Come un prete il suo breviario

IL TRADUTTORE LETTERARIO DALL’INGLESE E I SUOI DIZIONARI, OGGI. UN’INCHIESTA

di Norman Gobetti

come il prete il suo breviario«Per lei il dizionario non era solo un libro di consultazione; lo leggeva come un prete legge il suo breviario, giorno dopo giorno, pagina dopo pagina, totalmente assorta»: The dictionary was no mere reference book to her; she read it as a priest his breviary – over and over, page by page, with utter absorption. Così raccontava Martha Dickinson Bianchi (1971, 80; Lanati 2006, 74)  a proposito della sua illustre zia, la poetessa Emily. Anche i traduttori letterari potrebbero dire lo stesso? Forse in passato… ma oggi? Qual è, oggi, il rapporto fra i traduttori letterari e i dizionari? Per tentare di rispondere a questa domanda ho interpellato un campione di cinquanta traduttori o aspiranti traduttori dall’inglese all’italiano (trentaquattro professionisti e sedici studenti: Federica Aceto, Nausikaa Angelotti, Ada Arduini, Susanna Basso, Marina Bogatto, Bianca Bressy, Laura Cangemi, Francesca Caraceni, Guendalina Carbonelli, Daria Cavallini, Luigi Civalleri, Matteo Colombo, Maria De Caro, Eugenia Di Battista, Piernicola D’Ortona, Margherita Emo, Samuela Fedrigo, Giovanni Garbellini, Emanuele Giaccardi, Giovanna Granato, Giulia Grimoldi, Gioia Guerzoni, Eva Kampmann, Marco Lascialfari, Claudia Valeria Letizia, Elena Malanga, Simona Mambrini, Paola Mazzarelli, Marco Menchi, Cristiana Mennella, Anna Mioni , Anna Nadotti, Maristella Notaristefano, Laura Noulian, Federica Oddera, Carla Palmieri, Silvia Pareschi, Daniele Petruccioli, Irene Abigail Piccinini, Camilla Pieretti, Andrea Piola, Laura Prandino, Daniela Marina Rossi, Anna Rusconi, Giovanna Scocchera, Thais Siciliano, Andrea Sirotti, Viktoria Tchernichova, Alessio Vacchi e Isabella Zani), uomini e donne di età diversa e residenti in diverse parti d’Italia, o anche in altri paesi, a cui ho rivolto alcuni quesiti relativi ai loro strumenti di lavoro. Quelle che seguono sono alcune riflessioni frutto delle risposte ricevute.

Rapidi aggiornamenti e professori in pensione

Ovviamente per noi il dizionario non è più di necessità un oggetto di carta, massiccio, pesante e costoso, come quel «Vocabolario» che un secolo e mezzo fa per Emily Dickinson era stato «per parecchi anni […] il mio unico compagno» (Lanati 2006, 74; For several years, my Lexicon – was my only companion, scriveva la poetessa a T.W. Higginson il 25 aprile 1862: Dickinson 1986, 404). Certo, può essere un libro quello che abbiamo fra le mani, ma spesso è invece un cd-rom, un programma installato sul disco rigido del computer, una app per smartphone o tablet, un sito web gratuito o una pagina internet a pagamento. E, poiché di fatto il mestiere del traduttore consiste principalmente nello starsene seduti davanti a uno schermo, non c’è da stupirsi se una percentuale considerevole dei traduttori da me interpellati dichiara di non consultare mai (22%) o quasi mai (24%) o di rado (20%) i dizionari cartacei, preferendo servirsi di una o più delle sempre maggiori opportunità offerte dalla tecnologia. C’è piuttosto da stupirsi del fatto che alcuni, soprattutto fra i professionisti meno giovani, ma non solo, affermino di usarli ancora talvolta (12%), spesso (10%), molto spesso (6%) o addirittura sempre (6%).

E che la “normalità” sia oggi più il formato elettronico di quello cartaceo è dimostrato anche dal fatto che chi dice di prediligere i dizionari digitali non prova alcun bisogno di spiegare il perché, mentre chi si dice ancora affezionato agli strumenti tradizionali si sente in dovere di fornire una spiegazione. I dizionari cartacei, scrive ad esempio Giovanna Granato, «a differenza di quelli elettronici, che vedo come un mezzo di consultazione rapida, forniscono a ogni parola un contesto descrittivo, esemplificativo, etimologico, ecc. che dà un corpo alle parole. Nei dizionari online che conosco io le parole sono piatte, unidimensionali». Paola Mazzarelli la considera più una questione di abitudine: « Siccome ho una ricca biblioteca di strumenti cartacei e ci sono bene abituata (per motivi anagrafici), trovo molto più rapida – e soprattutto molto più attendibile e soddisfacente – la ricerca su questi strumenti, anziché la ricerca in rete». Mentre Anna Nadotti osserva: « La carta è più lenta, mi permette di concentrarmi di più».

Ma voci come queste restano delle eccezioni. I dizionari online (e anche quelli su cd-rom o installabili su disco fisso) hanno evidentemente diversi vantaggi, fra cui quello di poter essere costantemente aggiornati, caratteristica che li fa prediligere soprattutto per la traduzione di testi contemporanei e per ricerche legate al linguaggio colloquiale («Se è pieno di slang uso di più internet, ma comunque lo uso, devo dire, soprattutto quando mi serve una sfumatura meno immediata. Se il testo è di tipo più classico lo uso decisamente di meno», dice ad esempio Elena Malanga), mentre – afferma Daria Cavallini – i dizionari cartacei più ricchi possono essere una scelta migliore per «lessici più o meno cristallizzati (storia dell’arte, botanica e zoologia, araldica ecc.)». E addirittura, per Giovanna Scocchera, i «dizionari cartacei di slang, anche datati» possono servire «per testi non contemporanei su cui serve avere una prospettiva diacronica sulla lingua». Alcuni degli intervistati userebbero volentieri la versione elettronica dei loro dizionari preferiti ma, poiché non la posseggono (o talvolta poiché non è disponibile), ripiegano sulla versione cartacea.

Resta il fatto, per concludere con queste osservazioni preliminari, che, per chi ha cominciato il mestiere quando – come recita il titolo di un libro di Angelo Morino dedicato alle proprie avventure di traduttore-detective (Morino 2009) – «internet non c’era», la rete può anche essere un ambiente non troppo accogliente, poco intimo e poco favorevole a quella rigorosa concentrazione e a quella ostinata ricerca di senso in cui consiste il lavoro del traduttore. Susanna Basso, che confessa di scrivere ancora a mano la prima versione delle sue traduzioni, e che pure afferma che la rete le ha «offerto un modo fantastico per essere più scrupolosa senza la fatica che avrebbe comportato un tempo», lo sintetizza così: «In rete c’è tutto e di più, ma io credo di cercare spesso qualcosa tra le pagine dei volumi che mi hanno fornito le prime risposte tanti anni fa, come lo chiederei a un professore in pensione, per il desiderio di risentire quella voce e quelle esatte parole».

L’Oracolo e l’Arca di Noah

C’è un testo intitolato The Ibis Chrestomathy, inedito ma disponibile sul sito web dell’autore, in cui Amitav Ghosh immagina, e riproduce, una sorta di glossario storico-antropologico di parole che have sailed from eastern waters towards the chilly shores of the English language (sono migrate dalle acque d’Oriente verso le fredde sponde della lingua inglese), e ne attribuisce la paternità a un suo personaggio, quel Neel che in Sea of Poppies (Ghosh 2008) passa dalla condizione di aristocratico zemindar a quella di carcerato e poi deportato. Nell’introduzione a questa sua Crestomazia, Ghosh scrive:

Indeed the epiphany out of which it was born was Neel’s discovery, in the late 1880s, that a complete and authoritative lexicon of the English language was under preparation: this was of course, the Oxford English Dictionary (or the Oracle, as it is invariably referred to in the Chrestomathy). Neel saw at once that the Oracle would provide him with an authoritative almanac against which to judge the accuracy of his predictions. Although he was already then an elderly man, his excitement was such that he immediately began to gather his papers together in preparation for the Oracle’s publication.He was to be disappointed for decades would pass before the Oxford English Dictionary finally made its appearance: all he ever saw of it was a few fascicules. But the years of waiting were by no means wasted; Neel spent them in collating his notes with other glossaries, lexicons and word-lists. The story goes that in the last years of his life his reading consisted of nothing but dictionaries.

[L’epifania da cui essa sbocciò fu la scoperta da parte di Neel, verso il 1890, del fatto che fosse in corso la preparazione di un autorevolissimo dizionario della lingua inglese: si trattava ovviamente dell’Oxford English Dictionary (o Oracolo, come viene invariabilmente chiamato nella Crestomazia). Neel capì subito che l’Oracolo gli avrebbe fornito il termine di paragone di cui abbisognava per valutare l’accuratezza delle sue previsioni sul destino delle parole, e tale fu il suo entusiasmo che, sebbene già anziano, si accinse all’istante a raccogliere le proprie carte in vista della sua pubblicazione. Naturalmente restò deluso, perché sarebbero trascorsi decenni prima che l’Oxford English Dictionary vedesse la luce. Ma quegli anni d’attesa non andarono affatto sprecati: Neel li dedicò a confrontare le proprie note con altri glossari, lessici ed elenchi di parole. E si racconta che, negli ultimi anni della sua vita, non leggesse altro che dizionari – traduzione mia].

Neel si trovava agli albori di quell’epoca trionfale del dizionario cartaceo di cui noi stiamo assistendo al tramonto ma, nel secolo e più intercorso, la funzione “oracolare” dell’OED pare immutata, almeno fra i traduttori. Anche se magari il più delle volte non lo consultiamo (come Neel, che pur tanto lo avrebbe desiderato), il fatto di sapere che l’OED c’è, con i suoi venti volumi nell’edizione del 1989, è una sicurezza, un punto fermo, o meglio un implicito punto di partenza per tutte le ricerche a seguire (ancora una volta, come per Neel).

Non a caso l’Oxford, nelle sue diverse versioni cartacee (a partire dallo Shorter in due volumi) ed elettroniche, è usato dal 65% dei traduttori che ho intervistato. Non è però il più usato in assoluto, titolo che spetta all’altro mostro sacro della lessicografia in lingua inglese, quella che Melville chiamava Noah’s Webster’s Ark («l’Arca di Noah», nella traduzione di Cesare Pavese 1994, 270) e che, come abbiamo visto, Emily Dickinson «leggeva come un prete legge il suo breviario», ovvero l’americano (e orgoglioso di esserlo) Webster, uscito per la prima volta nel 1806 (più di vent’anni prima dell’OED). Anche grazie alle sue dimensioni più maneggevoli (l’edizione più corposa è in tre volumi) e a una versione online gratuita molto ricca (mentre la versione online dell’OED è a pagamento ed è molto costosa), più dell’80% degli intervistati dichiara di usarlo.

Fra i dizionari monolingui inglesi, Oxford e Webster hanno, fra l’uno e l’altro, una preponderanza pressoché assoluta nelle preferenze dei traduttori, seguiti a grande distanza dal Collins (25% degli intervistati) – che ha un buon sito web gratuito e una versione cartacea, il Collins Cobuild, che fornisce definizioni in un linguaggio colloquiale estremamente limpido e accessibile -, dal Longman (10%) e dal Macmillan (8%).

Ma, se ogni bravo traduttore sa che lo strumento giusto per scoprire che cosa significa una parola è il dizionario monolingue, lo strumento principale cui i traduttori ricorrono per ricevere consigli su come tradurre un termine in italiano non può che essere il bilingue. Addentriamoci quindi, in modo più dettagliato, nel panorama dei dizionari inglese-italiano italiano-inglese.

Cinque come le dita di una mano

Al momento, i dizionari bilingui sufficientemente corposi da poter essere utili a un traduttore letterario sono cinque: il Grande dizionario Garzanti Hazon di inglese, il Sansoni Inglese a cura del Centro lessicografico Sansoni sotto la direzione di Vladimiro Macchi, l’Oxford Paravia, il Grande dizionario di inglese Hoepli di Fernando Picchi e il Ragazzini Zanichelli. I traduttori da me interpellati hanno espresso una netta predilezione per il Ragazzini Zanichelli, che il 62% dichiara di usare in modo prevalente. Gli altri quattro si sono attestati più o meno a pari merito: Picchi Hoepli 24%, Hazon Garzanti 22%, Macchi Sansoni 18%, Oxford Paravia 14% (molti hanno espresso più di una preferenza).

Al di là delle caratteristiche specifiche del proprio corpus lessicografico, il Ragazzini ha sicuramente raccolto i frutti di una versatilità elettronica molto precoce, avendo differenziato la propria offerta per le diverse piattaforme già da molti anni e avendo offerto con grande tempestività applicazioni per tablet e telefoni (non a caso viene prediletto soprattutto nei formati elettronici). Inoltre gli aggiornamenti annuali, fin dalla seconda edizione del 1984 (la prima risale al 1967) forniscono una sensazione di up to date che altri dizionari, aggiornati molto più di rado, faticano a trasmettere. Tuttavia anche gli altri dizionari hanno, ciascuno a proprio modo, dei punti di forza.

Il Picchi, col suo formato più voluminoso (l’edizione del 2007 ha 3024 pagine, 260 in più del Ragazzini più recente) e la sua indubbia ricchezza lessicale, trasmette un senso di grande affidabilità, però viene aggiornato più raramente.

L’Hazon è il decano dei dizionari ancora in commercio, risalendo la sua prima edizione al 1961, e ha saputo svecchiarsi inserendo nel corso degli anni continue novità sia grafiche sia contenutistiche, e fornendo anch’esso, fin da subito, aggiornamenti annuali (con una recente interruzione dovuta alle traversie editoriali vissute della Garzanti).

Il Macchi ha avuto dal 1970 al 1989 edizioni gloriose dapprima in quattro e poi in due volumi in grande formato, ineguagliabili quanto a patrimonio di lemmi, edizioni che ancora alcuni traduttori si tengono care. Certamente non sono molto maneggevoli (e non sono più in commercio, ma si trovano in molte biblioteche), e forse per questo la Rizzoli Larousse (la Sansoni fa ora parte del gruppo RCS) ne ha pubblicato nel 2006 una versione aggiornata più breve in un unico volume, che non sembra però aver incontrato grande successo, almeno nella versione cartacea, perché da allora non è più stata ristampata (fa un po’ sorridere che la Rizzoli l’abbia pubblicizzata come un’edizione “arricchita”; evidentemente non molti hanno abboccato).

Resta infine l’Oxford Paravia (ultimo nato, nel 2001), un dizionario aggiornato ogni quattro o cinque anni e non molto amato (ai corsi di traduzione mi è capitato più volte che, al solo sentirlo nominare, qualche studente storcesse il naso o addirittura prorompesse in un “bleah!” di disgusto), soprattutto a causa della sua estrema sinteticità, un dizionario che però a me sembra particolarmente adatto ai traduttori per almeno due motivi: presenta sempre i nomi composti come lemmi a sé stanti, agevolandone di molto il reperimento, e soprattutto fornisce, prima dei traducenti e accanto alle varie marche d’uso, dei collocatori che suggeriscono come tradurre il termine nel caso in cui compaia in relazione a un determinato altro termine, comportandosi insomma un po’ come un dizionario analogico, ovvero uno degli strumenti più preziosi per i traduttori.

Da parte mia ho l’impressione che questi dizionari abbiano ciascuno pregi e difetti diversi, e che talvolta, avendone l’opportunità (ad esempio in una buona biblioteca) sia particolarmente utile poterli consultare tutti. Sono cinque, come le dita di una mano, che ci servono tutte quante.

Un coniglio, un cervo, un dollaro, un pellerossa, un bellimbusto?

Ma proviamo a testare questi cinque dizionari ricorrendo a un caso concreto. Per far questo, ho scelto il lemma buck, una di quelle tante paroline inglesi dalle molte sfumature di significato che rischiano di trarre in inganno anche i traduttori più esperti. Per buck, un termine che può essere un sostantivo, un verbo, o anche, sebbene di rado, un aggettivo o un avverbio, l’Oxford English Dictionary (1989) fornisce 23 omografi, per un totale di 35 accezioni (45 considerando anche le sottoaccezioni); il Webster’s Third New International Dictionary (1986) 12 omografi, per un totale di 31 accezioni (53 considerando anche le sottoaccezioni).

Di fronte a una tale messe di significati, come si comportano i cinque dizionari bilingui, inevitabilmente costretti dalle proprie dimensioni a discriminare? Sfogliamoli: il Grande dizionario Garzanti Hazon di inglese (2010) ha 5 omografi, per un totale di 17 accezioni (l’Hazon 1961, la prima edizione, aveva 11 omografi, ma il totale delle accezioni era sempre 17); il Dizionario inglese-italiano italiano-inglese Sansoni di Vladimiro Macchi (1989, quello in due volumi) ha due soli omografi, poiché accorpa tutti i significati sotto un lemma dedicato al sostantivo e uno dedicato al verbo, ma le accezioni sono ben 25; anche l’Oxford Paravia (2006) ha solo due omografi (uno per il sostantivo e l’aggettivo e uno per il verbo) e 13 accezioni; il Grande dizionario di inglese Hoepli di Fernando Picchi (2007) ha ben 12 omografi e un totale di 21 accezioni; infine il Ragazzini Zanichelli (2012) ha 4 omografi (tre per il sostantivo e uno per il verbo) per 19 accezioni, cui vanno aggiunti alcuni nomi composti e locuzioni fisse (il Ragazzini 1995 aveva 7 omografi per 24 accezioni).

Da questa prima ricognizione possiamo cogliere alcuni segnali. Intanto in questi dizionari la differenza fra omografi e diverse accezioni di uno stesso termine appare in concreto piuttosto labile: buck nel senso di “maschio di animale” e buck nel senso di “dollaro”, ad esempio, sono la stessa parola? Per l’Hazon 2010, il Macchi, l’Oxford Paravia e il Ragazzini 1995 sì; per l’Hazon 1961, il Picchi e il Ragazzini 2012 no (è curioso notare come in questo caso l’Hazon e il Ragazzini siano intervenuti a modificare i propri lemmi in senso diametralmente opposto).

In secondo luogo, il Ragazzini, che – come abbiamo visto – è di gran lunga il dizionario inglese-italiano preferito dai traduttori, non sembra in questo caso il dizionario più ricco (e fra l’altro fra il 1995 e il 2012 appare impoverito: lo conferma anche il numero di righe dedicato a buck, che sono passate da 55 a 46). E se, com’era prevedibile, il più ricco fra i cinque dizionari risulta il Macchi in due volumi, a seguirlo è il Picchi, e dopo vengono Zanichelli, Hazon e Oxford Paravia.

Evidentemente, un dizionario più aggiornato non equivale necessariamente a un dizionario più ricco: alcune accezioni desuete o semplicemente più rare tendono col passare del tempo a sparire dai dizionari (ma non necessariamente dalla letteratura, tanto più che non sempre un traduttore lavora su un testo appena uscito) e non sempre vengono sostituite con accezioni più contemporanee. È il caso, per buck, dei significati “giovanotto forzuto”, “cavalletto per segare la legna” e “attrezzo ginnico su cui si compiono volteggi”, e, per to buck, di “fare il gradasso”, “caricare a testa bassa” e “segare tronchi d’albero”, tutte accezioni assenti sia dall’Hazon 2010 sia dal Ragazzini 2012.

Insomma, se si desidera farsi un’idea il più possibile completa del significato di buck bisogna rivolgersi innanzitutto ai dizionari monolingui, perché troppe sono le accezioni che restano escluse dai dizionari inglese-italiano, che spesso fra l’altro non concordano fra loro. Ad esempio, limitandosi alla prima accezione del sostantivo, buck è il maschio di alcuni animali, sì, ma di quali? L’unico su cui tutt’e cinque concordano è il coniglio (o lepre). Hazon, Macchi, Picchi e Ragazzini (ma non l’Oxford Paravia) nominano innanzitutto il cervo; Hazon, Macchi, Oxford Paravia e Ragazzini 1995 (ma non il Picchi e il Ragazzini 2012) indicano il caprone, ma poi c’è l’antilope (Hazon, Oxford Paravia, Ragazzini 2012), la renna (Hazon e Oxford Paravia) e il canguro (Oxford Paravia e Ragazzini 2012), quest’ultimo peraltro assente da quasi tutti i dizionari monolingui inglesi (fa eccezione l’OED, anche nella versione Shorter). Esiste però nei monolingui anche un altro significato che nessun dizionario bilingue fornisce, e cioè “maschio del salmone o di altri pesci simili”.

Altri significati presenti in molti dizionari monolingui inglesi ma non in quelli bilingui da me esaminati sono buck e to buck come voci dialettali britanniche che si riferiscono al lavaggio dei panni con la lisciva e buck come equivalente di buckskin, “pelle di cervo” – accezione da cui fra l’altro deriva il senso colloquiale di “dollaro”, poiché le buckskin erano utilizzate sulla frontiera statunitense come articolo di scambio nel commercio fra bianchi e indiani (anch’essi peraltro talvolta chiamati bucks).

Dunque, se, pur senza arrivare alle 35 accezioni dell’OED, si vuole andare al di là del coniglio, del damerino e del dollaro (le uniche tre accezioni del sostantivo condivise da tutt’e cinque i bilingui), non bisogna accontentarsi del primo dizionario che ci si trova sottomano. Anche perché chi traduce dall’inglese sa che di bucks (per non parlare di molti altri termini ancora più poliedrici) in letteratura se ne incontrano parecchi.

Fra il mandriano e il grano saraceno

Effettuiamo ora un altro test: quanti lemmi (parole o locuzioni fisse) che cominciano per buck-, da buckaroo e buckwheat, compaiono in ciascun dizionario a seguire il lemma principale? (Nell’OED 1989 sono 84, nel Merriam-Webster 1986 sono 128.) Il risultato è il seguente: Macchi 1989: 51 lemmi (in parte graficamente accorpati, ma distinti dal punto di vista semantico); Picchi 2007: 37 lemmi; Oxford Paravia 2006: 37 lemmi (cui va aggiunto un riquadro di approfondimento su Buckingham Palace); Hazon 2010: 31 lemmi (nell’Hazon 1961 erano 19); Ragazzini 2012: 26 lemmi (nel Ragazzini 1995 erano 28), cui vanno aggiunte 5 locuzioni interne al lemma bucket. Se il Macchi torna a risultare primo per quantità di contenuti, questa volta il Picchi è a pari merito con l’Oxford Paravia, seguito dall’Hazon e all’ultimo posto dal Ragazzini (svantaggiato in questo caso dal fatto di non dedicare quasi mai dei lemmi ai nomi composti).

C’è qui anzitutto da notare che, come ho accennato, l’Oxford Paravia privilegia la quantità di lemmi rispetto alla quantità di significati (e di traducenti) forniti. In altre parole, sull’Oxford Paravia è più probabile trovare una parola o una locuzione, mentre è meno probabile trovare l’accezione corretta (abbiamo visto ad esempio che per buck non viene indicato “maschio di cervo”, un significato piuttosto comune). Anche il Picchi presenta come lemmi a se stanti diverse parole composte, ma fornisce anche molte accezioni (per bucket, ad esempio, ne dà 7, mentre l’Oxford Paravia ne dà solo 2).

Vediamo quali lemmi sono propri di ciascun dizionario. L’Hazon e il Picchi non ne hanno nessuno che non sia condiviso da altri. Il Ragazzini ha bucking, “lo sgroppare (di un equino)”, mentre l’Oxford Paravia, che non ha bucking, ha però bucking bronco, “cavallo da rodeo” o “toro meccanico”, e inoltre l’espressione colloquiale Buck House, “residenza della regina a Londra”, e l’australiano buck’s night o buck’s party, “addio al celibato”. Il Macchi invece ha un gran numero di parole composte altrove introvabili: buck-and-wing, buckberry, bucketbag, bucketgrab, bucketwheel, buckfever, buck-handled, buck-hound, buckling test, buck’s beard, buckslip, buckstick, bucktail, buckthistle e buckweed. Salta subito all’occhio come l’Oxford Paravia privilegi le locuzioni gergali contemporanee e mostri una forte attenzione alle particolarità regionali dell’inglese, mentre la ricchezza lessicale del Macchi deriva in massima parte da lessici specialistici, in questo caso il linguaggio tecnico e industriale, la botanica e la zoologia, la terminologia venatoria.

A controprova, possiamo verificare quanti lemmi, a partire da buccaneer, precedano buck nei nostri cinque dizionari: 16 nel Macchi, 10 nel Picchi, 7 nell’Hazon, 6 nell’Oxford Paravia, 5 nel Ragazzini. Gli unici lemmi condivisi da tutti sono buccaneer, to buccaneer e Bucharest. Il Picchi ha come propri buccaro, con rimando a boccaro (equivalente all’italiano “bucchero”) e bucentaur, “bucintoro”, entrambi termini alquanto ricercati e afferenti più alla cultura mediterranea che a quella anglosassone. Il Macchi ha gli altrettanto preziosi e mediterranei buccina e buccinal, gli anatomici buccinator e buccinatory, gli storico-religiosi Buchmanism e Buchmanite e il farmacologico buchu.

Dal bollino premio alla sala contrattazioni

Ma oggi i traduttori cercherebbero ancora bucentaur o Buchmanism su un dizionario, cartaceo o meno? Probabilmente no. Probabilmente li cercherebbero su Google, o su Wikipedia passando poi dalla pagina inglese a quella italiana, e questa è forse una delle ragioni per cui dizionari aggiornatissimi come l’Hazon e il Ragazzini non si prendono la briga di riportarli. E poi ogni dizionario ha le sue priorità, ed evidentemente la galea dei dogi e il movimento per il riarmo morale non sono fra quelle di Hazon e Ragazzini.

Proviamo allora a spostarci in tutt’altre aree semantiche, cercando sui nostri cinque dizionari trading e i relativi nomi composti. Ecco il risultato: il Macchi 1989, che qui probabilmente sconta la sua veneranda età, fornisce solo 7 locuzioni; l’Hazon 2010 ha un unico lemma con 2 accezioni e 10 locuzioni; l’Oxford Paravia 2006 ha 14 lemmi, ognuno, com’è nel suo stile, dedicato a una singola locuzione; il Picchi 2007 ha un unico lemma, con 3 accezioni e ben 32 locuzioni; e il Ragazzini 2012 non è da meno, con un lemma che conta 6 accezioni e 28 locuzioni (e in questo caso la voce risulta più ricca di quella del 1995, che forniva 5 accezioni e 23 locuzioni).

Questa volta, trattandosi di un termine di carattere economico ricco di significati legati al contemporaneo mercato finanziario, il fatto che il Ragazzini sia costantemente aggiornato ha una ricaduta indubbiamente positiva. Ma vediamo le locuzioni proprie a ciascun dizionario: l’Hazon non ne ha nessuna; il Macchi ha solo trading area “area commerciale”; il Picchi ha trading association “associazione di categoria”, trading bloc  “blocco commerciale”, trading difference “differenza di negoziazione”, trading enterprise/firm “impresa mercantile/commerciale”, trading port “porto commerciale/mercantile”, trading surplus “eccedenza/avanzo d’esercizio”, trading town “città commerciale” e trading value “volume delle contrattazioni / degli scambi”; il Ragazzini ha a trading center “un centro commerciale”, trading cheque “buono d’acquisto”, trading currency “valuta libera (o di scambio)”, trading results “risultati d’esercizio”, trading standards “livelli (di bontà) della commercializzazione”. L’Oxford Paravia costituisce un caso a sé, in quanto, pur riportando relativamente poche locuzioni, ne fornisce due ignorate dagli altri che ancora una volta sono indice della caratteristica attenzione che questo dizionario riserva ai termini culturalmente specifici – Trading Standards Department, “direzione regionale dell’associazione per la difesa dei consumatori”, e il relativo Trading Standards Officer – senonché, con altrettanto caratteristica sbrigatività, l’Oxford Paravia in questo caso non precisa a quale contesto culturale (la Gran Bretagna) queste espressioni si riferiscano.

Le uniche locuzioni comuni a tutti, infine, sono trading company “compagnia commerciale”, trading estate “zona industriale” e trading stamp “bollino premio”. Mi pare insomma che si confermi la complementarità fra le diverse vocazioni dei nostri cinque dizionari. Se, ad esempio, cercare buck sul Ragazzini 2012 non è necessariamente la scelta migliore (sia il Macchi 1989 sia il Picchi 2007 forniscono più accezioni), nel caso di trading, il Ragazzini risulta invece, insieme al Picchi, il dizionario più completo.

Si potrebbe continuare con ulteriori esempi, che sicuramente amplierebbero il campo e renderebbero ancora più complesso e articolato il giudizio, ma poiché, come abbiamo visto, la consultazione dei dizionari cartacei non è al momento la pratica più diffusa fra i traduttori, mi sembra ora opportuno collegarsi alla rete e cominciare la navigazione.

I dieci porti dove attraccano più navi

Premettendo che, per propria natura, la rete è in continuo rapidissimo liquido mutamento e che perciò qualunque considerazione la riguardi rischia di risultare superata prima ancora di venire formulata, tentiamo una panoramica degli strumenti utili ai traduttori presenti in rete (limitandoci a quelli ad accesso gratuito).

Sul web, nel bene e nel male, tutto comincia con Google, e non a caso i siti più citati dai traduttori che ho intervistato sono spesso quelli che compaiono per primi su Google se vi si cerca il significato di una parola (d’altronde, Google cita per primi i siti più visitati, perciò fra le due cose si ingenera un circolo, virtuoso o vizioso che sia). Google è l’unico motore di ricerca nominato dagli intervistati; nemmeno Bing, il motore di ricerca della Microsoft nato nel 2009, viene preso in considerazione, e del resto ci sarà un motivo se al momento to google esiste e to bing no.

Google ovviamente non viene tanto usato per cercare definizioni o traduzioni, quanto piuttosto, come scrive Federica Aceto, per «capire e contestualizzare riferimenti culturali specifici o termini gergali poco conosciuti», oppure, come spiega Claudia Valeria Letizia, «con stringhe di parole, per capire se una parola o una frase che ho in mente è italiana o se c’è interferenza, per controllare la frequenza di qualche parola e altro del genere». E poi Google non è solo un motore di ricerca ma un intero sistema di siti, alcuni dei quali, come Books.Google o Maps.Google, particolarmente frequentati dai traduttori.

Ancora più avanti di Google nella top ten dei siti più visitati c’è però Wikipedia, che, se per sua costituzione è molto più discontinua delle enciclopedie online derivate da equivalenti cartacei (ad esempio la Britannica o la Treccani), d’altro canto affronta uno spettro di temi molto più ampio e, soprattutto, ha per un traduttore l’ineguagliabile vantaggio di essere un’enciclopedia multilingue e di consentire quindi, nel nostro caso, il passaggio dalle pagine in inglese a quelle in italiano, fungendo in qualche modo da dizionario bilingue (anche se talvolta le pagine in italiano non sono, a propria volta, che una traduzione, spesso mal fatta, di quelle in inglese). Pur affermando di usarla, molti degli intervistati precisano che alla sua consultazione fanno seguire quella di altri siti più specialistici. Anna Rusconi specifica anzi che«mi aiuta a dare una prima scremata, ma va presa con le pinzissime».

Wikipedia compare quasi sempre nelle primissime posizioni quando si cerca un termine su Google; e anche questo contribuisce a spiegare perché venga usata molto più di altre enciclopedie considerate più affidabili (ma come ho già detto è un circolo, virtuoso o vizioso). Un discorso simile vale probabilmente per Wordreference (anch’esso spesso ai primi posti nei suggerimenti di Google) che, nominato da più del 50% degli intervistati, è di sicuro, fra i dizionari multilingui online, il più usato. Wordreference fornisce due dizionari inglese-italiano: uno specifico per il web e in continuo aggiornamento; e una versione elettronica del Collins Italian Dictionary; e ha inoltre un forum che diversi traduttori trovano molto utile.

 Il più frequentato dai traduttori fra i siti derivanti da opere preesistenti è Treccani.it, citato da più del 40% degli intervistati, a controprova, fra l’altro, del fatto che le opere di consultazione in lingua italiana sono uno degli strumenti più usati dai traduttori, i quali del resto, oltre e forse più che lettori dell’inglese, sono scrittori dell’italiano. Il portale Treccani.it offre l’accesso ad almeno tre risorse estremamente utili – l’enciclopedia, il vocabolario e il dizionario dei sinonimi e dei contrari – e ha la caratteristica di offrire gratuitamente tutti i contenuti (contenuti per altro estremamente ricchi e tratti in modo pressoché integrale dalle opere cartacee di riferimento).

Fra i siti di slang, il più citato è Urban Dictionary, che raccoglie apparentemente senza filtro alcuno definizioni fornite dagli utenti, e ha i pregi e difetti che derivano da questa scelta: tantissime parole e tantissime accezioni ma anche tantissima spazzatura (e una spropositata predominanza di accezioni fortemente volgari). I traduttori che lo usano ne sono d’altronde consapevoli, così che ad esempio Ada Arduini precisa: «Ma è poco attendibile», e Isabella Zani consiglia di usarlo «con le dovute cautele».

Wikipedia, Google, Wordreference, Treccani e Urban Dictionary risultano decisamente i siti predominanti (sono citati da una percentuale che va dal 65% al 35% degli intervistati). Seguono altri cinque siti citati da una percentuale che va dal 20% al 10% degli intervistati: Onelook, Books.Google, ProZ, The Free Dictionary e Homolaicus.

Onelook è un portale che permette di accedere a centinaia di dizionari monolingui inglesi e, sebbene ne esistano diversi altri simili (si veda la sitografia in calce all’articolo), pare essersi conquistato una sorta di monopolio nel campo. Certo l’home page che promette 19.632.921 parole in 1061 dizionari risulta attraente, così come la grafica, molto seria ed essenziale. L’unico problema è che ben di rado un traduttore ha il tempo di controllare una parola su centinaia (o anche solo decine) di dizionari, per cui le due principali ragioni per consultare Onelook sono o farsi un’idea dei dizionari disponibili online, per poi scegliere i propri favoriti, oppure cercare parole (o accezioni) molto rare che non si trovano sui dizionari consultati abitualmente.

Books.Google l’ho già nominato. È utilissimo, ovviamente, per i libri di cui permette la consultazione (come pure Amazon, del resto), e può essere integrato da repertori di e-book gratuiti come Internet Archive, Project Gutenberg o The Free Library.

Il portale ProZ è uno dei pochissimi siti dedicati specificamente ai traduttori che i professionisti da me intervistati dichiarino di usare (qualcuno cita anche la mailing list Qwerty o altre mailing list o blog tenuti da traduttori). Oltre a un gran numero di risorse legate al mercato del lavoro globale della traduzione, ProZ offre un forum e un repertorio di glossari multilingui.

The Free Dictionary è il più citato fra i dizionari monolingui inglesi online (ma funge anche da portale multilingue, e forse questo è uno dei segreti del suo successo). Il corpus del monolingue è tratto da The American Heritage Dictionary of the English Language, dal Collins English Dictionary e dal Random House Kernerman Webster’s College Dictionary, cui si aggiungono alcuni thesaurus e dizionari specialistici. Inoltre, in calce alle definizioni derivate da tutti questi dizionari, vengono forniti i traducenti in varie lingue, fra cui l’italiano (qui il dizionario usato è il Collins Italian Dictionary, lo stesso consultabile su Wordreference). Si tratta sicuramente di un’ottima via di mezzo fra portali come Onelook e singoli dizionari.

 Homolaicus infine, che di per sé è un sito dedicato all’«umanesimo laico e il socialismo democratico» (non esattamente il posto in cui ci si aspetterebbe di vedere approdare un traduttore), ha una pagina piuttosto frequentata dedicata ai sinonimi e ai contrari. Laura Cangemi spiega che «proprio perché non precisissimo, a volte serve a trovare quello che non è esattamente un sinonimo ma la parola che si cercava», funzione svolta solitamente (come ho già accennato) dai dizionari analogici o delle collocazioni, il più apprezzato dei quali è al momento sicuramente il Dizionario analogico della lingua italiana di Donata Feroldi e Elena dal Pra (cartaceo ed elettronico) pubblicato da Zanichelli nel 2011.

Va infine segnalato che gli apparentemente onnipresenti social network paiono rivestire un ruolo molto marginale nella vita professionale dei traduttori. Alla domanda «Usi i social network per il tuo lavoro?», più del 50% risponde con un secco «No», il 30% circa afferma di usarli a più generali scopi informativi o di condivisione ma «non per questioni linguistiche» (Anna Mioni), e solo il restante 20% dichiara che sono parte integrante del mestiere. Alcuni precisano di giovarsi piuttosto di quello che Laura Noulian definisce «personal network: una rete di amici e di amici di amici cui rivolgo le domande più varie».

In cerca di lidi meno frequentati

Ho detto che in rete tutto comincia con Google. Tende a essere così, ma non è inevitabile: è più che altro questione di abitudine. Chi si fosse stufato di arricchire Google fornendogli gratuitamente informazioni personali da commercializzare può sempre ricorrere ad altri motori di ricerca. E anche volendo evitare Bing (per non fare lo stesso favore alla Microsoft), restano delle alternative, ad esempio DuckDuckGo.com, che garantisce di non tracciare gli utenti e di non “imbollarli” (ovverosia costruire un profilo dell’utente in base a cui decidere quali pagine mostrargli per prime, come fanno Google e Bing).

Quanto alle enciclopedie, se si vuole provare ad allargare lo sguardo oltre Wikipedia, si può partire da portali come Encyclo.co.uk o Encyclopedia.com, che attingono da centinaia di fonti diverse, anche molto autorevoli e soprattutto della più diversa natura. Oppure si può puntare direttamente sul sito dell’Encyclopædia Britannica, Britannica.com, o, fra le italiane, oltre alla Treccani, sulla De Agostini accessibile da Sapere.it o sulla Zanichelli accessibile da Repubblica.it

Come abbiamo visto, Onelook ha un monopolio pressoché assoluto fra i portali che permettono di accedere a grandi quantità di altri dizionari, ma ne esistono altri ugualmente validi, fra cui mi sembra indispensabile segnalare almeno Omnilexica, che, a differenza di Onelook, non si limita a segnalare link, ma per ogni termine ricercato fornisce una pagina strutturata in categorie (definition, phrases, people, characters, films, places ecc.) già di per sé ricchissima di informazioni, cui seguono i libri consultabili su Books.Google in cui la parola è presente, i link ai dizionari, foto, video e altro ancora. Insomma, si tratta di un portale che mette insieme, in modo ordinato ed economico, le principali funzioni di Google, Wikipedia e Onelook, permettendo di risparmiare tempo e di concentrare la mira.

Uno strumento meno ricco ma altrettanto innovativo è BabelNet.org, che si presenta, in modo direi conforme al vero, come a very large multilingual encyclopedic dictionary and semantic network. Realizzato da un gruppo di lavoro italiano coordinato da un professore della Sapienza di Roma, Roberto Navigli, BabelNet assembla dati ricavati da WordNet, Open Multilingual WordNet, Wikipedia e OmegaWiki, fornendo per ogni termine, oltre ad alcune definizioni e rimandi enciclopedici e ai traducenti in diverse lingue (fra cui ovviamente l’italiano), anche alcuni esempi d’uso, e appunto una rete semantica basata sul sistema delle sinonimie. Un modo per rivolgere uno sguardo diverso, e spesso sorprendentemente utile, alle parole.

Venendo ai dizionari monolingui inglesi, a The Free Dictionary si può affiancare Dictionary.com, che funziona in modo molto simile permettendo anch’esso di consultare diversi dizionari al contempo (fra cui Random House Dictionary, Collins English Dictionary, Online Etymology Dictionary, Easton’s 1897 Bible Dictionary, The American Heritage New Dictionary of Cultural Literacy, The American Heritage Dictionary of Idioms, Dictionary of American Slang and Colloquial Expressions ed Encyclopedia Britannica), oppure si possono visitare le versioni online di dizionari non presenti su nessuno di questi due siti, a partire da Merriam-Webster.com e Oxforddictionaries.com.

 Fra i dizionari di slang, Urban è probabilmente il più copioso ma, se si cerca qualcosa di più simile a un vero dizionario e meno a una sfilata di carnevale, si può ricorrere all’ottimo Onlineslangdictionary.com, o a Peevish.co.uk, mentre per le espressioni idiomatiche un’utile risorsa è Phrases.org.uk.

Premesso che, volendo, il Collins Italian Dictionary si può consultare anche sul sito Collinsdictionary.com (oltre che su The Free Dictionary, come abbiamo visto), Wordreference resta forse fra i dizionari multilingui il migliore, però ne esistono diversi altri. Alcuni, come it.Dicios.com, Dictionarist.com e Ultralingua.com (o Woxicon.com, i due sono praticamente identici), si limitano ad allineare una sfilza di traducenti in modo estremamente sommario e non molto ordinato, e mi sembrano perciò da evitare. Altri (ad esempio bab.la) presentano lemmi molto scarni ma li corredano con numerosi esempi tratti da fonti reali. Restano i dizionari bilingui tratti da fonti preesistenti, su cui torneremo nel capitolo successivo.

Uno degli incomparabili vantaggi offerti dalla rete è sicuramente quello di poter consultare (ovviamente cercandoli attraverso la parola chiave che interessa) repertori di frasi tradotte affiancati alla versione originale. Non a caso stanno nascendo diversi siti che forniscono questo servizio, fra cui al momento mi sembra degno di nota soprattutto Linguee.it, che trae i suoi numerosissimi esempi da siti di diversa natura che abbiano versioni in più lingue.

Infine segnalerei il sito di InterActive Terminology for Europe, di particolare utilità per i linguaggi settoriali, che per tutte le lingue dell’Unione Europea fornisce, in modo schematico ma efficace, i traducenti del termine ricercato raggruppandoli per ambiti semantici. Il sito è evidentemente concepito su misura per chi lavora con le istituzioni comunitarie, ma spesso può essere di aiuto anche a un traduttore letterario.

Le cinque dita dell’altra mano

Torniamo ora a fare rotta verso i nostri cinque dizionari bilingui, cercando di ritrovarne le tracce in rete, e valutandone la conformità o meno agli originali cartacei con gli stessi test usati in precedenza.

L’Hazon si può consultare gratuitamente in formato elettronico sia sul portale Sapere.it sia sul sito della Garzanti Linguistica. Mentre la voce trading vi risulta identica a quella dell’Hazon 2010 cartaceo, i lemmi dedicati a buck sono di meno (3 invece di 6) e con meno accezioni. Per accedere ai «contenuti aggiuntivi» è necessario registrarsi gratuitamente (per un mese) acconsentendo all’utilizzo dei propri dati a fini promozionali.

Il Macchi è disponibile sul sito del «Corriere della Sera» e su Dizionario-inglese.org (che pure si presenta come un dizionario wiki, ma di fatto non pare lo sia), nella versione, più sintetica, del 2006. Anche in questo caso la voce trading risulta uguale a quella della versione maggiore del 1989, mentre la voce buck è un po’ più breve (17 accezioni invece di 25) ma comunque ricca.

L’Oxford Paravia ha un sito dedicato (Oxfordparavia.it) che però non fornisce la versione maggiore del dizionario ma quella concise. E la differenza si vede: nella voce trading non compaiono i tre esempi d’uso presenti sul cartaceo, mentre per buck le accezioni sono 10 invece di 13.

Il Picchi è disponibile sul sito Repubblica.it e le voci sono miracolosamente identiche a quelle della versione cartacea maggiore.

Il Ragazzini infine è fornito dalla Zanichelli in molteplici versioni elettroniche, ma solo a pagamento.

Per concludere

Le fila, inevitabilmente, si possono tirare solo in modo provvisorio, visto che, come ho accennato, in questo campo la situazione è in continuo, ondoso mutamento, mentre soo consapevole di aver tralasciato una fetta consistente del patrimonio di strumenti disponibili sia in formato cartaceo sia in formato elettronico (a parziale integrazione rimando alla bibliografia e alla sitografia in calce all’articolo). Ma mi sembra si possa dire che oggi il traduttore letterario dall’inglese ha a disposizione, come mai in precedenza, un’enorme mole di strumenti monolingui inglesi e una quantità considerevole di strumenti bilingui. Tant’è che quasi tutti i traduttori intervistati dichiarano di giudicare «più positivamente che negativamente», e spesso anche «solo positivamente», i cambiamenti apportati dalle nuove tecnologie al mestiere del traduttore. Il problema è però gestire questo profluvio di risorse in modo efficiente e non dispersivo. Il web, poiché da esso ormai non si può prescindere senza condannarsi a una minorità invalidante (come scrive Susanna Basso nella sua risposta: «Non ci si può sfinire gli occhi a furia di candele, quando c’è un interruttore della luce. Si DEVE accendere la luce […] ora è tutto così immediato che non mettere in rete anche quello che credi di sapere, anche l’ovvio, non avrebbe senso»), è un oceano in cui è molto facile andare alla deriva, ma è anche un oceano solcato da correnti impetuose che tendono a trascinare sempre in determinate direzioni e spesso a illuderci soltanto di aver trovato quel che cercavamo (scrive ad esempio Ada Arduini: «Mi accorgo che tendo a fermarmi sulla prima soluzione disponibile, mentre tutti sappiamo che internet è uno strumento utile ma ben lontano dall’essere preciso e attendibile al 100%»).

Nonostante le apparenze, è molto difficile muoversi in rete su rotte tracciate in modo libero e seguite in modo indipendente. Internet tende a spingerci ad abdicare alla nostra logica, alla nostra intelligenza, per abbandonarci spesso inconsapevolmente e un po’ stolidamente alla sua. Tante volte apriamo il nostro browser con una certa intenzione, ma poi le correnti predominanti della rete ci trascinano dove vogliono loro («A volte la rete ti cattura e ti conduce per strade che nulla hanno a che vedere con la ricerca iniziale che ti prefiggevi. La velocizzazione può rovesciarsi nel suo contrario», scrive Anna Nadotti) e se questo talvolta ci regala utili sorprese, più di frequente ci distrae e basta, e ci fa perdere tempo prezioso. Ed è prezioso davvero, visto che molti fra gli intervistati lamentano il diffondersi a macchia d’olio di quello che Daria Cavallini definisce «l’elemento frenesia», mentre il tempo, come spiega bene Daniele Petruccioli, «non serve solo a fare ricerche, serve anche a far decantare la lingua, a trovare soluzioni creative, a dare il giusto spessore al lavoro».

Considerato che l’attenzione e la concentrazione mi sembrano i presupposti indispensabili per una buona traduzione, e alla luce delle testimonianze che ho raccolto dai traduttori intervistati (un solo esempio: «Quando mi capita di lavorare senza connessione mi sembra di calarmi di più nel testo e mi accorgo di quanto tempo perdo a cercare riscontri su internet», scrive Claudia Valeria Letizia), mi sembra opportuno mettere in atto strategie che ci aiutino a non andare alla deriva, magari prendendoci alcuni momenti per esplorare risorse nuove ma poi scegliendo specifici punti d’approdo dove riparare nella maggior parte dei casi. Il web incoraggia inevitabilmente continui spostamenti da un nodo all’altro della rete (su internet si naviga, non si getta l’ancora), mentre la traduzione ha bisogno anche, almeno a tratti, di un lento indugiare. Come scrive Giovanni Garbellini, «Il lavoro manuale sul cartaceo resta indispensabile per “rallentare” e dedicare il giusto tempo al testo».

Ecco, carta o non carta, il centro del discorso mi sembra proprio qui. Gli strumenti sono strumenti, sono un mezzo e non un fine. Il fine è il testo. Perché il lavoro del traduttore consiste innanzitutto nel costruire una relazione il più intima, complessa e profonda possibile con il testo originale, «giorno dopo giorno, pagina dopo pagina, totalmente assorta», come Emily Dickinson quando leggeva il suo Webster, e nel mettere a frutto questa relazione nella scrittura di un nuovo testo in un’altra lingua. Ben venga tutto ciò che ci aiuta a far questo.

Bibliografia

Lanati 2006: Emily Dickinson, Lettere 1845-1886, a cura di Barbara Lanati, Torino, Einaudi, 2006

Dickinson 1986: The Letters of Emily Dickinson, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1986, p. 404

Dickinson Bianchi 1971: Martha Dickinson Bianchi, The Life and Letters of Emily Dickinson, New York, Biblo & Tannen

Ghosh 2008: Amitav Ghosh, Sea of Poppies, London, John Murray (trad. it. di Anna Nadotti e Norman Gobetti, Mare di papaveri, Vicenza, Neri Pozza, 2008)

Pavese 1994: Herman Melville, Moby Dick o la Balena, trad. di Cesare Pavese, Milano, Adelphi, 1994

Morino 2009: Angelo Morino, Quando Internet non c’era, Palermo, Sellerio