Curzio Malaparte

di Franco Baldasso

La vita

1898 Curzio Malaparte nasce Kurt Erich Suckert a Prato. Il padre Erwin, di origine tedesca e religione protestante, è un imprenditore tessile che dalla Sassonia si è trasferito in Toscana con la moglie italiana, Evelina Perelli.

1911 Entra nel liceo Cicognini di Prato. Si fa notare per le prime prove letterarie ma è la politica ad appassionarlo: frequenta circoli interventisti e diventa segretario della sezione giovanile del partito repubblicano. Vicino alle avanguardie fiorentine, ha come mentore il poeta e giornalista Bino Binazzi, che lo ammaestra ai moderni, soprattutto francesi. Le opere dei poeti romantici tedeschi sono invece presenti nella casa paterna.

1914 Allo scoppio del conflitto mondiale scappa di casa ancora minorenne per arruolarsi nella legione di Peppino Garibaldi e combattere sulle Argonne per la Francia contro l’invasore tedesco.

1915-18 Tornato in Italia, partecipa alle campagne interventiste e dopo l’entrata in guerra si arruola volontario nella Brigata Alpi. Partecipa agli scontri come soldato semplice e poi sottotenente sul Col di Lana, sul Pescoi e sulla Marmolada fino alla rotta di Caporetto. Dopo la resistenza sul Piave, nell’estate del 1918 torna a combattere in Francia, e a Bligny sopravvive ai gas asfissianti dei tedeschi. Gli procureranno lesioni gravi che si ripercuoteranno sulla sua salute per tutta la vita.

1919-21 Finita la guerra rimane in Belgio nel corpo diplomatico: fa parte del Consiglio supremo di guerra della delegazione italiana, di cui dirige l’Ufficio cifra e stampa alla Conferenza della pace di Versailles e successivamente è nominato addetto culturale presso la Legazione d’Italia a Varsavia, da dove segue da vicino l’invasione bolscevica del 1920. Rientrato in Italia, riprende l’attività giornalistica. Nel 1920 aderisce al fascismo e l’anno successivo pubblica il suo primo libro, Viva Caporetto!; il libro è sequestrato ma viene ripubblicato già lo stesso anno come La rivolta dei santi maledetti. È il primo di numerosi scandali che la sua produzione letteraria alimenterà ad arte.

1923 Pubblica con le edizioni della Libreria della Voce L’Europa vivente. Teoria storica del sindacalismo nazionale, testo teorico del fascismo rivoluzionario, intransigente e antiborghese.

1924 Dirige a Roma la rivista «La conquista dello stato», organo del fascismo rivoluzionario e squadrista, contrario ai compromessi con la borghesia e il mondo cattolico.

1925 Firma il Manifesto degli intellettuali fascisti e cambia definitivamente nome in Curzio Malaparte. Esce Italia barbara, pubblicato e prefato da Piero Gobetti con cui, nonostante le opposte visioni politiche, ha intensi scambi intellettuali fino alla morte di quest’ultimo.

1926 Dalle pagine del «Selvaggio» insieme al direttore Mino Maccari fomenta la polemica letteraria tra Strapaese e Stracittà.

1928 Dirige con Giovan Battista Angioletti «La Fiera letteraria». Pubblica le cantate L’Arcitaliano e diventa direttore del «Mattino» di Napoli.

1929 Diventa direttore del quotidiano «La Stampa» di Torino. La sua gestione spregiudicata indigna i lettori benpensanti e lo mette in contrasto con il fascismo in piena fase di normalizzazione. Scrive reportage dall’Inghilterra e dalla Russia sovietica, dove conosce Majakovski, Gorkij e Bulgakov, e dà ampio rilievo a scontri e scioperi della Germania di Weimar.

1931 Licenziato dalla «Stampa», pubblica la raccolta di racconti Sodoma e Gomorra. A Parigi pubblica in francese Technique du coup d’état, visionario racconto della presa del potere nell’età della tecnica, che trasforma storia e testimonianza diretta in letteratura. Il libro riscuote un successo internazionale e provoca le vivaci proteste di Trockij, che lo attacca pubblicamente a Copenhagen nel suo discorso per il quindicesimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre. Hitler vi viene apertamente deriso e il libro è bruciato nei roghi nazisti, mentre Mussolini, tratteggiato come il vero «catilinario», eroe moderno della presa del potere, ne proibisce l’edizione italiana ma lascia che la stampa ne parli ampiamente.

1932 Collabora con il «Corriere della sera» diretto da Aldo Borrelli e pubblica Le Bonhomme Lénine. La polizia politica, l’Ovra, lo segue attentamente.

1933 Dopo il successo parigino di Technique du coup d’état, Malaparte polemizza duramente con i gerarchi fascisti, nella convinzione che abbiano tradito la “rivoluzione fascista” e che il suo amato duce debba abbndonarli. I suoi attacchi – soprattutto verso l’astro Italo Balbo – ne provocano la caduta: viene arrestato pretestuosamente per attività antifascista all’estero, espulso dal partito, spedito prima a Regina Coeli, il carcere romano, e poi condannato a cinque anni di confino a Lipari. Già nel 1934 però gli è permessa la residenza a Forte dei Marmi, in Toscana, da dove riprende a pubblicare sotto pseudonimo — in particolare sul «Corriere» — corrispondenze letterarie tra cui spiccano quelle su Goethe.

1936-37 Pubblica le raccolte di racconti e prose autobiografiche Fughe in prigione (1936) e Sangue (1937). Pubblica la prima serie della rivista «Prospettive».

1939 Comincia la seconda serie di «Prospettive», solamente letteraria, in cui Malaparte si sgancia sempre più apertamente dalle direttive del regime: fa conoscere in Italia le più recenti tendenze letterarie europee con numeri su surrealismo, ermetismo ed esistenzialismo, propone eccellenti traduzioni di poesia (dal tedesco, in particolare, di Leone Traverso e Giorgio Vigolo), e sostiene la collaborazione, nonostante le leggi antisemite, di scrittori ebrei come Moravia. Riprende a scrivere reportage dall’estero per il «Corriere», in particolare dall’Etiopia.

1940-43 Pubblica le prose d’arte Donna come me (1940). Richiamato nell’esercito all’entrata in guerra, parte prima per il fronte francese come corrispondente per il «Corriere», poi segue le armate dell’Asse nei Balcani in seguito all’invasione della Jugoslavia. A Jasi, in Romania, è testimone dei pogrom contro gli ebrei che si svolgono sotto l’occhio compiacente delle autorità rumene. I suoi reportage hanno un successo strepitoso benché la censura ne capovolga spesso le penetranti riflessioni, provocando le vive proteste dell’autore. Segue l’invasione dell’Urss fin quando le autorità tedesche riescono a ottenerne il rientro forzato in Italia, accusandolo di eccessiva compiacenza con il nemico. «Prospettive» continua le pubblicazioni (l’ultimo numero è del febbraio-marzo 1943) e pubblica l’antologia Poesia moderna straniera a cura di Leone Traverso. Nel 1943 pubblica Il Volga nasce in Europa, prontamente sequestrato dai tedeschi, quando occupano l’Italia dopo l’armistizio firmato dall’Italia l’8 settembre. Malaparte è nel frattempo riparato nella sua casa di Capri, dove viene poco dopo arrestato dagli angloamericani, nel frattempo sopraggiunti, e poi rilasciato.

1944 Per l’editore Casella di Napoli pubblica Kaputt; scritto sui vari fronti tra il 1941 e il 1943, il libro narra il declino europeo sotto il giogo tedesco. Come ufficiale di collegamento segue l’esercito di liberazione verso l’Italia del nord. Dopo l’avvicinamento con Palmiro Togliatti, il segretario generale del partito comunista italiano, pubblica sotto lo pseudonimo di Gianni Strozzi la cronaca della liberazione di Firenze per «l’Unità», ma appena viene rivelata la sua identità scoppia una nuova polemica.

1947 Kaputt viene tradotto tra le consuete polemiche in tutto il mondo. Si trasferisce a Parigi dove comincia a scrivere il Journal d’un étranger à Paris, pubblicato postumo, e il romanzo La peste, che cambierà titolo in La pelle visto il concomitante successo dell’opera di Camus.

1948-49 Tenta la strada del teatro, ma le sue pièces Du coté de chez Proust e Das Kapital gli inimicano definitivamente la società parigina. In Italia le sue opere vengono pubblicate o ripubblicate dalla casa editrice Aria d’Italia, da lui stesso costituita. Nel 1949 pubblica l’opera che più farà parlare di lui, nel bene e nel male. Pubblicato dapprima a Parigi da Denoël, La pelle gli procura infinite controversie, processi per pubblico oltraggio, censure, sfide a duelli, il divieto del sindaco di Napoli di mettere piede in città e la messa all’indice da parte del Vaticano. Alla fine dell’anno torna a Capri per lavorare al suo unico film, Il Cristo proibito.

1950-56 Il Cristo proibito esce nelle sale nel 1950 e l’anno successivo viene premiato al Festival di Berlino con il Gran Premio d’Onore fuori classe. Per il quotidiano «Il Tempo» cura la seguitissima rubrica Battibecco. Viaggia in Svizzera, Germania, America latina. I reportage che ne trae saranno pubblicati dopo la morte con il titolo Viaggi fra i terremoti (1963) a cura di Enrico Falqui. Nel 1956 pubblica la sua ultima opera di successo, Maledetti Toscani. Parte per la Russia e la Cina. A Pechino, dopo aver incontrato Mao Tze-tung, si aggravano i suoi problemi di salute: i gas di Bligny gli hanno provocato un cancro ai polmoni.

1957 Rientra l’11 marzo in Italia e viene ricoverato a Roma nella clinica Sanatrix. L’agonia diventa anche l’ultimo spettacolo pubblico: al suo capezzale passano tutte le alte sfere politiche del tempo, da Fanfani a Tambroni a Togliatti. Prima della morte, avvenuta il 19 luglio 1957, riceve la tessera del PCI e del PRI, mentre un padre gesuita racconta alla stampa la sua presunta conversione. Negli anni successivi escono molte delle numerosissime opere incomplete non pubblicate in vita, tra cui Mamma Marcia (1959) e Il ballo al Cremlino (1971).

Malaparte e la letteratura tedesca

1. Kurt Erich Suckert, ovvero della rivolta contro il “Nord Europa”

Parlare di Curzio Malaparte come mediatore della letteratura tedesca in Italia ha del paradosso. Pochi scrittori italiani, non solo nel Novecento, sono stati così ostinatamente, così ostentatamente antitedeschi. Eppure le sue prese di posizione polemiche, le sue stroncature sia politiche che letterarie rivelano se non una conoscenza specialistica, un’inesausta e non superficiale attenzione verso i movimenti politico-culturali a nord delle Alpi e un’apertura ai nuovi avvenimenti nella letteratura in lingua tedesca, profondamente diversa da quella degli altri intellettuali italiani nel periodo tra le due guerre. La letteratura è per Malaparte protagonista, ma non unica invitata nelle sue più ampie riflessioni sociali e politiche. Sebbene e forse proprio perché pervicacemente ideologica, questa attenzione cosmopolita fa dello scrittore pratese un punto di riferimento per la cultura italiana dagli venti a tutti gli anni quaranta. Soprattutto per il pubblico colto ma non accademico che ha seguito le sue idee e i suoi umori nelle maggiori pubblicazioni della stampa italiana.

Malaparte è collaboratore e molto spesso direttore di prestigiose ed influenti testate, dal «Mattino» di Napoli alla «Stampa» di Torino fino agli anni della stretta collaborazione con il «Corriere della sera» diretto da Aldo Borelli, per il quale segue da inviato speciale la seconda guerra mondiale nei Balcani e nei fronti sudorientali, in Bessarabia e Ucraina, nonché sul fronte settentrionale in Finlandia. Negli anni ’cinquanta, infine, la sua rubrica Battibecco nel quotidiano «Il Tempo» di Renato Angiolillo si conquista una popolarità davvero unica nel panorama nazionale, anche dovuta alla professata avversione per le forze politiche del dopoguerra, con esplicite tinte populiste.

In tutte queste pubblicazioni la gittata internazionale degli interessi di Malaparte esce dagli schemi consolidati della cultura fascista, ma rappresenta un’oltranza anche nella cultura italiana durante la transizione verso la democrazia. Per tale motivo la sua attenzione alla Germania, visti anche i frequenti viaggi, è costante (Serra 2012, 46 e 387). Nel periodo sotto esame Malaparte diventa così uno dei veicoli principali della trasmissione della cultura tedesca in Italia, stereotipi inclusi. Oltre che dei quotidiani, fin dagli anni venti lo scrittore pratese è vivacissimo direttore di riviste letterarie e politiche, dalla «Conquista dello stato» a «900» alla «Fiera letteraria» (dal 1929 «L’Italia letteraria»). Ma è soprattutto con «Prospettive», la cui seconda serie (1939-1943) è un vero e proprio laboratorio per le traduzioni della più avanzata cultura europea, che spazio speciale riceverà appunto la letteratura in lingua tedesca. Non è errato insistere su come il prestigio personale in patria e all’estero – Malaparte è stato uno degli scrittori più letti, amati e disprezzati in tutta Europa, e non solo come ideologo del fascismo – abbia consentito a «Prospettive», negli anni di un regime ormai declinante, di tradurre o divulgare autori come Joyce, Kafka, Rilke, Eluard, Garcia Lorca con una spregiudicatezza all’epoca non comune. Infine, è soprattutto con le opere narrative, con l’originale ibrido di memoria e finzione, di reportage giornalistico e richiami alla letteratura europea da Proust a Puškin a Hölderlin in romanzi come Kaputt e La pelle, che Malaparte cementa le sue idee sul mondo tedesco e di converso sulla sua letteratura.

Le eccentriche posizioni dello scrittore, la costante volontà di épater la bourgeoisie e di farsi intellettuale di punta del regime (l’amico e editore suo Piero Gobetti lo definì in una prefazione famosa «la penna più forte del fascismo»in Malaparte 1926a), troppo spesso relegano in secondo piano il respiro europeo delle sue scelte giornalistiche e letterarie. Fallito il tentativo di accertarsi come ideologo del fascismo più intransigente, Malaparte tenta già dalla fine degli anni venti di sfondare gli angusti confini del dibattito nazionale e fascista per attingere e contribuire agli sviluppi più originali della cultura europea, dall’interesse sincero e appassionato per la rivoluzione russa al surrealismo francese fino agli sviluppi più recenti della filosofia di Jaspers e Heidegger. Quello che gli stessi altri intellettuali fascisti, da Montanelli e Longanesi, non gli hanno mai perdonato è sì l’inossidabile narcisismo, ma anche e soprattutto il tentativo di portare la “rivoluzione conservatrice” del fascismo in aperto dialogo con l’Europa, e di avvalersene a livello individuale (Serra 2012, 152, 260 e 500-1). Le chiusure di Strapaese movimento, che Malaparte ha sostenuto con faziosità, dovrebbero forse essere viste sotto questa luce: la reazione “antimoderna” non va letta solamente nel becerismo e nel teppismo di un Lemmonio Borreo alla Soffici, ma come tentativo di istituire e valorizzare una modernità alternativa e antiborghese in polemica con la modernità europea nata con la Riforma protestante, sentita come irriducibilmente appartenente al borghese “Nord Europa” — e dunque esplicitamente come emancipazione dalla cultura tedesca, dalla Germania guglielmina a Weimar (Malaparte 1923).

Se la modernità letteraria va considerata più come campo di tensioni di diverse e spesso contrastanti traiettorie verso il nuovo (ivi compresa la critica alla modernità tecnologica), che come dialettica avanguardia–reazione (Levenson 2011), Malaparte si colloca al centro della contraddizione, non più figlio della postura scelta e selezionata da vociani e lacerbiani del “poeta-filosofo” di ascendenze romantiche, ma critico dell’importazione di modelli nordici in quanto riduzioni irrimediabilmente “borghesi” e dunque anti-rivoluzionarie. Agli albori della sua carriera, nel 1921, Malaparte scriveva:

La concezione germanica del romanticismo aveva elevato, dietro le spalle degli uomini tristi, uno scenario di cipressi, di castelli, di foschi orizzonti, una coreografia di velluti medievali, di sabati, di cavalcate di spettri, aveva soffiato un vento artificiale, monotono come tutti i venti nordici nati dalle foreste, nelle pause del quale si udivano ossa scricchiolare e gemere gente e piagnucolìo di femmine e di giovincelli ammalati di wertherismo. […]. Il mondo era pieno di Ortis e di pianisti polacchi. (Malaparte 1921, 9)

Tra l’anti-Europa degli anni venti di volumi come Viva Caporetto! (poi ristampato come La rivolta dei santi maledetti) e L’Europa vivente e il cosmopolitismo dei suoi romanzi maggiori degli anni quaranta c’è più disillusione personale che incoerenza ideologica. Il disappunto per la mancata rivoluzione italiana sotto il fascismo (e il fallimento del progetto individuale di influenza diretta sul regime), si tramuta nell’analisi impassibile dell’abiezione europea sotto l’egemonia tedesca, come splendidamente in Kaputt: «Forse era una favola, l’Italia, un sogno, chi sa se l’Italia esisteva ancora, chi sa? Non esisteva più nulla, oramai, fuorché la tetra, buia, crudele, orgogliosa, disperata Germania» (Malaparte 1944, 809).

Procediamo ora per gradi, svolgendo i tre maggiori filoni d’indagine accennati, che sostanzialmente corrispondono anche a tre fasi successive nello sviluppo artistico e ideologico dello scrittore pratese: la costruzione ideologica dell’“antimodernità” italiana contro la cultura borghese dell’Europa nordica, sentita irredimibilmente come tedesca, in qualche modo sia in polemica che in continuazione con le posture autoriali d’avant-guerre (Malaparte aggiorna la polemica antitedesca e antiborghese futurista e lacerbiana, negando però valore di modello al romanticismo tedesco nella “selezione” fattane dai vari Papini e Prezzolini); il cosmopolitismo e l’apertura internazionale degli anni di «Prospettive», in cui trovano spazio traduttori come Leone Traverso e Gianni Vigolo con le loro versioni di Rilke e Hölderlin, ma anche scrittori discriminati dalle leggi razziali come Alberto Moravia che possono pubblicare sotto pseudonimo — in flagrante infrazione dell’antisemitismo ufficiale del regime — articoli su autori “inopportuni” del calibro di Kafka; infine la riflessione sul suicidio della moderna Europa e sulla parabola di un’Europa “germanizzata” che partendo da Kaputt (ma forse anche da Il Volga nasce in Europa, 1943) continuerà come critica della modernità tecnologica, ma con esiti che negli anni cinquanta ricalcano gli schemi della Sonderweg tedesca tutto sommato meno originali anche se di ampio impatto presso il pubblico.

Dovremmo però partire da un dato biografico che in qualche modo influenza in maniera unica l’esperienza che lo scrittore pratese fa della letteratura tedesca, ma che riteniamo non debba suggestionare in modo univoco la nostra analisi per non cadere nel determinismo. Per l’“arcitaliano” Malaparte, la letteratura tedesca è discorso implicito, e in qualche modo “paterno”. Nato dall’imprenditore tessile Erwin Suckert, che dalla Sassonia si era trasferito a Prato e che «aveva scelto l’Italia al momento della Grande Guerra» (Serra 2012, 43), il giovane Kurt Erich Suckert, di confessione protestante, cambierà il proprio nome in Malaparte solo nel 1925. Sebbene la lingua tedesca faccia parte del suo repertorio, Kurt non la padroneggerà mai come farà con il francese, l’inglese, e persino il russo. Anche se, come aggiunge il suo più attento biografo Serra, «le prime opere che Curzio trova nella biblioteca paterna sono in caratteri gotici» (Serra 2012, 43). La confessione protestante e la cultura del padre avranno tuttavia un effetto cruciale nella sua formazione, come anche nel suo oltranzismo intellettuale. È lo stesso Malaparte ad ammetterlo, in uno scritto del 1940 indirizzato a Giancarlo Vigorelli:

E soltanto mi può capire ed accettare chi non dimentica che c’è tutto il romanticismo e la pazzia dei Tedeschi, in me, che non sono, ahimé, un Italiano fatto come tutti gli altri; che sono cristiano, romanticamente cristiano, ma vivo fuori della morale cattolica; che sono, insomma, quel che si dice un “barbaro”.» (Malaparte 1940a, 426)

Ed è proprio dal dato biografico che tuttavia cominceremo, dal rapporto ossessivo che Malaparte intrattiene in pubblico con uno degli eroi del pantheon paterno: «Wolfango» Goethe.

2. Malaparte ideologo del fascismo tra Goethe e rivoluzione

Fra gli amici di mio padre, Wolfango Goethe era senza dubbio il più misterioso. Non ci capitava mai d’incontrarlo, ma si sentiva che girava per la casa dalla mattina alla sera […]. Un giorno, mentre i miti della nostra infanzia già volgevano al tramonto, anche Wolfango Goethe, quella colonna d’Ercole del poetico mondo paterno, crollò davanti ai nostri occhi come il vecchio pilastro di un cancello. E fu quando, alla mia prima lettura del Viaggio in Italia, scoprii che Goethe non s’era fermato a Firenze se non per poche ore, perché, scriveva, quel gotico gli dava noia, ne aveva visto di meglio in Germania. […] Noi ragazzi eravamo indignati e dolenti, e mio padre taceva umiliato, non sapeva da che parte rifarsi per difendere il suo caro Wolfango. Ormai l’incanto era rotto. (Malaparte 1940b, 113-15)

Un “raccontino”, come lo chiamerebbe Umberto Saba: pubblicato nella raccolta Donna come me, il suo titolo è oltremodo significativo: Goethe e mio padre. In tutta la produzione di Malaparte, la figura di Goethe, e il confronto con la letteratura tedesca è un’occasione per la memoria, per la riflessione sull’esperienza personale. E tramite tale esperienza, tale memoria, Malaparte parla di politica italiana ed estera, interviene nel dibattito pubblico introducendo idee d’oltralpe, per una divulgazione dal respiro europeo, seppure testardamente, gelosamente attaccata alla propria faziosità. Le parole sprezzanti verso la cultura tedesca nei suoi scritti giovanili risentono chiaramente della propaganda antiguglielmina che aveva invaso l’Italia negli anni dieci, sebbene tradiscano un chiaro rispetto per i nomi più “internazionali” dell’Ottocento tedesco:

In Germania (dopo le tre “Critiche” di Kant e l’umanesimo romantico di Goethe e di Schiller), gli annaspamenti cerebrali di Hegel, che non era riuscito a dare il senso dell’infinito e a terminare l’aguglia della sua cattedrale gotica, l’amarezza antitedesca e giudea (perciò anche antiborghese) della risatina di Heine, la meravigliosa eccezione di Federico Nietzsche che, nato in un tempo non suo, non aveva potuto se non stupire e turbare, senza riuscire a trarre l’umanità al di là del bene e del male, tutto questo in Germania, aveva fatto capo al mastodontico, al governativo, al prescritto, aveva partorito il semitismo di Max Nordau e il filisteismo di Sudermann e di Hauptmann. Faust, il dottore, era stato ucciso dai burattini dell’Hauptmann, a Lipsia, nel 1913. (Malaparte 1921, 9-10)

Dopo le polemiche letterarie e politiche dei primi anni venti, in cui Malaparte si fa promotore del fascismo più intransigente, “controriformista” ed anti-europeo, verso la fine del decennio la sua rotta cambia. L’occasione arriva con la direzione del terzo maggiore quotidiano italiano, «La Stampa» di Torino, di proprietà della famiglia Agnelli. Se nei primi anni venti, l’antitesi Italia–Nord Europa gli faceva scrivere «Non vi sarà mai un romanzo italiano finché lo spirito italiano che è storico, non muterà in filosofico» (Malaparte 1926b, 867), la direzione del quotidiano torinese permette allo scrittore di aprire i propri orizzonti alla lotta politica europea. Se le sue grandi corrispondenze dall’estero di quegli anni verteranno sull’Inghilterra e soprattutto sulla Russia sovietica, come direttore dà alla «Stampa» un’inaspettata svolta operaista, e fa pubblicare reportage sugli scioperi, le rivolte e le lotte operaie nella fase discendente della Germania di Weimar. Articoli dai titoli significativi come e Industriali e operai irremovibili (25 gennaio 1930) e Il lavoro è sospeso sugli scioperi a Berlino (6 ottobre 1930), firmati da un non meglio specificato G.P. saranno spiaciuti non solo ai padroni del quotidiano, ma anche allo stesso Mussolini e ai suoi gerarchi, in piena fase di normalizzazione del regime.

Non solo, l’attività rivoluzionaria all’estero è l’occasione per discutere in Italia di autori tedeschi e di volumi, oggi dimenticati, che altrimenti non avrebbero passato la censura. In un articolo dal titolo più che eloquente Goethe e Stresemann, Malaparte encomia il politico tedesco, esaltandone la statura europea, a proposito del suo opuscolo Goethe et Napoléon, pubblicato a Losanna e Parigi (Malaparte 1929, 405). Nel successivo L’Europa davanti allo specchio, Malaparte non cita solamente John Maynard Keynes, ma anche l’austriaco Filip Fülöp-Miller e il suo Geist und Gesicht des Bolschevismus (Vienna, Amalthea, 1926), di cui firmerà la prefazione per l’edizione italiana, Il volto del bolscevismo, nella traduzione di Giacomo Prampolini per Bompiani, 1930. Scrive Malaparte: «La conclusione che si può trarre dalla lettura di queste pagine è quanto mai sorprendente per un pubblico fedele alla morale e ai pregiudizi della borghesia: il volto del bolscevismo non è, come si crede, un volto dai tratti asiatici. È un volto dai lineamenti europei» (Malaparte 1930, 524).

È una lettura che influenzerà Malaparte fino alle tesi del suo Il Volga nasce in Europa.

Mentre visita la Germania per i suoi reportage nel 1932, Malaparte il 4 marzo scrive da Hessen all’amico Daniel Halévy: Le printemps est beau, en Allemagne. Il y éclate comme une révolution. Ce qui survit de l’Allemagne de Goethe et de Schiller, c’est le printemps. Les autres saisons y sont modernes, bismarkiennes, et, aujourd’hui, hitlériennes (Malaparte 1991-1994, III, 44): e, dopo aver letto in francese La guerre est pour demain, traduzione di Morgen wieder Krieg (La guerra è per domani) del giornalista austriaco Ludwig Bauer, lo recensisce su L’Italia letteraria.

Il patriottismo tedesco scrive tra l’altro in un austriaco, assomiglia un po’ a un brano di Kant, tradotto da Heine. Un austriaco moderno non è forse sotto certi aspetti, un tedesco del diciottesimo secolo? Lo spirito leggero, galante, ironico, machiavellico e cortigiano del tempo di Maria Teresa è diventato, dopo la guerra, lo spirito più comico e, senza dubbio più corrosivo, dell’Europa contemporanea. (Malaparte 1932b, 12).

Sono le ultime libertà che si potrà prendere in senso politico. Dopo il successo internazionale di Technique du coup d’état e la famosa tesi sulla femminilità di Hitler (di contro alla virilità di Mussolini), al rientro dalla Francia Malaparte viene arrestato e confinato a Lipari «per attività antifasciste da lui compiute all’estero» (Martellini 1997, xciii).

S’interrompe così un discorso che aveva portato Malaparte a far conoscere, nell’Italia fascista che sempre più chiudeva gli spazi di dibattito e partecipazione, testi di teoria politica non ortodossi. Pur con costante cautela, cita e sviluppa nei suoi articoli idee di Marx e Ernst Bloch. Per quanto il confino perduri, Malaparte ritorna nella stampa che conta nel 1934, sul «Corriere della sera», chiamato dal direttore Aldo Borrelli per intercessione di Galeazzo Ciano. Impossibilitato alla politica, torna però alla letteratura, e al suo ambiguo rapporto con Goethe. Nell’articolo Goethe in Olimpo racconta:

Prima della signora Récamier, è da credere che nessuno al mondo conoscesse meglio di Goethe l’arte di star seduto sopra un divano. Guardàtelo, in quella celebre stampa del Tischbein che lo rappresenta pateticamente adagiato sopra un sofà in mezzo alla campagna romana […], fa parte della leggenda goethiana allo stesso titolo dei colloqui di Eckermann e delle collezioni di minerali del museo di Weimar. […] Davanti a quello spettacolo […] è legittimo immaginare che lo stesso Goethe, affacciandosi alla valle del Tevere in vista del Soratte, sia stato invaso da un sacro terrore, e che per la prima volta, per l’unica volta, quel sopracciglio immobile, quel sereno bellissimo volto, quel fulgore dolce degli occhi, abbiano tradito per un istante, per un solo istante, uno sgomento ineffabile. Uno sgomento che non è nel Faust, non è nelle Elegie romane, che non è in quella stampa del Tischbein, e fa meraviglia che sia lì… (Malaparte 1934, 485)

Affettuoso ma ambiguo, l’articolo, che sarà presto tradotto in francese per «Les Nouvelles littéraires», fa parte di una generale riflessione sul romanticismo tedesco che coinvolge quella che chiama la «moderna stagione hitleriana», riflessione che porterà a termine solamente con le corrispondenze di guerra in Kaputt e con il ritorno nella Germania in macerie dopo l’anno zero dei reportage degli anni cinquanta.

In un successivo articolo sul «Corriere» Malaparte aggiunge alla sua riflessione la lettura del viaggio in Italia di Ferdinand Gregorovius:

Al pari di tutti gli storici tedeschi, il Gregorovius non si accorgeva che nella civiltà italiana predomina non la natura, ma l’uomo […]. Ciò che egli crede di vedere e di sentire è la tirannia della natura sull’uomo, l’abdicazione, tutta romantica, dell’uomo di fronte alla prepotente, malinconica, disperata natura: e non vede, non sente, né capisce, che quel popolo non d’altri è schiavo se non di se stesso […]. Quanta diversità dall’atteggiamento di Goethe di fronte alle rovine sparse nell’Agro deserto! Ed era trascorso appena mezzo secolo […]. Goethe e Gregorovius sono due momenti dello stesso spirito europeo, due modi di concepire la libertà italiana. (Malaparte 1938, 357)

Ancora una volta, la riflessione e la mediazione sulla cultura tedesca diventano un’occasione per comprendere la propria diversità e autobiografia.

Goethe torna ancora nel primo numero di «Prospettive», la rivista a carattere monografico che Malaparte riesce a lanciare nel 1937, con sovvenzioni (e controllo) statali (Martellini 2014, 67). L’idea è quella di una rivista di respiro europeo, la prima serie tuttavia è pesantemente determinata dalle scelte propagandistiche del regime. Il primo numero è dedicato a Il ragazzo italiano e Goethe è l’ospite d’eccezione con la riproduzione di schizzi originali e con il racconto, tratto dal Viaggio in Italia, dell’incontro del poeta, in data 23 marzo 1787, con gli scugnizzi napoletani. In un brano dello stesso periodo non pensato per la pubblicazione, Malaparte conclude: «Fra tutti gli stranieri, Goethe è quello che ha meglio compreso l’Italia e il suo popolo. […] Ciò che più commuoveva Goethe, era la mirabile ininterrotta continuità dell’evoluzione della civiltà italiana» (Malaparte s.d. a, 291-292).

3. «Prospettive», una rivista europea

In una recente monografia su «Prospettive», Luigi Martellini nota come nella prima serie, tra i progetti, ci fosse un numero dedicato ai tedeschi (Martellini 2014, 19). Ma è con la seconda serie 1939-1943, solamente letteraria, che Malaparte può lasciarsi alle spalle gran parte delle direttive di regime. Lo scrittore costruisce attorno alla sua persona una fittissima rete di collaboratori, tra i cui nomi figurano i migliori esponenti della cultura italiana del tempo e del secondo dopoguerra. Dedica numeri monografici ai temi più importanti della cultura contemporanea, con scelte che sembrano oggi non solo coraggiose, ma decisamente avverse alle veline del regime. Il numero sul surrealismo francese esce pochi mesi prima dell’entrata in guerra dell’Italia contro la Francia. Nei numeri dedicati all’ermetismo pubblica i migliori poeti italiani e europei, alcuni dichiaratamente marxisti come Eluard; ospita fra l’altro le prime traduzioni di Finnegan’s Wake di Joyce, fatte dallo stesso Joyce. Chiama come redattore fisso Moravia, a cui le leggi razziali avevano proibito di pubblicare. E mentre Moravia sotto pseudonimo scrive di un altro autore ebraico come Kafka, altri giovani ebrei sono pubblicati in «Prospettive»: Elsa Morante, Alberto Vigevani, che con lo pseudonimo Vani Berti distingue sempre Kafka dal surrealismo, o Guido Hess, che dopo l’esperienza antifascista con il nome di Seborga contribuirà alla riapertura del teatro Gobetti a Torino nel 1946 rappresentando il Woyzek di Büchner con Raf Vallone (Novelli 2003).

Tra i numeri progettati, oltre a quello sui Tedeschi, Malaparte annuncia una monografia su Freud e la psicoanalisi, argomento avversato in Italia dalla politica culturale del fascismo, dall’opposizione della Chiesa, nonché dal neohegelismo crociano e gentiliano. Forse un numero è chiedere troppo, ma a firmare un incisivo articolo sarà Mario Praz, con Morte di Freud ad inizio della seconda serie. Nello stesso periodo Malaparte intensifica il rapporto con Leone Traverso, a cui dà spazio e fiducia: «Abbiamo pensato di affidarti le “fonti romantiche” del surrealismo, o meglio, quel che di romantico è alla radice del surrealismo», gli scrive in una lettera del 3 novembre 1939 (Malaparte 1939, 634). Affermerà infatti Malaparte nel corsivo d’introduzione al numero sull’avanguardia francese del 1940: «Uno dei padri del surrealismo moderno, il Novalis, pone il problema dell’autonomia dell’arte, e perciò del suo carattere assolutamente gratuito, in una scienza della fantasia, in una fantastica opposta alla logica» (Malaparte 1940c, 4). A questo proposito cita poi Luciano Anceschi, che due numeri prima aveva pubblicato l’articolo Logica geroglifica di Hamann.

Dal suo ritiro di Conselve vicino Padova, l’11 novembre 1939 Traverso gli replica nel frattempo che «c’è anche tutto Hegel poi dietro alle spalle di Breton (almeno nei “manifesti”) e Marx ecc.: campi in cui non mi muovo troppo agevolmente» (Malaparte 1991-1994, IV, 642 ). Chiede dunque di metterlo a lavoro come traduttore più che come saggista: Malaparte lo accontenta prontamente. Ed è proprio in una lettera successiva, il 5 febbraio 1940, sempre a Traverso, che il direttore di «Prospettive» palesa le sue idee sulla rivista come strumento di svecchiamento culturale:

Hai tu da propormi una questione cui dedicare un numero? Pensaci, e mi farai un gran piacere. Naturalmente, il numero lo farei combinare da te. Di Rilke, hai cose generiche, le solite cose di Rilke che ci fanno conoscere in Italia, o cose particolarmente interessanti? Lascio a te giudicare. Pubblicherei volentieri un tuo scritto di commento a Rilke, a lettere o poesie, di accompagno, insomma. Anche per togliere di bocca ai letterati italiani il gusto sciapo delle abominevoli traduzioni dannunziane di Errante. (Malaparte 1991-1994, V, 54)

Per «Prospettive» Traverso traduce non solo Rilke, e a più riprese, ma anche Hölderlin, gli aforismi di Hoffmansthal, Über das Marionettentheater (Sul teatro di marionette) di Kleist (1810); Giorgio Vigolo traduce invece Patmos di Hölderlin e scrive l’articolo Hölderlin e la “poetica assoluta”, mentre Antonio Santangelo I pensieri sull’arte di Franz Marc. È a cura di Traverso inoltre l’unico volume di traduzioni delle Edizioni di Prospettive, un volume fortemente voluto da Malaparte, dal titolo Poesia moderna straniera, che, oltre a Rilke e Hölderlin, propone traduzioni da Trakl, Benn, Weinheber, Agnes Miegel.

Oltre alle traduzioni, il 27 febbraio 1940, sempre dal suo ritiro di Conselve Traverso propone a Malaparte un’idea che non avrà tuttavia seguito: «Leggendo l’altro giorno qualche pagina di Goethe e poi di Hoffmansthal, m’è venuta un’idea (pericolosa?): di dedicare un numero alle rispettive opinioni dei tedeschi su se stessi e sui francesi e sui francesi sulla Francia e la Germania. […] Solo al tuo coraggio e al tuo tatto oso proporre una cosa simile» (Malaparte 1991-1994, V, 74).

Alla fine un volume sui Tedeschi Malaparte riuscirà a pubblicarlo, ma completamente diverso dalle aspettative di Traverso: il 15 ottobre 1942, quando lo sforzo bellico italiano è ormai completamente subordinato ai comandi di Hitler e per il fascismo si intravedono i segni del vicino collasso, Malaparte pubblica Le ultime anime belle, numero dedicato all’esistenzialismo tedesco («Prospettive» aveva già dato spazio alla filosofia tedesca con il già citato saggio di Anceschi e un intervento su Nietzsche di Galvano Della Volpe). È appunto il numero «sui Tedeschi» agognato da tempo: tra interventi di Abbagnano e Della Volpe (su Jaspers e Berdjaev), Emilio Oggioni traduce e commenta un’ampia scelta da Heidegger che chiama L’essere come tempo, a cui segue Il pensatore soggettivo, cioè esistente, di Søren Kierkegaard, un brano tratto da Postilla conclusiva non scientifica (Oggioni 1942).

Se di esistenzialismo si era già occupata la rivista «Studi filosofici» di Paci, Abbagnano e Pareyson nel 1941, nel gennaio 1943 la concorrente rivista «Primato» del ministro Giuseppe Bottai ospita un dibattito sulla «filosofia della crisi» con contributi di Banfi, Abbagnano, Paci, Luporini:

Questa esasperata ricerca di nuovi tracciati per innovare e rivitalizzare l’ambiente culturale italiano, spinse molto spesso anche «Primato» a scendere sugli stessi terreni d’indagine nel tentativo di tener dietro ai nuovi problemi e agli argomenti sollevati, sì che ad ogni mossa di «Prospettive» veniva fatta seguire una contromossa della rivista di Bottai, che si occupò così — condannandoli — di ermetismo, di surrealismo, e anche di esistenzialismo. (Pardini 1998, 286)

4. Le macerie della Kultur tedesca, stereotipi, ancora Goethe

La storia di «Prospettive» si conclude praticamente qui, con il collasso istituzionale e ideologico del fascismo. Non finisce invece la riflessione di Malaparte sulla cultura tedesca e la sua mediazione letteraria, che prenderà le forme barocche ed estreme di una narrazione personalissima, tra il genere testimoniale e quello che oggi chiameremmo nonfiction novel. Kaputt, come abbiamo detto, è il grande romanzo dell’abiezione dell’Europa sotto il nazismo, in cui ritornano tutti i nomi della Kultur tedesca. Dai versi dell’«angelo tedesco» Hölderlin recitati da un poco spiritoso tenente della Wehrmacht, alla corte del «Re tedesco di Polonia» il Reichminister Hans Frank, descritta come se volgesse in dialogo i dipinti espressionisti di George Grosz (appunto menzionato nel testo come riferimento ecfrastico, ed in contrasto con i quadri di Hans Holbein appesi alle pareti della sala dei ricevimenti di Frank), oltre ovviamente all’onnipresente Goethe, e fino alle sorelle Ilse e Louise Hohenzollern, eredi della casata regnante prussiana, alle quali sono stati ritirati i passaporti e che vivono a Berlino «come in esilio», il paesaggio attraversato da Malaparte non è di rovine, è di macerie (Malaparte 1944, 447, 515 e 749).

Dopo il clamore suscitato da Kaputt, che – lo ricordiamo – è tra i primi libri a testimoniare lo sterminio degli ebrei d’Europa nel 1944, Malaparte torna a riflettere nei suoi scritti d’occasione con circospezione sulla cultura e la letteratura tedesca, da un lato con intuizioni sorprendenti su autori come Heine (Malaparte 1963, 345 e 352) o Werfel (Malaparte s.d. b, 343-345), dall’altro tuttavia indulgendo in clichés come la Sonderweg nella storia tedesca o il mito della fondamentale bontà del popolo tedesco tradito dalle sue élites (Malaparte 1963).

Sono gli anni del successo letterario internazionale, specialmente dopo lo scandalo del romanzo La pelle (1949), che allarga l’analisi della decadenza morale e materiale all’Europa liberata. Le sue riflessioni sul mondo tedesco continueranno sul «Tempo», in cui Malaparte discute di Sigfrido e Hildegonda, Heine e Nietzsche, di un Wagner «guidato dal suo infallibile cattivo gusto» (Malaparte 1963, 352), e, ovviamente, ancora di Goethe. Anche se in viaggio nel Sud America, il riferimento alla letteratura tedesca è sempre dirimente: nell’articolo in cui racconta dell’incontro con Pablo Neruda, Malaparte scrive: «le sue immagini sono come quelle di certa poesia di Goethe, del Goethe degli anni di Weimar, che specchiano il cielo riflesso nelle pietre, nei cristalli minerali» (Malaparte 1963, 239).

Concludiamo con una testimonianza, della sorella Edda Ronchi Suckert. La quale afferma che «Nostro padre non ci ha insegnato una sola parola di tedesco. “Chi ha più patrie, non ne ha punte”, diceva» (Ronchi Suckert 1991, 76). Non è difficile convincersi di come Malaparte con la sua opera di divulgazione e promozione culturale, ma anche con la sua stessa narrativa, abbia disobbedito all’autorità paterna. È forse anche un commento alla memoria del busto di Goethe con cui è cresciuto.

Bibliografia

Levenson 2011: Michael Levenson, Modernism, Yale University Press, New Haven

Malaparte s.d. a: Curzio Malaparte, Brano, in Malaparte 1991-1994, vol. IV, pp. 290-92 (In questo e nel successivo brano trovato tra le carte di Malaparte e pubblicato nei volumi curati dalla sorella di Malaparte, Edda Ronchi Suckert, riscontri all’interno del testo stesso portano a pensare ad una datazione diversa da quella proposta dalla curatrice)

– s.d. b: Curzio Malaparte, Considerazioni sul parricidio o Vatermord in Franz Werfel, in Malaparte 1991-1994, vol. III, pp. 343-45

– 1921: Curzio Malaparte, La rivolta dei santi maledetti, in Malaparte 1997, pp. 3-109

– 1923: Curzio Malaparte, L’Europa vivente. Teoria storica del sindacalismo nazionale, Firenze, Edizioni de «La Voce», 1923 (ora in Id., Europa vivente e altri saggi politici, a cura di Enrico Falqui, Vallecchi, Firenze, 1961, pp. 315-477)

. 1926a: Curzio Malaparte, Italia barbara, Piero Gobetti editore, Torino

– 1926b: Curzio Malaparte, Miseria del romanzo italiano, in «La Fiera letteraria», 12 dicembre 1926 (ora in Malaparte 1991-1994, vol. I, p. 867)

– 1929: Curzio Malaparte, Goethe e Stresemann, in «La Stampa», 27 settembre 1929 (ora in Malaparte 1991-1994, vol. II, pp. 405-07)

– 1930: Curzio Malaparte, L’Europa davanti allo specchio, in «La Stampa», 24 aprile 1930 (ora in Malaparte 1991-1994, vol. II, pp. 521-24)

– 1932b: Curzio Malaparte, Analisi cinica dell’Europa, in «L’Italia letteraria», 3 dicembre 1932 (ora in Malaparte 1991-1994, vol. III, pp. 11-14)

– 1934: Curzio Malaparte, Goethe in Olimpo, in «Corriere della Sera», 25 agosto 1934 (ora in Malaparte 1991-1994, vol. III, pp. 485-87)

– 1938: Curzio Malaparte, Con Gregorovius a Littoria, in «Corriere della Sera», 25 marzo 1938 (ora in Malaparte 1991-1994, vol. IV, pp. 357-60)

– 1939: Curzio Malaparte a Leone Traverso, Milano, 3 novembre 1939 (ora in Malaparte 1991-1994, vol. IV, p. 634)

– 1940a: Curzio Malaparte, Dal «Tesoretto. Almanacco Mondadori», 27 novembre 1940, in Malaparte 1991-1994, vol. V, pp. 425-27

– 1940b: Curzio Malaparte, Goethe e mio padre (1940), in Id., Donna come me, Firenze, Vallecchi, 2002, 113-5

– 1940c: Curzio Malaparte, Il Surrealismo e l’Italia, in «Prospettive», Seconda serie, 1, 15 gennaio 1940, pp. 3-7

– 1944: Curzio Malaparte, Kaputt, in Malaparte 1997, pp. 427-963

– 1963: Curzio Malaparte, Viaggi fra i terremoti, a cura di Enrico Falqui, Firenze, Vallecchi

– 1991-1994: Malaparte, a cura di Edda Ronchi Suckert, 12 volumi, Firenze, Ponte alle Grazie

– 1997: Curzio Malaparte, Opere scelte, a cura di Luigi Martellini, Milano, Mondadori, 1997

Martellini 2014: Luigi Martellini, Le «Prospettive» di Malaparte, Napoli, ESI

Novelli 2003: Massimo Novelli, L’uomo di Bordighera. Indagine su Guido Seborga, Torino, Spoon River, 2003

Oggioni 1942: Søren Kierkegaard, Il pensatore soggettivo, cioè esistente, in «Prospettive», VI, n. 34-36, 15 ottobre – 15 dicembre 1942, pp. 11-14 (traduzione di Emilio Oggioni, dal tedesco, di un brano di Søren Kierkegaard, Gesammelte Werke, übersetzt von Heinrich Gottsched und Christoph Schrempf, vol. VII, Abschliessende unwissenschaftliche Nachschrift (1846), Eugen Diederichs Verlag, Jena 1925, pp. 44-45)

Pardini 1998. Giuseppe Pardini, Curzio Malaparte. Biografia politica, Milano-Trento, Luni Editrice, 1998

Ronchi Suckert 1991: Edda Ronchi Suckert, testimonianza, in Malaparte 1991-1994, vol. I, p. 76

Serra 2012: Maurizio Serra, Malaparte. Vite e leggende, Venezia, Marsilio