Cristina Campo

di Flavia Di Battista

La vita

1923 A Bologna, da Guido Guerrini ed Emilia Putti nasce la prima e unica figlia, battezzata Vittoria, Maria Angelica, Marcella, Cristina. Il padre, compositore, insegna al liceo musicale di Bologna; due anni dopo avrà cattedra al Conservatorio di Parma. La madre proviene da una famiglia dell’alta borghesia bolognese che Vittoria paragonerà ai Buddenbrook. La bambina trascorre molto tempo nel villino situato nel parco dell’Ospedale Rizzoli di Bologna dove vive lo zio materno Vittorio, famoso ortopedico.

1928 Si trasferisce con la famiglia a Firenze, dove il padre Guido è nominato direttore del Conservatorio Cherubini. A causa di una malformazione cardiaca frequenta la scuola saltuariamente.

1935 I problemi di salute la costringono a proseguire gli studi da autodidatta, seguita dal padre o da insegnanti privati. Da questo momento, la sua educazione si compie al di fuori dei canali istituzionalizzati, prevalentemente sui libri presenti in casa. Attraverso la lettura impara l’inglese, il francese, il tedesco e lo spagnolo.

1943-1945 Traduce dall’inglese, firmandosi Vittoria Guerrini, Conversazioni con Sibelius del compositore finlandese Bengt von Törne (Firenze, Monsalvato, 1943), su suggerimento del padre, e Una tazza di tè e altri racconti di Katherine Mansfield (Torino, Frassinelli, 1944), da considerarsi un omaggio all’amica Anna Cavalletti, con la quale aveva condiviso quella lettura e che era rimasta vittima l’anno precedente del bombardamento di Firenze.

Nella fase finale del conflitto si rifugia coi genitori a Fiesole e fa da interprete per i soldati tedeschi. Nel settembre del 1944 il padre, che era stato filofascista, è messo sotto arresto, e rilasciato solo nell’agosto dell’anno successivo (due anni dopo otterrà il posto di direttore al Conservatorio Martini di Bologna). In questo periodo di difficoltà Vittoria sposa risolutamente la vocazione letteraria.

1947-1948 Nel 1947 Vittoria intreccia una relazione con Leone Traverso, affermato traduttore di poesia, soprattutto tedesca, conosciuto sul finire della guerra. I due frequentano i letterati fiorentini, in particolare gli amici di lunga data di Traverso, tra cui Mario Luzi e Tommaso Landolfi, ma anche Gabriella Bemporad, Curzio Malaparte, il poeta Rafael Lasso de la Vega e Valeria Soffici (figlia di Ardengo).

L’incontro con il germanista significa per Vittoria un ampliamento del raggio di letture: folgorante è la scoperta di Hugo von Hofmannsthal, di cui Traverso sta curando l’opera completa per la casa editrice Cederna, a cui la invita a collaborare come traduttrice. Sempre per interessamento di Traverso, presso lo stesso editore esce nel 1948 una scelta di liriche di Mörike da lei tradotte (ancora come Vittoria Guerrini).

1950-1952 Adotta stabilmente lo pseudonimo Cristina Campo.

Grazie a Mario Luzi, che le regala La pesanteur et la grâce, si appassiona all’opera di Simone Weil. Sull’onda di questo nuovo interesse, si reca a Parigi. Viaggia anche in Austria, passando per Venezia, in un di pellegrinaggio nei luoghi di Hofmannsthal intrapreso insieme a Leone Traverso, Gabriella Bemporad e de la Vega.

Nel 1952 conosce Margherita Pieracci, con la quale condivide la passione per Simone Weil. Progetta per l’editore Gherardo Casini un’antologia dedicata a voci femminili di poesia, da intitolare Il libro delle ottanta poetesse, in vista della quale chiama a raccolta numerosi traduttori suoi amici (Traverso, Luzi, Gabriella Bemporad, Remo Fasani, Giorgio Orelli, Raissa Naldi). Annunciato nel catalogo del 1953, il libro non verrà mai realizzato.

1953-1955 Nei primi mesi del 1953 il rapporto con Traverso si incrina. Nel 1955 Cristina segue i genitori a Roma: il padre nel frattempo è diventato direttore del Conservatorio di Santa Cecilia. L’istituto mette a disposizione della famiglia un appartamento al Foro Italico. Nella capitale frequenta, tra gli altri, Bobi Bazlen, Anna Banti e Giovanni Battista Angioletti. Dal 1953 cura insieme a Gianfranco Draghi la rubrica «La posta letteraria» del «Corriere dell’Adda», settimanale lodigiano vicino al partito liberale.

1956 Pubblica la sua prima raccolta poetica, Passo d’addio. Conosce Ignazio Silone e Corrado Alvaro, che assiste negli ultimi mesi di vita. Si batte per il rilascio del sociologo Danilo Dolci, arrestato nel corso della sua attività a favore dei braccianti siciliani, e in favore della causa sostenuta dall’amica Margherita Dalmati per l’indipendenza di Cipro. In estate si consuma la rottura definitiva della relazione con Traverso.

1957-1962 Legge e traduce William Carlos Williams, di cui cura una prima raccolta: Il fiore è il nostro segno, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1958; e poi una seconda insieme a Vittorio Sereni: Poesie, Torino, Einaudi, 1961. A partire dal 1956 e fino ai primi anni sessanta collabora con il Terzo Programma radiofonico della RAI, in particolare per la rubrica L’Approdo.

Nel 1957 conosce il fidanzato e poi marito della poetessa Maria Luisa Spaziani, Elémire Zolla, che, lasciata quasi subito la moglie, di lì a poco diventerà suo compagno. Con Zolla, studioso di religione, Campo approfondisce l’interesse per la mistica e l’esoterismo, già coltivato in passato. Nel 1958 vede la luce il volume delle Opere di Hofmannsthal Viaggi e saggi curato da Traverso, che ospita sette traduzioni ancora firmate Vittoria Guerrini. Traduce insieme a Giuliana De Carlo il Diario di una scrittrice di Virginia Woolf (Mondadori, 1959). Del 1962 è la raccolta di saggi Fiaba e mistero.

1963-1965 Pubblica la traduzione Venezia salva di Simone Weil (Brescia, Morcelliana, 1963) e riceve dalla Einaudi l’incarico di volgere in italiano le poesie di John Donne. Il lavoro si interrompe bruscamente quando, tra il 1964 e il 1965, nel giro di pochi mesi, perde entrambi i genitori. Costretta a causa della morte del padre a lasciare l’appartamento al Foro Italico, si trasferisce con Zolla sull’Aventino, dove frequenta con regolarità l’abbazia di sant’Anselmo. In questo periodo, infatti, abbraccia in maniera definitiva la religione cattolica.

1966-1967 Si impegna pubblicamente nella difesa del rito liturgico tradizionale in latino, di fatto abolito dal Concilio Vaticano II. Con questo intento contribuisce a fondare il presidio romano dell’associazione «Una Voce». Il lavoro di stampo letterario è gradualmente messo da parte in favore di un approfondimento delle ricerche spirituali. Nel 1967 pubblica La Grecia e le intuizioni cristiane di Simone Weil, tradotto insieme a Margherita Pieracci Harwell.

1969 Nel suo impegno contro la riforma della liturgia voluta dal papa Paolo VI, traduce in italiano il Bref examen critique du nouvel Ordo Missae del domenicano Michel Guérard des Lauriers e di altri ecclesiastici francesi tradizionalisti e persuade il cardinale Alfredo Ottaviani a presentare il suo testo al papa.

1970-1973 Consegna le versioni da John Donne, apparse sotto il titolo Poesie amorose, poesie teologiche (Torino, Einaudi, 1971). Nello stesso anno esce una nuova raccolta di saggi, Il flauto e il tappeto (Milano, Rusconi, 1971). È consulente dell’editore Rusconi, per il quale firma numerose prefazioni.

1975 Cura con Piero Draghi il libro Detti e fatti dei Padri del deserto (Milano, Rusconi).

1977 Muore a Roma a causa della malattia cardiaca di cui ha sempre sofferto e viene sepolta nella città natale. Le sue ultime poesie, radunate sotto il titolo Diario bizantino, sono edite postume sulla rivista di Zolla, «Conoscenza religiosa».

La sua opera viene riscoperta a circa un decennio dalla scomparsa, quando la casa editrice Adelphi, con la quale Zolla da tempo collabora, raccoglie in volume i saggi (Gli imperdonabili, 1987) e le poesie e traduzioni (La Tigre Assenza, 1991, a cura dell’amica Margherita Pieracci Harwell), cui seguirà una sistematica pubblicazione degli epistolari.

Cristina Campo e la letteratura tedesca

Una mediatrice atipica

L’immagine che di Cristina Campo restituisce la critica – rimasta a lungo appannaggio quasi esclusivo di chi le era stato amico – è quella di una donna orgogliosamente situata ai margini del sistema letterario contemporaneo. Molti elementi contribuiscono alla costruzione di questo ritratto: dichiarazioni programmatiche come quella posta in calce a Il flauto e il tappeto: «Ha scritto poco e le piacerebbe aver scritto ancora meno» (Campo 1971, risvolto di copertina), il costante riferimento a una comunità ristretta di «lettori per cui si sogna di scrivere, i veri destinatari del manoscritto nella bottiglia» (Campo 2014, 213) o il gioco degli pseudonimi multipli (Giusto Cabianca, Bernardo Trevisano, Benedetto Padre d’Angelo, Puccio Quaratesi, Federica Di Palma, Michäel), interpretato come uno sdegnoso rifiuto di rincorrere la fama letteraria (Farnetti 2014, 249-250).

Secondo alcuni, questa rinuncia non sarebbe stata determinata dalla sola volontà di Campo, ma anche eterodiretta da una cultura dominante che la giudicava un’esteta reazionaria. Chi le è stato vicino, da Elémire Zolla (Zolla-Fasoli 1995, 37-38) a Ernesto Marchese (Marchese 2014, 56), da Remo Fasani (Fasani 1998, 170) ad Alessandro Spina (Spina 2002, 11, 39-40 e 83), si spinge fino a descrivere un vero e proprio meccanismo ostracizzante. In particolare, nelle parole di Spina, la rivalutazione postuma dell’opera dell’amica scomparsa assume tangenzialmente il valore di un regolamento di conti con un sistema letterario che in un dato momento avrebbe estromesso, oltre a lei, anche autori di sicuro merito come Thomas Mann o quelli inseriti da Vallecchi nella poco fortunata collana «Cederna» (Spina 2002, 40; notiamo, a margine, che Spina ricorda in questo punto soltanto scrittori tedeschi: Hofmannsthal, Rilke, Trakl, George, Mörike e Novalis).

Tuttavia, la riscoperta della figura di Vittoria Guerrini nascosta sotto i vari alias ha contestualmente messo in luce altri aspetti del suo lavoro: inserita in una vasta rete di relazioni e, almeno fino a un certo punto, tutt’altro che rassegnata all’invisibilità, Campo progetta riviste e antologie, frequenta letterati di rilievo e sfrutta i propri contatti per promuovere i suoi lavori e quelli degli amici o per raccogliere firme a supporto delle cause che le stanno a cuore.

Anche se i suoi scritti non raggiungono un ampio pubblico, Cristina collabora, nel corso della sua carriera, con editori prestigiosi (da Frassinelli a Einaudi, passando per Scheiwiller, Vallecchi e Mondadori) e si trova impegnata in ruoli in cui può esprimere una personale selezione di prodotti culturali, come quando le viene affidato uno spazio alla radio pubblica o coordina insieme a Gianfranco Draghi la rubrica «La posta letteraria»per «Il Corriere dell’Adda».

Nel momento in cui decide di intraprendere la carriera letteraria, Vittoria Guerrini si affaccia sulla scena pubblicando una traduzione dall’inglese, Conversazioni con Sibelius del compositore finlandese Bengt von Törne, mentre l’ultimo suo prodotto edito in vita sarà la curatela di una raccolta di massime religiose di padri della Chiesa vissuti tra il III e il VI secolo. Si tratta in entrambi i casi di operazioni di tono minore, volte all’esplorazione di spazi periferici. Questa attenzione per zone relativamente poco battute caratterizza gran parte del lavoro della Campo mediatrice. L’obiettivo esplicito del progettato Libro delle ottanta poetesse, ad esempio, è il recupero di voci marginalizzate, in un’ottica di restituzione che ben si accorda con istanze femministe destinate a trovare pieno sviluppo solo qualche anno più tardi, ma già largamente anticipate da una scrittrice cara a Cristina, Virginia Woolf.

Sentendosi lei stessa emarginata e inattuale, non solo in quanto donna, almeno fino agli anni sessanta Campo pensa con costanza a una via su cui incanalare i propri scritti e il proprio canone, che sente schiacciati da un sistema culturale percepito come ostile e indifferente: «Vorrei finalmente – scriveva a Leone Traverso il 24 agosto 1962 – avere un luogo dove mandare quello che voglio senza preoccupazioni. (Una recensione all’ultimo libro di Djuna Barnes… O addirittura “Libri non letti”: le belle cose uscite nell’anno e di cui nessuno ha fiatato?» (Campo 2007, 116).

Oltre che sul versante pubblico, a cui le sembra di avere scarso accesso, l’attività di mediazione di Cristina Campo si dispiega su quello privato, con una frequente commistione tra i due piani.

I preparativi della mai realizzata antologia di poetesse esibiscono una forte presenza della sfera intima della curatrice: tra le donne di cui Vittoria si propone di far conoscere gli scritti, accanto ad autrici come Emily Dickinson, Marceline Desbordes-Valmore e Bettina Brentano, figura anche Anna Cavalletti, l’amica di gioventù scomparsa sotto i bombardamenti. Non solo nei brani da antologizzare, ma anche nella scelta dei traduttori cerca persone che sente vicine: «Lei è il solo che possa farlo per me (intendo: a modo mio). E lei sa quanto mi piacerebbe includere anche il suo nome nella piccola lista, dove ormai sono riuniti i più cari», scrive a Giorgio Orelli il 6 giugno 1955 (Campo 2011, 175).

Più vivace dell’attività che conduce alla pubblicazione di traduzioni, saggi e curatele è il lavorio sotterraneo attraverso cui Vittoria coinvolge gli amici non soltanto nei propri progetti, ma anche nelle proprie letture, consigliando loro libri o intrattenendoli su scrittori di ogni tempo e di personaggi letterari quasi si trattasse di vecchi conoscenti. Ricorda Margherita Pieracci Harwell: «devo dire che io non so di un’amicizia profonda di Cristina Campo (o di un amore) che non sia nata dalla lettura: dalla lettura di pagine in cui colui/colei che le sarebbe diventato amico aveva espresso l’essenza di sé, o dalla risposta dell’altro a scritti di Cristina, o dall’incontro con l’altro sulle pagine di uno scrittore amato» (Pieracci Harwell 2005, 3).

Non tutte le passioni coltivate da Campo sono destinate a emergere dallo spazio privato per sfociare in una promozione attiva presso i lettori italiani delle opere da lei amate. E laddove ciò avviene, intensità e modalità non sono sempre le stesse. Ad esempio, il suo impegno nel rendere nota Simone Weil in Italia è molto più propulsivo rispetto a quello speso in favore di Hugo von Hofmannsthal, benché questi due scrittori siedano insieme al vertice del suo personale pantheon.

Negli anni cinquanta, l’opera di Simone Weil è in Italia ancora tutta da scoprire: le sole traduzioni di una certa diffusione si devono a Franco Fortini, che ha però un profilo antagonistico rispetto a quello di Campo («Tra l’altro, la traduzione di Fortini è zeppa di errori e, francamente, scritta in una lingua franca…», scrive Campo a Vittorio Sereni il 22 ottobre 1963, riferendosi a L’ombra e la grazia (Sica 2014, 204: vedi Fortini 1951). Per queste ragioni è disposta a parlare (quasi) con chiunque si interessi di Simone Weil; la traduce; ne scrive; prende contatto con gli eredi; si prodiga per ottenere la salvaguardia del suo lascito e in suo onore progetta la rivista «L’Attenzione», anch’essa destinata a rimanere lettera morta. Per quanto riguarda Hofmannsthal, invece, sembra essere convinta che la sua fortuna nella penisola è in quelle che lei considera buone mani: se ne occupano da tempo i fidati Leone Traverso e Gabriella Bemporad e oltre a loro pochi altri. Si tratta, insomma, di un cammino di ricezione già instradato, al quale Campo partecipa da un luogo appartato.

Anche quando non agisce apertamente ma si limita a consigliare letture agli amici e sebbene, di conseguenza, il suo lavoro come mediatrice non abbia un impatto decisivo nel breve periodo, Cristina Campo contribuisce, in anni obiettivamente dominati da altre istanze, a mantenere in circolazione certi nomi e a garantire continuità a una linea che comprende religione, psicanalisi, cultura zen, mistica ed esoterismo, la cui fortuna è legata, come quella della stessa Campo, alla casa editrice Adelphi.

Pratica e poetica della traduzione

Come molte delle donne del Libro delle ottanta poetesse, la Campo traduttrice percorre un buon tratto di strada nell’ombra di figure maschili, Leone Traverso prima ed Elémire Zolla poi. Anche se il più delle volte i suoi meriti vengono riconosciuti, in svariate occasioni le traduzioni di Cristina nascono dietro commissione o su impulso degli uomini della sua vita: del padre per le Conversazioni con Sibelius, di Traverso per i saggi di Hofmannsthal e di Zolla per le versioni raccolte nei Mistici dell’Occidente. Diversamente, la collaborazione con Sereni per l’antologia di Williams parte per iniziativa di lei e procede su un piano di parità (Sica 2014).

Lo stile traduttivo di Cristina Campo risente degli influssi dell’ambiente fiorentino soprattutto nelle prove d’esordio; ad esempio, nelle versioni da Mörike, in cui fa sfoggio di un «gusto “troppo prezioso” appreso da Traverso» (Scuderi 2002, 25-26). A mano a mano, la lingua delle sue traduzioni, non solo di quelle dal tedesco, si semplifica, fino a trovare nel mot-à-mot il suo tratto distintivo.

La poetica della traduzione di Cristina Campo è fondata sull’idea che debba esservi un’affinità fra traduttore e autore tradotto, concezione del resto assai diffusa in quegli anni e sposata anche da Traverso e gli ermetici. Mentre però in Traverso questa teoria si esprime in una pratica di ri-creazione volta a «migliorare il testo» (Macrì 1989, 64), le versioni di Campo puntano piuttosto su criteri di naturalezza e discrezione. Ciò risponde a un’impostazione secondo cui, se la sintonia fra il traduttore e il testo di partenza sussiste, la traduzione dovrà venire senza sforzo. La trasposizione in un’altra lingua è vista quasi come una modalità di copiatura, attività da lei prediletta, come risulta dalla lettera a Leone Traverso del 14 gennaio 1956 (Campo 2007, 45), tesa a un’appropriazione del testo che non ha necessariamente come obiettivo una circolazione ampia, ma si qualifica come esercizio spirituale o come atto di generosità nei confronti di una persona cara (che può essere l’autore tradotto, ma anche il destinatario della traduzione).

Naturalmente, le versioni destinate alla stampa mostrano una maggiore elaborazione formale rispetto a quelle nate dal mero desiderio di condividere le letture con un destinatario selezionato, ma, al di là dei risultati, il principio di fondo rimane lo stesso, come si evince confrontando le prefazioni («In questo piccolo volume è riunito quanto della lirica di Mörike ha voluto piegarsi ad una trascrizione italiana estremamente dimessa e rispettosa dell’originale», Campo 1948, 61) con gli appunti che accompagnano le versioni spedite agli amici («Ho letto molte volte, lentamente, Da ich ein Knabe war… e per pura umiltà ho cominciato ad allineare su un foglio le parole italiane. Di solito faccio come se dovessi spiegare a qualcuno l’esatta posizione e il peso di ogni parola: È il modo più rigorosamente onesto – e dà a volte risultati di una purezza sorprendente», scrive a Remo Fasani il 12 giugno 1954 (Campo 2010a, 100-101).

Il rapporto con altri mediatori di letteratura tedesca

Il peso della letteratura tedesca nel bagaglio intellettuale di Cristina Campo è in gran parte una conseguenza del lungo legame con Leone Traverso. Quando i due cominciano a frequentarsi, lui è già un traduttore affermato e un esponente di punta dell’avanguardia ermetica. L’incontro sembra essere avvenuto frequentando entrambi l’editore Vallecchi, per il quale Vittoria stava traducendo Mörike e con cui Traverso collaborava già da tempo (Traverso 1946). Le testimonianze concordano nell’attribuire al suo primo compagno, di tredici anni più anziano, il merito di averle fatto da maestro, ma sottolineano anche la volontà di Campo matura di liberarsi di alcune idiosincrasie, soprattutto stilistiche, assorbite in quel periodo.

Il repertorio letterario tedesco mediato dal traduttore veneto comprende autori novecenteschi (Rilke, Hofmannsthal, George, Trakl, Benn) e del Goethezeit, l’epoca di Goethe (Hölderlin, Novalis, Kleist), in prevalenza lirici, marcati quasi invariabilmente come poeti orfici, in sintonia con una linea interpretativa che va da Vincenzo Errante agli ermetici fiorentini. Tra tutti questi scrittori, quello che più cattura l’attenzione di Campo è Hugo von Hofmannsthal, del quale già nel dopoguerra inizia a tradurre alcuni saggi per incarico di Traverso, coordinatore della pubblicazione dell’intero opus hofmannsthaliano per l’editore milanese Enrico Cederna.

Se l’incontro con Hofmannsthal è senza dubbio il più fecondo, anche il culto dello stile e gli studi di mistica di cui Campo fa mostra lungo tutta la sua carriera possono essere interpretati come un retaggio del magistero di Traverso, o comunque costituiscono un ponte duraturo tra i due intellettuali. Dopo la fine della relazione sentimentale, infatti, lo scambio non si interrompe: ci resta una parte del carteggio, di cui sono conservate quasi solo lettere di lei, tutte posteriori al 1953, fittissime di rimandi a questioni di letteratura tedesca e al procedere dei rispettivi percorsi professionali e personali.

Per tramite di Traverso e nel segno di Hofmannsthal, Cristina Campo stringe amicizia con Gabriella Bemporad, figlia dell’editore Enrico, anche lei appartenente alla cerchia fiorentina, laureata in letteratura tedesca e prolifica traduttrice. Entrambe collaborano al progetto delle opere complete Cederna, per il quale Bemporad traduce la narrativa hofmannsthaliana. Il sodalizio è fondato su una comunanza di interessi: oltre a Hofmannsthal, la cultura zen e la psicanalisi di matrice junghiana. A Roma risultano entrambe in cura dallo psicoterapeuta Ernst Bernhard, con il quale entrano in contatto grazie a Bobi Bazlen e che fu l’ispiratore dell’ingresso, tramite la casa editrice Astrolabio di Roma, della psicologia junghiana nella cultura italiana. Le due amiche partecipano l’una del lavoro dell’altra, anche se Campo non manca di esprimere riserve nei confronti dello stile delle traduzioni di Bemporad. Scrive infatti a Margherita Pieracci Harwell nell’inverno 1961-1962:

Gabriella ha terminato Hofmannsthal, è divorata dai dubbi; e in questo caso non sono tutti infondati. Tanto la pregai, negli anni scorsi, di leggere testi italiani, di parlare con chi parla buon italiano. Non l’ha fatto — e la traduzione lo dice. Ha dovuto riconoscere, sulla pagina, che il suo motto «Non m’interessano le parole ma le cose» conduce in brevissimo tempo ad un mondo informe. Mi fa pena — ma è solo per amore di H. che ho consentito a dare un’occhiata a quel manoscritto. Occhiata per così dire perché è lei che me lo legge quando ho la febbre ed io, ad occhi chiusi, le dico quando qualcosa mi disturba l’orecchio. (Campo 2008, 152-153)

Sempre a Firenze, Campo conosce il critico svizzero Remo Fasani, italianista e traduttore dal tedesco. Ancora una volta, il vivace scambio intellettuale ha tra i suoi argomenti principali la letteratura di area germanofona. Campo suggerisce con costanza a Fasani letture hofmannsthaliane e nella lettera del 5 maggio 1954 accoglie con grande entusiasmo il suo Hölderlin misticheggiante (Campo 2010a, 87). Il critico è coinvolto nell’elaborazione del Libro delle ottanta poetesse: traduce Karoline von Günderrode e approva l’inclusione di Marianne von Willemer, musa di Goethe. Per la versione delle poesie di Willemer, Campo si rivolge a un altro svizzero, Giorgio Orelli, che in quegli stessi anni si sta occupando intensivamente proprio di Goethe. Orelli si mostra restio a contribuire, ma le lettere inviategli a questo proposito dall’amica gettano ulteriore luce – in particolare quella del 5 giugno 1954 – sull’idea che sta alla base dell’antologia, ovvero liberare la voce femminile dai vincoli imposti da una società letteraria governata dagli uomini: «Purtroppo quasi tutte [le liriche di Marianne von Willemer] furono rimaneggiate da Goethe; dico purtroppo perché a me interessa la versione genuina della donna» (Campo 2011, 169). Il libro delle ottanta poetesse non vedrà mai la luce, mentre la raccolta di versioni goethiane firmate da Orelli uscirà nel 1957 per Mantovani. Il carteggio testimonia di un’accorta presenza della Campo nel laboratorio dell’amico traduttore, sui cui risultati non lesina commenti anche a stampa ultimata:

Sono molto contenta di possedere l’autografo di tante sue traduzioni da Goethe. Scritte così, dalla mano viva, sono tutta un’altra cosa. Incantevoli queste ultime! ma perché dice «cassa» (della gondola)? È brutto e non vuol dir nulla. In veneziano — ma in tutte le lingue, ormai — si dice «felze». Sarebbe audace, ma gentile, e bello, tradurre proprio così. (a Giorgio Orelli il 14 aprile 1957, in Campo 2011, 179)

Infine, Campo si interessa del lavoro di Ferruccio Masini, caldeggiando la pubblicazione del suo Benn presso l’editore Scheiwiller, al quale scrive il 25 settembre 1958: «ho ricevuto da Ferruccio Masini questa traduzione da Benn […] che mi è sembrata molto bella, conoscevo già di lui altre cose, dal tedesco e dall’inglese e anche cose sue e sapevo che conosce l’italiano a fondo, ma questa cosa mi sembra tra le più belle» (Campo 2011, 209). È la traduzione di Aprèslude, che in effetti apparirà cinque anni dopo nella collezione «Acquario» di All’insegna del pesce d’oro, aprendo la strada a una nuova stagione degli studi su Benn in Italia (cfr. Agazzi 2018).

Pur non essendo lei stessa una specialista di letteratura tedesca e disponendo di una conoscenza della lingua non eccellente (Fasani 1998, 165), Campo è considerata da diversi esperti del settore un’interlocutrice competente. Tutti i rapporti fin qui descritti non sono, infatti, a senso unico: Cristina ha un ruolo propositivo e non passivo; riceve numerosi impulsi, ma li filtra secondo il proprio gusto, lavorando, seppur nelle retrovie, alla trasmissione di un proprio filone letterario che viene costruendo con le letture.

Le letture tedesche: scoperta, selezione, immedesimazione

Le abitudini di lettura di Campo sono state indagate da Monica Farnetti che vi riconosce «l’immagine di un coerente e prolungato episodio di conversazione» (Farnetti 2014, 247). Amici e critici non mancano di evidenziare come Cristina tenda a tornare sempre sugli stessi libri (Spina 2002, 42; Pieracci Harwell 2005, 4) e segua al contempo una traiettoria eclettica (Farnetti 2014, 253; Zolla, Fasoli 1995, 37). Isolare, in questo insieme, la letteratura tedesca può apparire arbitrario, in quanto Campo costruisce di norma costellazioni indipendenti dall’area linguistica cui appartengono i testi che ama. Così, ad esempio, Hofmannsthal è accostato più frequentemente a Simone Weil, T.E. Lawrence e Proust che non ad altri scrittori di lingua tedesca. Questa prassi comparatistica però non mira affatto a una sistemazione storico-critica: le categorie letterarie vigenti non vengono mai messe in discussione a beneficio di una narrazione alternativa. L’unitarietà del blocco della letteratura tedesca nell’esperienza di Campo scaturisce in buona sostanza dal fatto che quelle letture le derivano quasi tutte dalle stesse fonti, vale a dire dai mediatori di cui si è detto sopra.

Sono poche le testimonianze sulle letture dell’infanzia e della prima giovinezza di Vittoria, quelle su cui ha imparato le principali lingue europee. Nella lettera al padre del 12 novembre 1943, in cui la ventenne esprime il desiderio di farsi strada nel mondo delle lettere, è menzionato lo scrittore bavarese Hans Carossa, al quale è assegnato un ruolo decisivo: «Ora mi sembra che il puro insegnamento di Carossa sia la mia guida» (De Stefano 2002, 34). Difficile stabilire con sicurezza a che cosa si riferisca questa dichiarazione d’intenti e cosa motivi questa preferenza per Carossa (mai rinnegata, dal momento che alla scomparsa dello scrittore, nel 1956, sarà dedicato un numero monografico della «Posta letteraria»), che però vale come prova del ruolo centrale assunto dalla letteratura tedesca nella formazione della giovane scrittrice.

Scorrendo gli epistolari e gli scritti pubblicati, si può ricostruire con maggiore precisione quali siano gli interessi della Campo adulta. L’impronta di Traverso è riconoscibilissima, ma altrettanto netti sono gli scostamenti rispetto alle preferenze del compagno.

La reputazione del germanista dell’ermetismo fiorentino è legata in primo luogo alla triade George-Rilke-Hofmannsthal. Si è già accennato all’importanza che quest’ultimo autore ha per Cristina e che gli fa meritare perciò un discorso a parte. Niente di paragonabile avviene con gli altri due poeti. Su George, Campo mantiene negli scritti che ci restano il più assoluto silenzio, sintomo di un’ostilità manifestata persino nei confronti delle opere di Hofmannsthal che più risentono dell’impronta del vate renano (Negri 2005, 206-207). Più complesso è il caso Rilke. Guido Guerrini ricorda di aver scambiato delle liriche giovanili della figlia per traduzioni da Rilke, segno che questo autore deve essere entrato presto nel circuito di interessi di Cristina e deve averne in qualche modo plasmato lo stile. Ma la frequentazione non si trasforma in una adesione totale: «“E si tratta precisamente di vivere tutto” disse Rilke, che qualche volta era molto grande anche lui», scrive a Margherita Pieracci Harwell l’11 giugno 1957 (Campo 2008, 63), sottintendendo un giudizio complessivo sull’opera di Rilke perlomeno non entusiastico. La stretta interdipendenza, nel canone italiano, tra Hofmannsthal, Rilke e George non si ritrova dunque in Campo, la quale anzi nel tradurre Manche freilich… di Hofmannsthal decide di rendere Leier con «cetra» invece che con «lira» proprio perché «Rilke ha troppo spesso questa parola» (Campo 1991, 55). Dietro una simile preoccupazione si può distinguere una volontà della Campo traduttrice di tracciare una netta linea di demarcazione tra i due autori, inversamente all’abitudine di Traverso, il quale, ad esempio, a distanza di anni rendeva la Vergänglichkeit (letteralmente «caducità») dei titoli di liriche rispettivamente di Rilke e di Hofmannsthal con l’inconsueto e a rigor di termini impreciso «labilità», sostantivo che ricorre anche nella produzione poetica propria di Traverso (cfr. Traverso 1971), in modo tale da rimarcare la connessione tra i due autori. Secondo Massimo Morasso il mancato appuntarsi dell’attenzione di Campo su Rilke non sarebbe riconducibile a una reale distanza tra le rispettive poetiche, che anzi a suo parere si potrebbero incrociare con profitto, quanto piuttosto a un problema di habitus (Morasso 2006, 251): quello che Campo rifiuta è il Rilke corrente in Italia e nel suo ambiente in particolare, il poeta dalla cadenza dannunziana delle traduzioni di Errante e quello ermetizzante di Leone Traverso.

Traverso è anche uno dei primi italiani a occuparsi di Gottfried Benn, veicolandone di proposito il ramo non espressionista per adattarlo il più possibile ai moduli dell’ermetismo (cfr. De Lucia 2018). Negli anni cinquanta, Benn attraversa un percorso di difficile redenzione politica, che ne complica le dinamiche di ricezione all’estero oltre che in patria. La sua compromissione col nazismo è un argomento di discussione spregiato da Traverso e ancor più da Campo, la quale ritiene che questo tipo di interpretazione andrebbe accolto con una risata, mentre viene preso fin troppo sul serio dai critici (Campo 1987, 77). Lei stessa, del resto, all’indomani della guerra, dava scandalo tessendo a voce alta le lodi di Mussolini in modo da farsi sentire dai passanti, un po’ perché lo trovava divertente e un po’ in aperta polemica con la tendenza a demonizzare chi aveva avuto un passato fascista (De Stefano 2002, 166). Ma secondo Campo, Benn non è un «imperdonabile» per i suoi trascorsi politici, bensì venerabile in quanto maestro della forma, per la perfezione della lingua e dello stile (Fornaro 2018). Benn è insomma preso a modello sia per la qualità e il contenuto dei suoi scritti che come figura inattuale, incompresa e ostracizzata dai propri contemporanei.

Tra i moderni di lingua tedesca citati negli scritti di Cristina Campo risultano anche autori canonizzati in Italia per strade parallele a quelle seguite da Traverso: Thomas Mann (presente soprattutto in quanto prediletto di Spina), il Musil del Törleß, il Brecht poeta e l’Ernst Jünger di Auf den Marmorklippen, le Scogliere di marmo. Nessuno di loro, tuttavia, sembra aver messo radici troppo profonde nell’immaginario campiano.

Gli scrittori ottocenteschi che vi si imprimono in maniera più significativa sono invece Eduard Mörike, Friedrich Hölderlin e Heinrich von Kleist. La giovane Vittoria si imbatte nei Lieder di Mörike, autore dalla fortuna piuttosto contenuta, grazie alle trasposizioni in musica di Hugo Wolf, di certo giunte in casa Guerrini per via del mestiere del padre Guido. Attorno a Mörike ruotano le prime conversazioni con Traverso (Traverso 1946), il quale preme su Cederna fino a ottenere la pubblicazione delle Poesie tradotte dalla compagna. La scansione della brevissima postfazione è già molto esplicativa delle caratteristiche della Campo mediatrice. Dopo aver accennato alla scarsa fama di Mörike in Italia e aver esplicitato i criteri guida della traduzione e della scelta delle liriche, la nota passa alla costruzione di un ritratto del personaggio Mörike e solo alla fine fornisce, molto rapidamente, dei veri e propri dati biografici.

Il nostalgico pastore “in cilindro e parapioggia”, tanto avido di armonia da trascorrere intere giornate tornendo vasi o incidendo croci tombali […] quando gli pareva che il mondo gli si facesse all’improvviso stranamente avaro di grazia; colui che prediligeva Mozart quando l’Europa intera apparteneva a Beethoven; che giocava coi bambini, parlava con gli alberi e faceva dell’amicizia una religione era nato a Ludwigsburg l’8 settembre 1804. Dopo vari vicariati, fu per nove anni pastore a Cleversulzbach. Si sposò quasi cinquantenne; ebbe due figlie ma ben presto si separò dalla moglie. Morì a Stoccarda il 4 giugno 1875. (Campo 1948, 61)

Campo ostenta un atteggiamento simile nei confronti di Hölderlin. Oltre e forse più che sulle liriche, l’accento è posto sul personaggio del poeta svevo: folle, solo e sublime, degno di figurare nella schiera degli imperdonabili. Scrive a Gianfranco Dragi in una lettera senza data, ma del 1959:

Scrisse questi versi che per il mondo era già pazzo. E a differenza di tutti gli altri «pazzi», che si credono Re e Imperatori, lui s’inchinava agli uomini fino in terra, li chiamava Altezza e Maestà. E per sé voleva il nome di Scardanelli, un nome di poveraccio, di attore comico. Il nome col quale, nei miei sogni, io chiamo sempre quest’essere celeste, questa essenza divina. (Campo 2011, 114)

Al pari di Hofmannsthal, Hölderlin è un compagno e un modello di vita il cui destino è percepito da Cristina come identico al proprio:

Sono stata a Manziana gli ultimi giorni della Settimana Santa – leggiamo in una lettera a Marghierita Pieracci Harwell del 29 aprile 1958 – e ho letto Hölderlin tutto il giorno e tutta la notte, mentre cantavano nelle chiese i responsori della Passione. E ho cercato di accettare con umiltà il mio destino di vagabonda che in nessun luogo sa trovare risposo — di farne a poco a poco un dovere, un’intima disciplina. (Campo 2008, 99)

Ancora una volta, lo Hölderlin a cui è stata esposta è prevalentemente quello di Traverso, che – gli scrive il 23 maggio 1958 – lei giudica «senza possibile paragone, il più perfetto Hölderlin mai tradotto in Italia» (Campo 2007, 89). Si tratta, al solito, di un poeta orfico, metafisico, impegnato in un «esercizio di perfezione insieme tecnica e spirituale» (Traverso 1955). Un’interpretazione, questa, che Campo non trova contraddetta, ma semmai confermata, nell’altra lettura di Hölderlin con cui viene a contatto, quella di Remo Fasani. Di fronte a questo supremo esempio di scrittore immolatosi in nome della perfezione Campo reagisce in due modi: piange, come attestano le lettere a Fasani del 22 maggio 1954 e a Draghi dell’aprile 1958 (rispettivamente Campo 2010a, 93; e Campo 2011, 81) e traduce. Come accennato, la traduzione è in realtà l’ultimo livello di un processo di appropriazione il cui grado zero è, a parte la lettura, la copiatura: Campo trascrive e traduce frammenti di poesie hölderliniane per Gianfranco Draghi e per Remo Fasani; a quest’ultimo in particolare chiede un parere sulle versioni, tuttavia senza mai pubblicarle. L’amore per Hölderlin rimane perlopiù confinato all’esperienza privata, salvo rapide menzioni nei saggi o la probabile mediazione di una versione di An die Parzen (Alle Parche) firmata da Anna Maria Chiavacci e pubblicata sul «Corriere dell’Adda».

Seppur meno intenso, il rapporto con Kleist presenta anch’esso una forte connotazione emotiva («Le lettere di Kleist mi diedero uno sgomento così doloroso che stavo per rivenderle» – Campo 1989, 49). Partendo dall’interpretazione che di lui dà Traverso («La lotta incessante col proprio destino, […] l’eccessivo rigore della sua coscienza artistica, oltre all’incomprensione dei contemporanei, [gli] negò ogni vero appagamento, tanto più l’agio tranquillo della forza certa in se stessa e paziente della propria sorte» – Traverso 1959, XI), Cristina lo riconduce facilmente alle proprie parole chiave: purezza, perfezione, spirito divino, come scrive a Traverso il 18 novembre 1959 (Campo 2007, 95).

Altrettanto, se non più adatte a svelare i parametri che governano questo piccolo canone sono le assenze. Se nell’esplorazione della letteratura tedesca contemporanea Campo fa qualche incursione al di fuori dei limiti tracciati dai mediatori a lei vicini, per le epoche più lontane pare subire maggiormente il filtro dell’ambiente di cui fa parte. Lo stesso Goethe sembra interessarla solo nella misura in cui se ne occupa Giorgio Orelli, mentre le rimangono estranei il romanticismo mordace di Heine o di Jean Paul, le ambientazioni fantastiche alla Hoffmann o la sfera più concettuale del lungo Ottocento tedesco (Schiller, Schlegel, Schopenhauer, Nietzsche ecc.).

Le esclusioni non attribuibili al caso mostrano come Campo si tenga a debita distanza dall’intellettualismo (il romanticismo di stampo filosofico, compreso il Novalis di Traverso, da lei quasi ignorato) e dall’estetismo (Stefan George, una certa interpretazione di Rilke). Poiché la sua è una ricerca spirituale che non desidera in alcun modo strutturarsi in una teoria, Cristina semplicemente non ha interesse per il ramo speculativo della letteratura tedesca. La fuga dai “pericoli dell’estetismo” è invece più mirata e conscia, e procede di pari passo con la volontà di differenziarsi rispetto a Traverso. Allontanando platealmente da sé ogni sospetto di decadentismo, il culto della bellezza di Campo assume dei connotati ascetici e si esprime in una pratica di vita di cui le letture costituiscono il necessario supporto.

Tuttavia, più che sui testi, la sua attenzione sembra cadere sulle figure autoriali degli scrittori: i tratti fiabeschi di Mörike, la pretesa incomprensione che circonda i cercatori di perfezione Benn, Kleist e Hölderlin, la postura da esteta del Rilke italiano sono i fattori che davvero determinano entusiasmi e avversioni, nella misura in cui consentono o impediscono a Cristina Campo di riconoscervi la propria immagine.

Hofmannstahl modello di vita

In una lettera di datazione incerta, tra il 1952 e il 1954, Campo confida all’amico Gianfranco Draghi:

[…] la cosa più importante che m’abbia detto iersera (e forse da quando ci conosciamo) è di aver scelto Hofmannsthal come modello della sua vita. Non le ho detto niente lì per lì, era difficile. Ma ora che è notte tardi e piove sulla luna, vorrei ringraziarla dal profondo del cuore. Non poteva dire una cosa più bella. (Posso aggiungere che non si scelgono certe figure a modello se quelle figure, in qualche modo, non hanno già scelto noi?). (Campo 2011, 19)

Scrivendo queste parole, intende forse alludere al fatto che, nell’incontro con lo scrittore austriaco, lei stessa ha scelto ed è stata scelta. Se Leone Traverso le propone di partecipare all’edizione dell’opera omnia di Hofmannsthal è perché vede nella persona di lei ancor prima che nel suo lavoro una delicatezza e un’eleganza che la renderebbero adatta a tradurre Der Schwierige (Traverso 1946). Alla fine, Vittoria Guerrini firmerà soltanto le versioni di alcuni saggi giovanili di Hofmannsthal apparse alla fine degli anni cinquanta (nel libro Viaggi e saggi, Vallecchi, 1958, con qualche piccola anticipazione sul «Corriere dell’Adda»).

In questo lasso di tempo, il colloquio col poeta viennese si fa ogni giorno più fitto, fino a diventare una sorta di convivenza quotidiana. Di questo vastissimo opus, Campo tiene soprattutto a una manciata di libri. In particolare, il Buch der Freunde (Il libro degli amici), in cui Hofmannsthal annota sue riflessioni insieme a massime di altri autori che lo colpiscono, è assimilato sia per quanto riguarda i contenuti, sia come modello per una pratica mista di lettura/copiatura e scrittura in proprio.

L’incontro con Simone Weil si innesta sulla passione già sviluppata per Hofmannsthal (e non è un caso che entrambe le scoperte le derivino dal gruppo degli ermetici fiorentini). Cristina si entusiasma persino per alcune coincidenze puramente esteriori: la predilezione accordata da entrambi gli autori a T.E. Lawrence (Campo 2007, 36), o il fatto che entrambi abbiano tentato una riscrittura della Venice Preserv’d di Thomas Otway (Campo 2010b, 79), mentre sembra interessarla meno un raffronto tra l’Elettra di Weil e quella di Hofmannsthal, forse perché quest’ultima rientra in quella porzione meno armoniosa dell’opera hofmannsthaliana che lei poco apprezza.

La connessione ideale tra Hofmannsthal e Weil si intesse anche su un piano più profondo e ha forti ripercussioni sul modo in cui Campo li interpreta e li presenta al suo pubblico. Per esempio, il 22 maggio 1954, nello spedire a Remo Fasani la sua versione di Manche freilich… (la sola poesia di Hofmannsthal da lei tradotta oltre alla Ballade des äußeren Lebens), definisce il componimento come il «poema della gravità e della grazia» (Campo 2010b, 93) con un lampante rimando al titolo del libro di Weil La pesanteur et la grâce (che corregge la traduzione datane da Fortini). Non è solo un bisticcio giocato sulla dialettica tra schwer e leicht, cioè tra «grave» e «leggero» su cui è strutturato il componimento, bensì un segno eloquente della stretta corrispondenza che c’è, nell’ideale di Campo, tra i suoi due autori preferiti. Lei stessa, del resto, tende a immedesimarvisi: la versione di Manche freilich… avrebbe dovuto chiudere la prima raccolta di poesie originali della stessa Campo, Passo d’addio (cfr. la lettera a Traverso del 10 ottobre 1955, in Campo 2007, 25), con un chiaro gesto appropriante.

L’amore per Hofmannsthal, insieme a quello per Weil, nutre e stimola altre letture. Ad esempio, il trattato hofmannsthaliano Shakespeares Könige und große Herren serve da accompagnamento allo studio del bardo inglese e alla redazione di un articolo intitolato La gravità e la grazia nel Riccardo II. Se il riferimento a Simone Weil è immediato ed esibito, solo il carteggio con Fasani tradisce la presenza recondita di Hofmannsthal dietro le pagine shakespeariane di Campo. Scrive a Fasani il 22 dicembre 1951: «Ora leggo Shakespeare. Quando avrò un po’ di danaro le regalerò gli Écrits en prose di Hofmannsthal presentati da Du Bos, dove, oltre alla Lettera di lord Chandos è anche il saggio Re e gran Signori in Shakespeare — esempio perfetto della sola prosa moderna comparabile a quella della Attente de Dieu» (Campo 2010a, 35). Il saggio su Shakespeare (ora in Campo 2010b, 23-30) è pronto appena un mese dopo

Anche se questo rapporto sembra rimanere un fatto in prevalenza privato, i lineamenti della ricezione di Hofmannsthal in Italia consentono di avanzare alcune ipotesi sul contributo effettivo offerto da Cristina Campo alla fortuna dello scrittore austriaco nel nostro paese. Per quasi tre decenni, dagli anni trenta fino alla fine degli anni cinquanta, il nome di Hofmannsthal è di fatto un monopolio di Leone Traverso, che ne media gli scritti prima in rivista e poi in volume. Tuttavia, l’operazione non ha lo stesso impatto, ad esempio, dell’importazione di Rilke. Quando, nel dopoguerra, Enrico Cederna si avventura nella pubblicazione delle opere complete hofmannsthaliane, l’impresa conduce l’editore addirittura alla bancarotta. Si è poi accennato alla scarsa eco della collana «Cederna» di Vallecchi, che dopo il fallimento della casa milanese ne riprende il catalogo, Hofmannsthal compreso. Nonostante questa serie di insuccessi, nel 1971 Rusconi decide di ristampare in versione riveduta e corretta i Piccoli drammi originariamente apparsi nel 1922 a cura di Ervino Pocar presso Carabba. Appare estremamente probabile che ciò avvenga su suggerimento di Cristina Campo, proprio in quel periodo consulente di Rusconi. Certo, ciò non è ancora insufficiente a garantire il definitivo approdo di Hofmannsthal nel canone della letteratura tedesca in Italia. Ben altro discorso è la progressiva inclusione delle sue opere nel catalogo Adelphi, che prende piede a partire dal 1970. Si tratta, con qualche piccolo ma decisivo aggiustamento, di quello stesso Hofmannsthal mistico custodito per anni da Campo e da pochi altri adepti di un culto che, come quello per gli scritti della stessa Vittoria Guerrini, si apre davvero al grande pubblico solo grazie all’inserimento nella cornice Adelphi.

La collaborazione con Christine Koschel e Inge von Weidenbaum

Un episodio a sé è l’incontro, risalente alla fine degli anni sessanta, tra Cristina Campo e due scrittrici tedesche stabilitesi in Italia, Christine Koschel e Inge von Weidenbaum, partecipi della cerchia romana di Ingeborg Bachmann, della quale cureranno il lascito. Il fattore aggregante è in questo caso l’opera di Djuna Barnes, che Campo, Koschel e Weidenbaum si provano a tradurre, rispettivamente, in italiano e in tedesco. Quasi in contemporanea, Campo volge in italiano poesie della stessa Koschel, collaboratrice fissa della rivista di Zolla «Conoscenza religiosa». La mancata canonizzazione di Koschel, almeno in Italia, fa sì che le versioni non vengano accolte insieme a tutte le altre di Campo nel volume La Tigre Assenza, con rammarico di alcuni critici (Anelli 2004; Scuderi 2002, 14).

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