzionali della traduzione, in particolare nella teoria dello Skopos. Già nel 1978 Vermeer definisce il ricevente come «elemento integrante» e successivamente, nel 1986, come «varietà particolare» dello scopo traduttivo: viceversa, definisce lo scopo come «funzione del ricevente», ossia come variabile legata al ricevente ([1978] 1983, 55; 1986, 283). Nello stesso contesto teorico, Reiss e Vermeer (1984, 101) impiegano il termine destinatario (Adressat), che ha il vantaggio di essere sempre riferito al testo di arrivo e non necessita di alcuna spiegazione aggiuntiva.

Con ciò potremmo considerare concluso il capitolo sul destinatario: a eccezione di Wolfram Wilss, che già nel 1977 riassumeva le caratteristiche del destinatario parlando di specificità del destinatario, distinguendo fra traduzioni «relativadressatenspezifisch», cioè destinate a un pubblico già in origine circoscritto, e traduzioni «relativadressatenunspezifisch», cioè indirizzate a un pubblico non specificamente definito, in realtà non si parla più delle caratteristiche o delle aspettative del destinatario concreto: la discussione si esaurisce per lo più in esortazioni a una generica «adeguatezza al destinatario», intesa come prerogativa di base per una traduzione accettabile, cioè «coerente», per il destinatario, vale a dire interpretabile senza far ricorso al testo di partenza e sulla base delle conoscenze di fondo (pre-conoscenze) presenti nella cultura di arrivo (cfr. Vermeer 1980, 253).

Vorrei fare due brevi osservazioni: innanzitutto, il termine destinatario, a mio avviso, è da preferire a ricevente, in quanto più univoco e maggiormente legato alla collocazione futura della traduzione. In secondo luogo, in ogni discussione concernente il destinatario è necessario rammentare che non siamo di fronte a una persona in carne e ossa, bensì a un costrutto concettuale, le cui qualità vengono «postulate» sulla base di testi prodotti in situazioni analoghe e aventi funzioni similari. Un testo considerato «adeguato al destinatario» da alcuni dei suoi destinatari non sarà mai adatto a tutti i suoi potenziali riceventi, e quindi «adeguato al ricevente».

L’idea che ci facciamo di questo o quel destinatario di un particolare testo-in-situazione-in-cultura, è modellata da una sorta di tipologia situazionale, che dà luogo a delle attese: ci aspettiamo che un testo, trasmesso in una situazione temporalmente e spazialmente ben delimitata A, che mira a determinate funzioni comunicative (B, C), sia rivolto a un tipico destinatario D. Si può quindi affermare che, condensando questi dati testuali empirici, si ottiene un «profilo del destinatario».

Ora, il modo di esperire un testo dipende dal tipo di socializzazione, dall’età, dagli interessi personali e da svariati fattori che non sempre è possibile generalizzare. Pertanto, se si vuole fornire agli studenti una solida base per l’elaborazione di un profilo del destinatario, non ci si può limitare a dire: «Guardate me, io sono quel destinatario!», ma è necessario dotarli di tutti quegli strumenti, metodologici e strategici, che li aiuteranno a costruire un profilo del destinatario anche di fronte a situazioni nuove, in cui non possono basarsi su esperienze precedenti. Alcuni elementi importanti che compongono il profilo del destinatario dovrebbero essere le aspettative riguardo alle presunte conoscenze universali, alla cultura e alla formazione (presupposizioni) e alle convenzioni strutturali e stilistiche relative al testo e al genere testuale. Dovremmo, insomma, rispondere alle seguenti domande:

– Che cosa sa davvero il destinatario?

– Quali formulazioni gli suonerebbero convenzionali (o non convenzionali), e perché?

Intertestualità come base per il profilo del destinatario

Alla ricerca di una risposta a queste domande ci viene in aiuto la nozione di intertestualità: il testo che dobbiamo produrre in una specifica situazione traduttiva di solito non è il primo del suo genere. Sappiamo che in determinate situazioni viene sempre utilizzato un certo tipo di testo, per determinati scopi e destinatari, e rappresenta pertanto un particolare genere testuale; inoltre, i testi appartenenti a un certo genere presentano tratti stilistici comuni. Proprio questi tratti, o «convenzioni», possono fungere da indicatori nell’individuazione del profilo del destinatario. Le convenzioni testuali sottolineano, fra l’altro, il riferimento del testo al destinatario, sia per quanto attiene alle conoscenze presupposte o non presupposte sia per quanto riguarda la preferenza per particolari modalità di formulazione che in generale ci si aspetta e che il destinatario si aspetta, data la loro costante ricorrenza.

Il testo di partenza fa parte del repertorio testuale della cultura di partenza ed evidenzia perciò collegamenti ad altri testi o insiemi di testi (generi testuali) appartenenti a quella cultura. La traduzione, per contro, entrerà a far parte del repertorio testuale della cultura di arrivo, venendo così a trovarsi in un rapporto di intertestualità con altri testi o insiemi di testi di quella cultura. Il passaggio attraverso le barriere linguistiche e culturali fa sì che la configurazione intertestuale del testo tradotto risulti diversa da quella del testo di partenza.

A visualizzare meglio la nozione di intertestualità può esserci d’aiuto l’insiemistica: in virtù dei loro rapporti intertestuali, i testi di una cultura formano degli insiemi. Un testo può anche far parte di più insiemi, e quindi collocarsi all’interno di un’intersezione di diversi insiemi, oppure un insieme può contenere un unico testo, o addirittura possono esistere «insiemi vuoti» in cui non è stato ancora inserito alcun testo.

Una traduzione potrebbe quindi essere collocata nell’insieme dei testi appartenenti a un certo genere testuale, oppure nell’insieme che comprende tutti i testi tradotti nella cultura di arrivo, o anche nell’insieme che include tutti i testi tradotti da una specifica lingua e dalla sua cultura. Il primo testo tradotto dall’islandese, pertanto, andrebbe probabilmente a costituire un nuovo insieme: in tal modo, dagli altri testi tradotti dalla stessa lingua ci si “aspetterebbero” determinati tratti comuni a quel primo testo.

Se i testi tradotti debbano costituire un insieme a parte o vadano inseriti in insiemi testuali preesistenti è una questione che si può affrontare solo empiricamente, compiendo tre operazioni:

a. valutazione di consistenti corpora composti da «testi paralleli», cioè da testi autentici, non tradotti e non prodotti in una situazione traduttiva, facenti parte della cultura di partenza e di quella di arrivo, che chiariscano che cosa “si aspetta” il destinatario di un testo (non tradotto) appartenente a un certo genere testuale, ovvero ”che cosa ci si aspetta che il destinatario si aspetti” (profilo del destinatario);

b. valutazione di un corpus di testi tradotti professionalmente (il termine «professionalmente» non implica qui alcun giudizio di valore, bensì indica traduzioni accettate e “utilizzate” da revisori, committenti, case editrici e altri riceventi) dalla lingua di arrivo nella lingua di partenza e viceversa, con valore, ove possibile, sia strumentale sia documentario. Ricordo brevemente che la traduzione «documentaria» ha «funzione di documento/documentazione di un atto comunicativo appartenente a una cultura straniera» ed è pertanto, in primo luogo, un metatesto (a questo genere appartengono la versione interlineare, la traduzione grammaticale e la traduzione filologica o «straniante»); la traduzione «strumentale», invece, serve come strumento comunicativo a sé stante, autonomo, e deve pertanto possedere tutte le funzioni che caratterizzano anche i testi non tradotti, ma non deve avere necessariamente la stessa funzione del testo di partenza (cfr. Nord 1989 e Nord 1997). Il confronto con il primo corpus mostra quali sono i tratti che, eventualmente, differenziano un testo tradotto da uno autentico senza pregiudicarne l’accettabilità, poiché le aspettative del ricevente rispetto a un testo tradotto, nella misura in cui sia riconoscibile come tale, possono essere diverse da quelle innescate da un testo autentico.

c. Inoltre, il confronto dei corpora testuali tradotti con corpora testuali autentici provenienti da una particolare lingua e cultura costituisce un buon test rivelatore per capire in quali circostanze il traduttore preferisce orientarsi secondo le convenzioni testuali della lingua d’arrivo e in quali casi secondo le norme della lingua di partenza.

Bibliografia

Kade 1968: Otto Kade, Zufall und Gesetzmäßigkeit in der Übersetzung, in «Beihefte zur Zeitschrift Fremdsprachen», 1, Leipzig 1968

Nord 1989: Christiane Nord, Loyalität statt Treue. Vorschläge zu einer funktionalen Übersetzungstypologie, in «Die Lebenden Sprachen», XXXIV, 1989, 3, 100-105

– 1997: Christiane Nord, A Functional Typology of Translations, in Id., Translating as a Purposeful Activity, St. Jerome, Manchester 1997

Reiss, K. 1971: Katharina Reiss, Möglichkeiten und Grenzen der Übersetzungskritik, Hueber, München 1971

Reiss e Vermeer 1984: Katharina Reisse Hans J. Vermeer, Grundlegung einer allgemeinen Translationstheorie, Niemeyer, Tübingen 1984

Vermeer 1980: Hans J. Vermeer, Die Sitten des Staates, die zwei Übel verwüsteten – ein Kapitel angewandte Translationswissenschaft, in «Linguistica Antverpiensia», a. XIV, 1980, 251-276

– 1983: H.J. Vermeer, Aufsätze zur Translationstheorie, Heidelberg 1983

– [1978] 1983: H.J. Vermeer, Ein Rahmen für eine Allgemeine Translationstheorie, in «Die Lebenden Sprachen», a. XXIII, n. 3, 99-102 (poi in: Vermeer 1983, 48-61)

– 1986: H. J. Vermeer, Voraussetzungen für eine Translationstheorie – einige Kapitel Kultur- und Sprachtheorie, Heidelberg 1968

– 1990: H.J. Vermeer, Texttheorie und Translatorisches Handeln, in «Target», a. II, n.2, 219-242

Wilss 1997: Wolfram Wills, Übersetzungswissenschaft. Probleme und Methoden, Klett, Stuttgart 1997