Tredici secoli, tremila chilometri, una sola famiglia universa

di Melania G. Mazzucco

«Ognuno di noi – diceva Lamartine (qui nell’italiano di Giuseppe Fanciulli) – leggendo si forma una famiglia universa, che sceglie da tutti i paesi e da tutti i tempi, per crearsi una specie di parentela spirituale, di società ideale». Così, un testo amato, scritto in una lingua straniera inaccessibile ai lettori italiani, ha sempre rappresentato per me un invito irresistibile, come il canto delle Sirene, a impegnarmi in prima persona per crearmi quella famiglia universa e allargata.

La mia prima impresa di traduzione risale al terzo liceo. Nel 1985, studiavo quasi soltanto la letteratura greca. Mi imbattei nell’ultimo grande poeta della cultura ellenistica: suggellava infatti il manuale. Nulla si sapeva di lui – a parte il nome: Nonno di Panopoli. Una città sul Nilo, in Egitto, all’estrema periferia dell’Impero Romano. Dai suoi testi si ricavava qualche altro dato frammentario: aveva vissuto a Beirut, scriveva ad Alessandria, la sua lingua era il greco. Aveva lasciato solo due opere, apparentemente inconciliabili: un poema epico con protagonista un dio pagano e una Parafrasi del Vangelo di Giovanni. Con lui, nel V secolo d.C., tramontava un modo di vedere il mondo e gli uomini – ma anche una cosmologia, un pantheon di dèi sconfitti dalla venuta di Gesù. Quest’ultimo pagano affascinato dal cristianesimo rappresentava una fine o un inizio? Era un epigono – un sopravvissuto, un relitto della catastrofe del mondo antico – o un profeta visionario, che tentava di conciliare passato e futuro? Il poema epico, in 25.000 esametri e 48 canti (la cui lunghezza eguagliava dunque l’Iliade e l’Odissea), si intitolava Le Dionisiache. Cioè: vita guerre avventure miracoli e apoteosi di Dioniso, figlio di Zeus e di una mortale, nato due volte, dalla carne di una donna e dal fulmine del Padre. Dio dell’ebbrezza e della metamorfosi – dio che, come Cristo, è sceso sulla terra per mescolarsi alla storia degli uomini.

Tredici secoli separavano Nonno da Omero: una distanza quasi analoga a quella che separava me da lui. Ma a quella tradizione letteraria, che sentiva parte vitale della sua identità, aspirava a ricongiungersi. Come se, alle soglie della scomparsa, volesse trattenerne memoria in un’enciclopedia in versi. Una biblioteca universale del mondo antico, degna di Borges. Un poema «cangiante e variopinto» (ποικίλον, era l’aggettivo) capace di contenere non solo ogni storia e ogni mito, ma ogni genere letterario: dal romanzo all’epigramma, dall’epos alla tragedia, dalla poesia scientifica all’inno: insomma, un libro-cosmo, un libro-labirinto come i romanzi che allora – e un po’ anche adesso – mi parevano gli unici che meritassero di essere scritti.

Nella sua Storia della letteratura greca Albin Leski riassumeva sommariamente la trama delle Dionisiache, terremotata da ogni genere di digressioni, descrizioni, divagazioni, cesure, ellissi, e accennava all’immaginazione sfrenata, all’ebbrezza orgiastica, all’aggettivazione spensierata e allo stile esuberante dell’autore – sottolineandone il gusto del macabro, del magico, del fiabesco, l’erotismo perverso, il registro comico e grottesco (un gusto che sentivo di condividere). Ma la notizia più scioccante era un’altra. Le Dionisiache non erano mai state tradotte in italiano. Esisteva dunque, nel campo degli studi classici cui allora supponevo di potermi votare, un paesaggio vergine. Folgorata come Semele, decisi istantaneamente che le Dionisiache le avrei tradotte io. La traduzione era un atto filiale, ma anche un’esplorazione, una sfida – un’avventura.

Non mi scoraggiava la difficoltà linguistica (e fisica) dell’operazione. Ignorandola, non potevo lasciarmi paralizzare dall’annosa questione etimologica della traduzione come tradimento e tradizione. Problemi teorici e astratti mi erano del tutto alieni. Si trattava di colmare una lacuna relativa a un testo che ritenevo imprescindibile e congeniale, e poiché nessun altro se n’era assunto l’onere, volevo regalarmi il piacere di ricongiungere io le estremità di una catena di cui sentivo di essere ancora un anello.

Scelsi un episodio del canto XXXV. Costituisce un topos, una scena-chiave dell’immaginario epico occidentale. Il guerriero scopre la bellezza della nemica uccisa in duello e tardivamente se ne innamora. Sia la donna sconfitta un’amazzone come Pentesilea, o una capitana saracena come Clorinda, sia l’omicida Achille Piè Veloce o il pio Tancredi, quell’episodio ha incendiato di erotismo tanti versi. Nelle Dionisiache i protagonisti sono anonimi: lui è un guerriero indiano, lei una baccante. Così traduceva la studentessa Mazzucco:

E rivoltandosi a terra nella polvere una vergine / si denuda. La tunica si tira su / ma ella si arma di bellezza e ferita / ferisce l’uccisore che la brama; freccia diventa la sua grazia / e morendo vince. Contro il nemico si armano / le nude cosce, dardi d’amore. / E lui, preso da desiderio per un corpo senza vita, come Achille / vedendo un’altra Pentesilea a terra distesa / bacerebbe le gelide labbra della fanciulla nella polvere/ se non temesse la gravità della minaccia di Deriade. / Contempla allora il corpo nudo della ragazza sdegnosa / guarda le bianche caviglie e la piega tra le cosce scoperte / tocca le membra, tocca più volte i sodi / seni color della rosa, ancora simili a mele: / vorrebbe persino fare l’amore. Vinto, / infine grida queste parole sconnesse e folli, piene di desiderio…

Segue un’orazione un po’ prolissa, che vi risparmio. Pur orgogliosa della mia versione, cominciavo a pormi le domande fatidiche. Ma è lecito rendere l’esametro ellenistico in versi liberi? Io non avevo tenuto minimamente conto delle citazioni testuali, che i curatori delle edizioni inglese e francese ricordavano in nota, da autori che non avevo mai sentito nominare (Quinto di Smirne, Maximò) o che non conoscevo abbastanza (Claudiano): il palinsesto culturale celato sotto i versi di Nonno mi sfuggiva (come del resto la religione bacchica). Avevo ignorato le astuzie sonore e fonosimboliche cui ricorreva il poeta. Mi rendevo conto che la sua lingua era diversa da quella di Platone e Callimaco che avevo imparato a dominare, ma non ero in grado di comprendere l’evoluzione metrica, la differenza dell’accentazione, le scelte che Nonno aveva dovuto fare per salvare l’esametro dalla sua estinzione. Inoltre il greco originario trasudava un’ironia sapiente che muoveva al sorriso. Ma in italiano, come potevo renderla?

Così cominciai a chiedermi quando una traduzione può considerarsi accettabile. Quando è bella, pur se traditrice? Quando è una didascalica parafrasi del senso? Quando – come nel 2005 mi dirà a New York, lasciandomi perplessa, una lettrice del mio romanzo Vita (appena tradotto dall’eccellente Virginia Jewiss) – il testo sembra scritto nella lingua del destinatario, «tanto che non mi sono accorta che lei non era americana?» Cosa non può scomparire senza inficiare la traduzione e offendere il testo irreparabilmente? Cosa invece può cadere? Dove si annida ciò che chiamiamo, semplicemente, la letteratura? Nel suono, nel senso, nella tradizione, nell’originalità, nella forma, nello scarto dalla regola?

Per farla breve, poiché non ero in grado di rispondere a queste domande, mi arresi. Della mia impresa restano un centinaio di versi, macerie di un edificio che non avevo gli strumenti per portare a compimento (per dovere di cronaca aggiungo che la traduzione in italiano delle Dionisiache è stata poi fatta, con ben altra competenza, nel corso degli anni Novanta, e oggi ne esistono ben due versioni, entrambe in più volumi: una di Maria Maletta per la Adelphi, a cura del grandissimo Dario Del Corno, uscita tra il 1997 e il 2005; e l’altra, a più mani (Daria Gigli Piccardi, Fabrizio Gonnelli, Gianfranco Agosti e Domenico Accorinti), pubblicata dalla Bur tra il 2003 e il 2008.

Imprese simili, intraprese con baldanza e prematuramente abbandonate, costellano la mia biografia. Mi sono via via infatuata di romanzi scritti da miei coetanei algerini e africani, di un fluviale poema coreano di Ko Un, la cui ignoranza in Italia mi pareva un’offesa alla poesia. L’ultimo tentativo riguarda i Mikrogrammes di Robert Walser – un’opera che ha in comune con quella di Nonno l’immensità sterminata, ma che ne rappresenta l’antitesi. Il minuscolo contro il monumentale, il non-sense contro il mistero esoterico, il verso rarefatto contro il vitalismo dionisiaco, la geniale semplicità della follia contro la dottrina erudita. Mi pareva dolorosa, enorme, assurda, la mancata traduzione in italiano di quel capolavoro, scritto a lapis da un genio incalzato dai suoi demoni. Recluso in manicomio, Walser si nascondeva nei microgrammi, erigeva intorno alla sua anima disgregata una trincea di parole – minuscoli segni dispersi su migliaia di foglietti di carta – perché lì solo poteva sentirsi in salvo. E però anche in quel caso mi sono limitata a tradurre cinque o sei microgrammi prima di ammettere che l’impresa era superiore alle mie forze.

Così alla fine ho tradotto solo tredici racconti di Annemarie Schwarzenbach, la scrittrice, viaggiatrice e fotografa svizzera di lingua tedesca (1908-1942) cui ho dedicato un romanzo (Lei così amata) e di cui mi ero ripromessa di far conoscere, oltre che la vita, l’opera – allora inedita in italiano. Poiché avevo imparato il tedesco sui suoi scritti, mi muovevo disinvolta nelle sue parole, nella sua sintassi, nella sua punteggiatura, e con molta pazienza e umiltà alla fine sono riuscita a completare l’opera: La gabbia dei falconi è uscito nel 2007, in un piccolo volume della Bur.

Nel frattempo, però, era avvenuta una rivoluzione copernicana. Nel 1997 il mio primo romanzo, Il bacio della Medusa, era stato tradotto in spagnolo. Un fitto scambio di lettere col traduttore argentino impegnato nell’impresa, il compianto poeta Attilio Pentimalli Melacrino, mi aveva dischiuso orizzonti sorprendenti. I problemi teorici che avevano assillato me, ora assillavano lui, e dopo di lui i traduttori tedeschi, olandesi, ungheresi, coreani, serbi, israeliani e via dicendo, che via via si cimentavano con Vita, Un giorno perfetto o La lunga attesa dell’angelo. Nessuno di loro aveva risposte certe alle domande di sempre. Come si traduce il dialetto? Lo si ignora o lo si reinventa? E come si restituisce lo scarto tra lingua alta e gergo, lingua letteraria e parlata, scientifica e poetica, neologismo e arcaismo? E il ritmo – lento, solenne, sincopato, convulso – che di una frase (e dello stile di uno scrittore) è quasi tutto? E come regolarsi coi tempi verbali, che in italiano permettono una libertà ad altre lingue proibita? E come si segnalano le citazioni, le riscritture, le assonanze, le allusioni, la parodia? E l’ironia?

Il loro lavoro mi ha insegnato che non esistono regole né dogmi. Che ciascuno ha il diritto di fare le sue scelte, fedele solo all’idea di ri-scrivere un testo che restituisca, almeno in parte, la musica di quello originario. Nel passaggio da una lingua all’altra, qualcosa va perso. Qualcosa, però, si acquista. E i momenti in cui dalle parole di coloro che mi hanno letto in un’altra lingua ho capito che ciò che per me nel romanzo in questione contava davvero (e non era accessorio ma permanente) era arrivato fino a loro, intatto, li custodisco fra i ricordi più belli, come un premio senza nome. Tredici secoli separano Nonno di Panopoli da Omero, quindici secoli separano me da Nonno di Panopoli, mura di manicomi mi separano da Robert Walser e Annemarie Schwarzenbach, tremila chilometri o settemila miglia, catene di montagne e oceani separano me da lettori che si chiamano Agniezska, Pärvo o Consuelo. Ma i libri eludono le distanze. La letteratura ignora la prospettiva. Alla fine, la mia illusione giovanile vive ancora. La traduzione, ogni traduzione, è un’esperienza e un’avventura. Messaggio in bottiglia affidato alle onde, prima o poi trova la «famiglia universa» pronta a raccoglierlo.

(© Copyright Melania G. Mazzucco)