di Simone Costagli
La vita
1902 Nasce ad Aci Trezza (Catania) da Luigi e Benvenuta de Martino. Nel 1908 perde i genitori nel terremoto di Messina. Si trasferisce a Roma, dove comincia a frequentare il ginnasio, che presto abbandona per motivi economici e per cominciare a lavorare. Al periodo del ginnasio si deve far risalire tuttavia l’incontro con Luigi Chiarini, che fu suo compagno di classe, e che molto più tardi (negli anni trenta) lo chiamò al Centro nazionale di cinematografia. Fondamentali per la sua formazione intellettuale sono gli incontri con altre figure che lo avvicinano all’ambiente della sinistra anarchica e comunista romana: Paolo Flores, Bonaventura Grassi, Vinicio Pallavicini, con i quali successivamente creerà il movimento d’avanguardia dell’Immaginismo.
1923 Dirige la rivista «La Bilancia»e la relativa casa editrice.
1927 Fonda, insieme gli altri “immaginisti”, la rivista ufficiale del movimento «La ruota dentata», firmando il manifesto Una nuova estetica dell’arte nuova. Nel frattempo collabora in modo molto intenso con il Teatro degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia, che mette scena i suoi Inferno (scritto insieme con Bonaventura Grassi), Il bolide, Le fatiche di Nozhatu (insieme con Diotima, pseudonimo di Amelia della Pergola, prima moglie di Massimo Bontempelli). Per gli Indipendenti traduce Voulez-vous jouer avec moâ? (1923, di cui in italiano resta invariato il titolo) e Malbrough s’en va-t-en guerre (1924: Malbourough va alla guerra) di Marcel Achard e L’Étrange épouse du professeur Stierbecke di Albert Jean (1925: La strana moglie del professor Steinecke). Inizia la collaborazione con la rivista di Alessandro Blasetti «Lo spettacolo d’Italia», con articoli che dimostrano il suo interesse per l’espressionismo tedesco.
1928 Il Teatro degli Indipendenti rappresenta una sua nuova opera teatrale, Scalari e vettori.
1930 Traduce Der Marquis von Keith (1901: Il marchese di Keith) di Frank Wedekind per la casa editrice A. Formica di Torino, nella collana «Il teatro moderno».
1931 Presso Gino Carabba di Lanciano pubblica il suo primo romanzo, Luce fredda. Allontanandosi dalle posizioni “immaginiste”, il romanzo si colloca idealmente sulla scia di Moravia e degli Indifferenti, uscito due anni prima, e rappresenta un punto centrale nello sviluppo di una poetica letteraria realista in quegli anni in Italia. Chiamato da Emilio Cecchi, diventa collaboratore della casa di produzione cinematografica Cines. Da questo momento l’attività teorica e critica di Barbaro si concentra quasi esclusivamente sul cinema, mettendo in secondo piano quella letteraria. Su invito dello stesso Cecchi traduce Film als Kunst (Film come arte) di Rudolf Arnheim, appena uscito in Germania, per esigenze prima tecniche e di servizio (la traduzione rimarrà in un primo momento solo ciclostilata e sarà pubblicata solo nel 1938 nella rivista «Bianco e nero»), e successivamente diventerà testo di studio al Centro sperimentale di cinematografia. Traduce inoltre, ancora per Carabba, Rokovye Jaica (1925: Le uova fatali) di Michail Bulgakov, e pubblica presso le Edizioni d’Italia di Roma la raccolta di novelle L’essenza del can barbone.
1932 Ancora per le Edizioni d’Italia, sotto il titolo Il soggetto cinematografico, pubblica anche una raccolta di saggi del regista e teorico cinematografico sovietico Vsevolov Pudovkin da lui tradotti e con una sua prefazione. Il libro avrà un’importanza fondamentale nello sviluppo della concezione di realismo cinematografico nell’Italia tra gli anni trenta e quaranta. Comincia la sua collaborazione con la rivista «Occidente. Sintesi delle letterature» diretta da Armando Ghelardini, cui collaborano anche, tra gli altri, Massimo Bontempelli, Enrico Rocca, Alberto Spaini, Pietro Solari e Tommaso Landolfi.
1933 Sempre per Carabba, traduce Glückliche Menschen di Hermann Kesten (1931: Gente felice). Per la Cines realizza il cortometraggio documentario Cantieri dell’Adriatico, nel quale, in una rapida sequenza, compare la scritta «Viva Lenin», sfuggita evidentemente all’occhio della censura.
1935 Luigi Chiarini lo chiama come docente di teoria al neonato Centro sperimentale di cinematografia di Roma. Collabora con Chiarini alla nascita della rivista del Centro «Bianco e nero».
1934 Esce, nella collana «Scrittori di tutto il mondo» del Corbaccio, diretta da Gian Dàuli, Il ciarlatano, la sua traduzione di Der Scharlatan (1932) di Hermann Kesten.
1938 Dirige il film L’ultima nemica.
1945 Viene nominato commissario del Centro sperimentale di cinematografia. Ne manterrà la direzione fino al 1948, collaborando contemporaneamente al quotidiano «l’Unità» e al settimanale «Vie nuove», organi del partito comunista.
1946 Esce, nella collana «Intermezzi del secolo» della casa editrice O.E.T. di Roma, il volume Nuovi saggi di psicoanalisi in cui sono raccolte le sue traduzioni dei saggi Jenseits des Lustprinzips (1920: Al di là del principio di piacere), Massenpsychologie und Ich-Analyse (1921: Psicologia delle masse e analisi dell’Io), Das Ich und das Es (1923: Rivelazione dell’inconscio: l’Io e l’Es) di Sigmund Freud.
1948 Per motivi politici viene allontanato dalla direzione del CSC. Si trasferisce in Polonia ove diviene consulente della Scuola superiore di cinematografia di Łódź.
1950 Fonda, insieme a Edoardo Bruno, la rivista «Filmcritica», alla quale collabora fino alla morte.
1959 Muore a Roma.
1973 Esce postumo per gli Editori riuniti di Roma il libro Il cinema tedesco, a cui Barbaro stava lavorando prima di morire. Scritto in polemica con le tesi espresse da Siegfried Kracauer in From Caligari to Hitler (1947: la traduzione italiana completa, Da Caligari a Hitler, è uscita solo nel 2001, a cura di Leonardo Quaresima, dalla romana Lindau), è il primo studio organico originale di un critico italiano sul cinema tedesco.
Umberto Barbaro e la letteratura tedesca
La letteratura tedesca nell’attività intellettuale di Barbaro
In gran parte limitato alla sua prima fase di intellettuale e scrittore (1927-1935), l’interesse di Umberto Barbaro per la letteratura tedesca appare un aspetto marginale rispetto alla sua attività di critico e teorico cinematografico, con la quale si è guadagnato un posto di assoluto rilievo nella cultura italiana del Novecento. Si affaccia dunque l’ipotesi che questo suo avvicinamento al mondo della cultura tedesca sia stato soltanto occasionale, poiché avvenuto, tranne la significativa eccezione delle traduzioni di Sigmund Freud, in una fase in cui la sua attività intellettuale non si era ancora del tutto consolidata intorno al nucleo principale del cinema. Tuttavia, come già mise in rilievo Gian Piero Brunetta nel primo studio complessivo dell’apporto teorico di Barbaro, la complessità delle sue esperienze culturali non può essere compresa se non all’interno di una visione organica di arte e vita, di cui è inoltre necessario cogliere un’intima spinta morale (Brunetta, 1969).
Non si hanno notizie certe su quando e come Barbaro abbia imparato il tedesco. La sua formazione intellettuale, dopo il forzato abbandono del ginnasio, deve essere stata sostanzialmente autodidatta, sebbene stimolata dalla frequentazione dei gruppi di intellettuali anarchici romani da cui poi scaturì l’esperienza “immaginista”. Luigi Chiarini, suo compagno del ginnasio, e successivamente suo mentore al Centro sperimentale di cinematografia, ha sostenuto che Barbaro si mise a studiare le lingue, russo e tedesco in particolare, tra il 1927 e il 1929, durante gli anni dell’Immaginismo, «per accostarsi anche a testi proibiti» (Chiarini 1960, XI). Almeno per quanto riguarda il russo, questa affermazione appare priva di fondamento, se è vero che già a partire dal lavoro alla rivista «La Bilancia» Barbaro aveva tradotto testi da quella lingua, come egli del resto afferma in una Nota autobiografica pubblicata postuma (Barbaro 1959).
Barbaro e l’espressionismo
Sempre alla stagione “immaginista” risalgono, in ogni caso, tre significativi interventi sulla rivista «Lo spettacolo d’Italia», diretta dal futuro regista Alessandro Blasetti, che dimostrano una fase di intenso interesse di Barbaro per la cultura tedesca recente, e per l’espressionismo in particolare. Non è da escludersi che sia stato Blasetti stesso, che in quegli anni stava seguendo la parabola dell’espressionismo cinematografico tedesco, indagando anche i suoi rapporti con il teatro (Blasetti 1926), a suggerire a Barbaro questo argomento. Se Blasetti chiamò proprio Barbaro a occuparsi di teatro espressionista, è probabile che lo ritenesse in possesso di migliori capacità analitiche (non ultima la possibilità di leggere i testi in originale) rispetto a sé. Grazie a questa collaborazione, Barbaro ha modo di incontrare alcuni tra i critici (cinematografici e non) più avanzati e informati dal punto di vista teorico dell’epoca come, oltre allo stesso Blasetti, Jacopo Comin e Libero Solaroli, con il quale inizierà un’amicizia e una concordanza di idee destinata a durare tutta la vita (Solaroli 1962).
La lettura di Barbaro dell’espressionismo è del tutto personale, e caratterizzata sia da accenti polemici nei confronti della cultura italiana dell’epoca, sia dal tentativo di individuare punti di contatto con il movimento “immaginista”. Nel primo di questi interventi, Noi, l’espressionismo e Toller, Barbaro presenta l’espressionismo in netta opposizione al crocianesimo, il dannuzianesimo e il futurismo, che hanno come punti in comune «il disinteresse contenutistico ed il frammentismo» (Barbaro 1927b). Tali correnti culturali e letterarie italiane (il crocianesimo in particolare) erano del resto i principali obiettivi degli attacchi di Barbaro, soprattutto durante la fase immaginista (Andreazza 2008). La scelta dell’espressionismo punta proprio a contrapporre all’idelismo un movimento con caratteristiche radicalmente opposte, soprattutto per quanto riguarda l’idea di impegno diretto nella realtà sociale: «L’espressionismo è al polo opposto: esso basa l’arte su interessi vitali, le assegna il compito di risolvere problemi, la vuole specchio vivo e fedele dei moti di tutta una generazione, documento della sua attività e soprattutto mezzo delle sue conquiste» (Barbaro 1927b). Ernst Toller è proposto come modello per un’arte al tempo stesso d’avanguardia e politica che difficilmente poteva trovare un analogo nell’Italia dell’epoca: «Così si è avanguardisti per forza. Non è necessario così ricorrere a trucchi ingegnosi per permettersi il lusso di scene ultramoderne o rapidità di cambiamenti scenici: il sintetismo non serve a crear barzellette su giuochi di parole ma è necessità di vita e di morte per la quantità della materia» (Barbaro 1927b).
L’interesse di Barbaro per l’espressionismo come avanguardia è strettamente legato alla propria esperienza immaginista. Il secondo articolo, Herwarth Walden e lo sturmismo, privo degli spunti polemici del precedente e più asetticamente rivolto alla sola concezione artistica, si concentra soprattutto sull’importanza data ai «valori ritmici e armonici» nella corrente legata alla rivista espressionista berlinese Der Sturm, uno «tra i primi aggruppamenti artistici in Europa che ha cercato in teoria ed in pratica di affermare questa tendenza alla quale oggi in Italia tenta di dare un appagamento integrale il Movimento Immaginista» (Barbaro 1928a). In Nuova estetica per un’arte nuova, Barbaro aveva infatti detto: «il valore dell’arte è dunque un valore di relazioni ritmiche e armoniche che suggeriscono più ampie relazioni, via via fino ad elevarsi alla evocazione dell’armonia universale» ed era riconosciuto il debito nei confronti di Herwarth Walden e dello “sturmismo” (Barbaro 1927a, 2). Lo “sturmismo” si caratterizza inoltre per ricerca dell’astrazione nella rappresentazione pittorica dei personaggi che «si chiamano “l’Uomo”, “la Donna”, “la Ragazza”, “l’Uno” e “l’Altro”» (Barbaro 1928a). Questa tipizzazione estrema dei personaggi è messa anche in luce nella recensione di Jacopo Comin al testo teatrale di Barbaro Scalari e vettori, messo in scena al Teatro degli Indipendenti nel marzo del 1928 (Comin 1928).
Dopo averlo citato nei suoi articoli precedenti, definendolo come «papà dell’espressionismo» (Barbaro 1927b), Barbaro dedica quindi un articolo di due puntate a Frank Wedekind, il cui nome era certamente noto in Italia in quegli anni attraverso alcune rappresentazioni presso il Teatro degli Indipendenti di Bragaglia e la pubblicazione delle traduzioni di Alberto Spaini e Rosina Pisaneschi di Feuerwerk (Fuochi d’artificio) e Mine-Haha (Milano, Potenza, 1921), nonché di Risveglio di primavera di Giacomo Prampolini (1922, Frühlings Erwachen). In questo profilo critico è messo in rilievo il carattere istintivo e quasi morboso del teatro di Wedekind, che tuttavia si accompagna all’estremo rigore nello «spezzamento costante in iscene successive e slegate» (Barbaro 1928b, 6).
La traduzione de Der Marquis von Keith di Frank Wedekind
Wedekind è anche l’autore scelto da Barbaro per la sua prima traduzione di ampio respiro dal tedesco. Il marchese di Keith esce nel 1930 presso l’editore Formica di Torino, nella collana «Il teatro moderno». Non si ha notizia se questa traduzione sia stata pensata per qualche rappresentazione, forse per il Teatro degli Indipendenti, dove già erano state messi in scena altri due drammi di Wedekind: La morte e il diavolo (traduzione di ignoto – lo stesso Barbaro? – da Totentanz, 1905) e Il castello di Wetterstein (idem da Schloß Wetterstein, 1917). «Quanta verità amara ha saputo infondere l’autore che di un autentico Marchese di Keit [sic] – certo Gregor – pittore, poeta e falsificatore di quadri, era stato per qualche anno segretario!» (Barbaro 1928b, 6): così Barbaro aveva presentato il testo teatrale, riportandone già alcuni passi in traduzione, nella seconda puntata dell’articolo su Wedekind. Esiste dunque una linea di continuità tra gli interessi di Barbaro alla fine degli anni venti (il teatro, l’espressionismo, la ricerca di uno stile basato sulla frammentazione scenica e l’antinaturalismo) e questa traduzione, che non appare certo occasionale. Al tempo stesso, gli interessi di Barbaro e il contesto della ricezione della letteratura tedesca in italiana stavano mutando rapidamente, e con una certa sincronia, nel periodo tra la fine degli anni venti e l’inizio dei trenta.
La rivista «Occidente» e la Neue Sachlichkeit
L’altra esperienza di rilievo, per conoscere il punto di vista di Barbaro sulla letteratura tedesca, è la sua collaborazione, dal 1932 e il 1935, con la rivista «Occidente»», della quale Barbaro fu «animatore» e che dette un contributo importante «alla sprovincializzazione della nostra chiusa cultura letteraria» (Chiarini 1960, XIII). Smessi temporaneamente i panni del critico cinematografico, Barbaro si occupa qui, come critico e traduttore, quasi interamente di testi letterari, soprattutto tedeschi contemporanei; quella tedesca, del resto, risulta tra le più discusse tra le letterature straniere di cui la rivista, fin dal sottotitolo, vuole essere la «sintesi». Tra i suoi collaboratori ci sono nomi di mediatori importanti come Alberto Spaini, Enrico Rocca. Pietro Solari pubblica un lungo articolo sulla letteratura tedesca recente successiva alla presa di potere di Hitler (Solari 1933). Lo sguardo editoriale sulla letteratura tedesca della rivista si allinea a quello tipico di quegli anni: sono presentati testi e autori della “nuova” narrativa tedesca, come Werfel, Carossa, Kesten e i più originali Kafka e Musil.
Sono passati alcuni anni dagli studi sull’espressionismo dello «Spettacolo d’Italia», e si è conclusa anche la breve stagione dell’Immaginismo. Come si può capire anche dal romanzo Luce fredda, il testo più importante del Barbaro scrittore di quegli anni, così come dalla sua attività di critico cinematografico, il suo interesse è adesso rivolto alle manifestazioni del nuovo realismo europeo: quel terreno comune su cui trovano posto le «relazioni strette» esistenti tra «realismo, neo-realismo, realismo magico, Proust, Joyce e Sachlichkeit, e magari surrealismo», come Barbaro afferma nell’importante prefazione a Il soggetto cinematografico di Vsevolod Pudovkin (del 1932, ripubblicata in Barbaro 1960, 4).
Al romanzo, genere che adesso Barbaro vede destinato a raccogliere l’eredità delle teorie immaginiste ormai da tempo non più attuali, è dedicato il suo primo intervento nella rivista (Barbaro 1932b). Per un critico che mai abbandonerà una certa vis polemica, sono indice di un atteggiamento estetico sia le proposte sia le stroncature. Così, in uno stesso numero, Barbaro mette a fianco una traduzione di una novella di uno scrittore canonicamente neusachlich, cioè appartenente alla corrente della “nuova oggettività”, come Hermann Kesten (Matrimonio d’amore) e un ritratto del tutto negativo di un autore del genere fantastico come Hanns Heinz Ewers, del quale è inoltre pesantemente criticato l’ultimo romanzo Horst Wessel. Ein deutsches Schicksal (Horst Wessel. Un destino tedesco), con il quale Ewers aveva cercato, senza successo ma tradendo anzi la vena gotica a lui più congeniale, di agganciarsi al realismo documentario in funzione di propaganda nazionalsocialista (Barbaro 1933). Resta da notare un certo eclettismo nelle scelte, che gli permette di tradurre autori decisamente lontani dalla Neue Sachlichkeit come August Stramm oppure Gottfried Benn.
Il contributo più esteso di studio della letteratura tedesca di Barbaro su «Occidente» è un doppio ritratto di Hermann Kesten e Joseph Roth, nel quale Barbaro precisa non soltanto lo stile dei due autori, ma individua la matrice ideologica della loro narrativa nella contemplazione pessimistica del disfacimento della società borghese: una posizione che Barbaro, dalla sua prospettiva celatamente marxista, non condivide.
Roth e Kesten, che sono i due migliori scrittori di lingua tedesca della nuova generazione, cavano dalle loro rappresentazioni, dolorosamente tragiche e rassegnate, o amaramente tragiche e riottose, una specie di cupo pessimismo, una specie di convinzione desolata che il fondo è ormai raggiunto, che è la fine. L’Anticristo è sceso in terra. Hanno torto. Ed anche la putrefazione è nuova vita che nasce (Barbaro 1935, 55).
Le traduzioni da Hermann Kesten
Prima delle traduzioni di Barbaro, di Kesten ancora non era stato tradotto niente, ma il suo nome stava cominciando a circolare in Italia: Enrico Rocca, in un articolo uscito poco prima che fosse pubblicato Gente felice, lo confronta con i «nuovi» scrittori tedeschi «apatetici» della «impassibilità neo-realista» (Rocca 1933, 54). L’adesione di Barbaro allo scrittore berlinese non avviene, come si vede dalle parole dell’articolo precedentemente citato, su base ideologica. Barbaro sottolinea piuttosto il valore della narrativa di questo autore, che ha il suo punto di forza soprattutto nell’ironia, e nella felice resa della costruzione romanzesca:
Niente è più lontano dal tono uguale e sapiente di Roth di questi forti contrasti espressivi. Le facce dolorose dei personaggi dell’uno (e sono poi sostanzialmente gli stessi) al lume dell’ironia kesteniana diventano maschere grimassierenden e strane. Le fila di quel mondo popolosissimo sono rette con abilità straordinaria: la costruzione preordinata, pur nelle sproporzioni e nelle infinite digressioni, raggiunge il difficile equilibrio. È una costruzione importante e poderosa (Barbaro 1935, 57).
Come abbiamo visto sopra nella cronologia della vita, di Kesten Barbaro traduce due romanzi: Gente felice, appunto, per Carabba nel 1933, e Il ciarlatano, per il Corbaccio, nel 1935, che esce nella collana «Scrittori di tutto il mondo» diretta da Gian Dàuli, il quale scrive anche la prefazione). Nelle traduzioni si apprezza il tentativo di rendere lo stile secco e immediato dello scrittore berlinese, nel quale Barbaro poteva riconoscere qualcosa sia della successione vorticosa dei «quadri» immaginisti, sia del montaggio rapido del cinema d’avanguardia. Si veda l’incipit di Gente felice: «“Potremmo ucciderci” disse lei. Lui si impazientì. Ormai non poteva più soffrire questo modo di discorrere. “Evidentemente invecchio, – pensò – Queste espressioni inutili non mi danno nessun piacere”. Aveva trent’anni» (Barbaro 1933b, 9), e quello di Il ciarlatano: «Io sono un ciarlatano. O è forse vero che io posso quello che voglio? Io comando: “Alzati! Cammina! Torna in vita!”. Ma lei non rinascerà, non camminerà, non si alzerà più: mai più» (Barbaro 1934, 17).
I saggi freudiani
Un caso davvero particolare sono le traduzioni da Sigmund Freud raccolte nel volume Nuovi saggi di psicoanalisi, del 1946. Si tratta dell’unica traduzione di Barbaro successiva al suo ingresso al Centro sperimentale di cinematografia nel 1935 a fianco di Luigi Chiarini, con cui si era istituzionalizzato il suo ruolo nella cultura cinematografica italiana dell’epoca. Apparentemente lontane dal concetto tradizionale di “realismo”, al centro della riflessione di Barbaro almeno dagli anni trenta, le teorie di Freud attirano invece il suo interesse per la propria valenza ideologica, da inserire nella matrice marxista del suo pensiero (sul “realismo” di Barbaro come concetto non estetico ma ideologico cfr. Brunetta 1969, 43).
Le parole che Barbaro dedica alla psicoanalisi freudiana nella sua prefazione servono infatti a inquadrare i motivi di questa scelta di mediazione. Si tratta di gettare nuova luce in Italia sulle teorie freudiane, ancora vittime di pregiudizi in Italia, e altrettanto poco ben viste dal marxismo italiano e internazionale a causa del loro “individualismo”, che, secondo Barbaro è solo apparente: «Basterebbe considerare uno dei campi più suggestivi della psicoanalisi, quella della simbologia onirica che, colla scoperta della costante dei sogni, supera indubbiamente ogni particolarismo individualistico» (Barbaro, 1946, 7). In sostanza, Barbaro vede nella psicoanalisi più un alleato che un avversario del marxismo (cfr. ibid., 8).
Bibliografia
Andreazza 2008: Fabio Andreazza, Prima della specializzazione. La traiettoria di Umberto Barbaro dalla letteratura al cinema, in Figure della modernità nel cinema italiano, a cura di Raffaele Berti e Massimo Locatelli, ETS, Pisa 2008, pp. 315-331
Barbaro 1927a: Umberto Barbaro, Una nuova estetica dell’arte nuova, in «La ruota dentata», n. 1, 1927, pp. 2-3
– 1927b: Umberto Barbaro, Noi, l’espressionismo e Toller, in «Lo spettacolo d’Italia», a. I, n. 5, p. 3
– 1928a: Umberto Barbaro, Herwarth Walden e lo sturmismo, in «Lo spettacolo d’Italia», a. II, n. 2, p. 3
– 1928b: Umberto Barbaro, Frank Wedekind, in «Lo spettacolo d’Italia», a. II, n. 16 e 17, pp. 8 e 6.
– 1933a: Umberto Barbaro, Fantasia di Ewers, in «Occidente», a. II, 2, 1933, pp. 123-125.
– 1933b: Hermann Kesten, Gente felice, Lanciano, Carabba (traduzione da Hermann Kesten, Glückliche Menschen, Berlin, Kiepenheuer, 1931)
– 1934: Il ciarlatano, Milano, Corbaccio (da Der Scharlatan, Berlin, Kiepenheuer, 1932)
– 1935: Umberto Barbaro, Svolte pericolose di Kesten e Roth, in «Occidente», IV, 10, pp. 54-58
– 1946a: Sigmund Freud, Nuovi saggi di psicoanalisi, Roma, O.E.T. Edizioni (vedi sopra la cronologia della Vita)Barbaro 1946b : Umberto Barbaro, Prefazione, in Barbaro 1946a
– 1959: Nota autobiografica, in «Filmcritica», 85-86, p. 147
– 1960a: Umberto Barbaro, Il film e il risarcimento marxista dell’arte, con un profilo di Luigi Chiarini e una nota di Galvano Della Volpe, Roma, Editori Riuniti
– 1960b: Umberto Barbaro, Prefazione a “Il soggetto cinematografico” (1932), in Barbaro 1960a, pp. 3-5
Brunetta 1969: Gian Piero Brunetta, Umberto Barbaro e l’idea di neorealismo (1930-1943), Padova, Liviana Editrice,
Chiarini 1960: Profilo di Barbaro, in Barbaro 1960, pp. IX-XXIII
Comin 1928: Jacopo Comin, “Scalari e Vettori” di U. Barbaro, in «Lo spettacolo d’Italia», II, n. 13, p. 2
Rocca 1933: Enrico Rocca, Hermann Kesten o delle trasfigurazioni del cuore,in «Occidente», II, n. 2, pp. 53-58
Solari 1933: Pietro Solari, Rapporto dalla Germania, in «Occidente», a. II, XII, pp. 41-47
Solaroli 1962: Libero Solaroli, Ricordo di Barbaro alla vecchia Cines, in «Filmcritica», 118, pp. 81-84