Una domestichissima familiarità della lingua in cui si traduce
Ma nel tradurre non basta questo [conoscere bene la lingua del testo fonte]: anzi ci fa di mestieri d’esser così minutamente instrutti nella lingua, nella qual traduciamo, e d’esserne così padroni, che nella guisa, che tenendo alquanto di cera in mano, potiamo con le dita maneggiandola trasmutarla, hor’in quadrata, hor’in rotonda, et hor’in piramidal figura, et in qual si voglia altra, che più ci aggrada; che non ci riuscendo di potere, con questa forma di dire, o con quella, esprimer’a punto periodo per periodo, et la sententia, et le parole, che s’han da tradurre: andiamo hor con gerundij, hor con membri pendenti, hor con raccoglier meglio i periodi, hor con discioglierli, hor’in un modo, et hor’in un altro, tante forme, et modi di locution cangiando, et esprimentando, che alcuna ne troviamo, che possa commodamente quadrare a far l’effetto, che desideriamo, il che (come ho detto) senz’una domestichissima familiarità della lingua in cui si traduce, non si può fare.
Alessandro Piccolomini ai Lettori, in Il Libro della Poetica d’Aristotele tradotto di greca lingua in volgare da M. Alessandro Piccolomini, con una sua epistola ai lettori del modo di tradurre, Siena, 1572