di Teresa Franco
La formazione
Poeta, traduttore e giornalista, Giovanni Giudici (La Spezia 1924 – Le Grazie 2011) lega il suo nome soprattutto a Milano, sua città adottiva. La sua formazione avviene, però, a Roma, dove si trasferisce dalla Liguria nel 1933, ancora bambino, e vive gli anni più drammatici della storia del Novecento. Nel «pontificio collegio» rievocato in una celebre poesia (Te Deum, in Giudici 2008, 396-400) compie parte degli studi, e nel quartiere popolare di Montesacro, immortalato nelle pagine di una prosa narrativa, trascorre sia l’infanzia fascista sia la giovinezza dell’impegno antifascista (Giudici 1989, 110-133). Nel 1941, su consiglio del padre, Giudici si iscrive alla facoltà di medicina, ma i suoi veri interessi sono letterari e, ancor prima di comunicare la cosa in famiglia, inizia a seguire i corsi di lettere classiche (Di Alesio 2000, LII). All’università si dà allo studio della letteratura francese, lingua con cui ha dimestichezza, come dimostrano gli appunti di lettura e le note personali. Nel Giornale intimo (Giudici 2009, 193), in data 1° dicembre 1944, registra di aver passato brillantemente l’esame di francese, e in questa materia decide di laurearsi, con una tesi su Anatole France (Di Alesio 2000, LV). Al francese dedica i primi interventi critici, sotto la guida di Ernesto Bonaiuti e grazie ai mezzi della biblioteca dell’Istituto di Cultura francese (Giudici 1992, 57-8); sul francese compie i primi tentativi di traduzione, sperimentando tuttavia la difficoltà di reinventare il testo secondo criteri compositivi nuovi. Avverte la necessità di porre una distanza oggettiva, ma allo stesso tempo sentimentale, tra sé e il testo da tradurre, e in nome di questa necessità arriverà a frequentare lingue poco conosciute: il russo, il ceco e soprattutto l’inglese (Giudici 1996, 20-33). All’idea del gap, spesso citato negli interventi sulla traduzione, si deve affiancare anche il recupero del concetto crociano di «nostalgia» dell’originale, che Giudici estende anche a ciò di cui sente di avere conoscenza parziale e lacunosa.
Come per molti intellettuali del Novecento, anche per lui il primo contatto con la cultura anglofona avviene nel periodo della guerra, e in particolare nel momento della liberazione di Roma quando, non ancora ventenne, appena entrato nella Guardia di Finanza, attende insieme a una folla in festa l’arrivo degli americani:
In quel pomeriggio del 4 giugno [1944], Roma era di fatto già libera, ma gli Americani stentavano a farsi vedere: qualche pattuglia si era affacciata (dicevano) sull’Appia Nuova, dalle parti dell’Acquasanta, magari già all’Alberone…
Forse restavano ancora dei Tedeschi in città. Quasi c’era da sospettare che gli uni e gli altri, Americani e Tedeschi, stessero come giocando a chi prima metteva fuori il naso. Diversi erano gli stati d’animo dei Romani che aspettavano gli Americani che erano aspettati: quelli non vedevano l’ora, questi avevano avuto forse l’istruzione di andarci cauti. In guerra, come in pace le sorprese non mancano mai. (La presa di Roma, Giudici 2008, 1186-87)
A questo momento storico – e all’episodio personale che ne sarebbe derivato, l’incarico di sorvegliare un prigioniero tedesco – risalgono una serie di memorie, visive e sonore, che formano l’immaginario del poeta. L’idea del “nemico”, e del suo essere poco riconoscibile, ha origine in quel forzato faccia a faccia di Giudici ragazzo con il prigioniero suo coetaneo, poi reiterato in altri successivi incontri: «Raus! Raus! – sbraitavano quelli | sfondando porte, scardinando infissi… | Com’è possibile oggi tanto gentili e belli?» (L’autostop, in Giudici 2008, 136-7). Ma è soprattutto il fascino della lingua straniera a insinuarsi nei suo versi fin da questi lontani ricordi, si tratti delle insegne alleate («WAR CORRESPONDENT, in caratteri metallici appuntati sulla camicia», nota il poeta durante La presa di Roma, Giudici 2008, 1189) o di singole parole imitate, storpiate, talvolta dissolte nei suoni e nei gesti, come la ritmica marcia del «misterioso reggimento» americano (Visitazioni, in Giudici 2008, 551-552).
Nei febbrili anni del dopoguerra, ormai non più lo «stanco milite senza | colpa e senza virtù» (Giallo Tersite, in Giudici 2008, 1287), Giudici inizia un’intensa attività culturale. Collabora con molte riviste, sia politiche – di area socialista – sia letterarie. Nel 1948, già giornalista professionista, viene assunto nello United States Information Service, l’ente culturale dell’ambasciata americana dove inizia la gavetta come traduttore di servizio:
Le mie nozioni di lingua inglese erano, lo ripeto, di una desolante povertà; non ero ancora passato attraverso i sei e più anni in cui avrei lavorato come traduttore (di prosa ahimè, di propagandistica/prosa!) in un ufficio americano dove l’inglese lo appresi, sì, abbastanza bene, ma un inglese comunque soltanto scritto e letto in silenzio… (Giudici 1996, 23)
Nel 1953 stabilisce una regolare collaborazione con «La Fiera letteraria», sulla quale tiene una sorta di rubrica dedicata alle novità inglesi/americane e talvolta scrive più lunghi reportage, intervistando alcuni poeti e narratori americani. Si pensi agli articoli su Steinbeck (7 novembre 1954) e su Faulkner (18 settembre 1954) entrambi in visita in Italia, ma soprattutto ai primi poeti contemporanei da lui tradotti tra il 1954 e i 1955: Peter Viereck, Richard Wilbur e Karl Shapiro. I rapporti con i colleghi americani sono facilitati grazie ai numerosi programmi di scambio organizzati dall’Usis e all’amicizia con Viereck, con il quale Giudici corrisponde in questi anni, dando prova del suo inglese impiegatizio, ma anche della sua intraprendenza come mediatore culturale. Un riconoscente Viereck gli scrive il 25 marzo del 1955: You are doing more than anyone else in Italy […] to help make American poetry and ideas available to Italian intellectuals [ (Franco 2020, 81: «stai facendo più di ogni altro in Italia per far sì che la poesia e le idee americane siano accessibili agli intellettuali italiani» – traduzione mia). Agli interventi sulla «Fiera letteraria» (dove nel luglio 1954 pubblica anche le traduzioni da John Donne) si affiancano quelli su «Mondo occidentale», la rivista mensile dell’Usis, che mira a consolidare l’amicizia tra i due paesi facendo collaborare scrittori italiani e americani, e rappresenta per Giudici anche un’importante rete di contatti con americanisti e anglisti di professione (Paccagnini 2016). In questa sede pubblica un articolo su Emily Dickinson nel 1957 e un altro su Hart Crane nel 1958, accompagnati da una prova di traduzione: una delle otto poesie di Emily Dickinson che appariranno nel primo quaderno di traduzione; e Island quarry (La cava dell’isola) di Hart Crane, mentre il poemetto Voyages dello stesso autore uscirà in edizione limitata (Nel mare dei Caraibi, strenna per gli amici di Paolo Franci, Milano, All’Insegna del Pesce d’oro, 1966). Emily Dickinson, studiata anche in confronto alle traduzioni esistenti, pone Giudici di fronte alla scelta di accettare irregolarità grammaticali ed errori (Franco 2012) innovando la lingua (Satta Centanin, 1995; Blakesley, 2014).
Eliot e la funzione della poesia
Questa fase di collaborazioni è preceduta da un periodo di studio, in cui emerge uno spiccato interesse per l’opera di T.S. Eliot, come attestano i quaderni e i taccuini. L’attenzione per questo poeta non è limitata a un solo momento (Neri 2014; Franco 2016), ma comincia sicuramente alla fine degli anni quaranta, quando Giudici non ha ancora trovato una voce propria. Eliot si afferma allora come modello di poesia “modernista”, agendo su vari livelli. Dal punto di vista poetico, Eliot è maestro di quella versificazione spontaneamente musicale a cui Giudici aspira quasi senza saperlo, e che così descrive: «una voce dove passione e ironia e malinconia si contemperano, una straordinaria sapienza di modulazione, il tono fermo di quella “fuga dall’emozione” in cui l’autore di The Waste Land soleva indicare il segreto della poesia» (Giudici 1992, 60). Sul piano traduttivo, invece, sarà proprio Eliot a determinare un cambio di rotta, a spostare cioè gli interessi di Giudici dalla lingua francese (familiare) a quella inglese (parlata poco e male):
Ed ecco che, rovistando tra le vecchie carte non ancora cestinate, trovo una mia assai poco brillante traduzione delle prime due sezioni di Ash-Wednesday di T.S. Eliot, della cui datazione non sono completamente certo; doveva essere intorno al 1947, epoca in cui la conoscenza dell’inglese in Italia non era abbastanza diffusa e la mia in ispecie si trovava ad uno stadio più che primordiale. Ma come allontanare da me la tentazione di affrontare con l’ausilio di un dizionarietto da conversazione, un testo di Eliot, a quel tempo il più celebre e celebrato poeta vivente di lingua inglese? (Giudici 1996, 23)
Delle due poesie (Ash-Wednesday e The Cultivation of the Christmas Trees), tradotte appunto nel 1947 ma apparse in volume solo nel 1997, esistono prove intermedie inedite (Franco 2016). Indizi di una lettura attenta e integrale, che va dalla poesia al teatro e ai saggi, sono disseminati ovunque. Nel Quaderno 1949-1954 (Giudici 2015), per esempio, troviamo riferimenti sparsi a The Waste Land e ai Four Quartets, a varie raccolte di saggi (The Sacred Wood, The Use of Poetry and the Use of Criticism, The Idea of a Christian Society) e ad alcune commedie, tra cui pagine di «osservazioni su The Family Reunion» (Giudici 2015, 62-66), e lunghe citazioni in inglese, riportate forse anche per semplice gusto della lingua. Mentre legge e interviene nel dibattito critico su Eliot, seguendo le opinioni di Eugenio Montale, Giudici traduce all’occorrenza frammenti dell’opera per suo uso privato. Nell’articolo La via della saggezza («La Fiera letteraria», 2 maggio 1954), dedicato a The Confidential Clerk, una commedia poco nota in Italia, Giudici individua per la prima volta il motivo della «lingua strana della poesia», e il sentirsi diverso del poeta, una condizione psicologica di cui il traduttore immediatamente si appropria, legittimando la sua pratica traduttiva attraverso il gioco di parole strano/straniero e sviluppando la metafora nei suoi versi.
Eliot offre anche un modello di impegno “sociale”, come documenta un saggio del 1945 che ha il titolo eloquente di The Social Function of Poetry (Funzione sociale della poesia). Alla riflessione sociologica sulla letteratura e alla funzione dell’intellettuale, naturalmente, Giudici arriva anche per esperienza diretta dell’industria culturale, collaborando prima con l’Usis, come abbiamo visto, poi, dal 1956, con l’Olivetti (Carter 2019). Eliot sosteneva che il poeta dovesse sentirsi responsabile principalmente verso il suo mezzo di espressione, e dovesse lavorare al fine di migliorare la lingua, e solo indirettamente la società. Giudici ha certo in mente Eliot quando suggerisce la distinzione tra «funzione» (piena libertà) e «ruolo» (libertà limitata dal potere) dell’intellettuale in senso lato (Giudici 1976, 12-13). Se negli anni olivettiani Giudici crede ancora possibile un compromesso tra le due posizioni, in seguito tende a separarli, declassando il «ruolo» a quello di «modeste mansioni» (ancora un calco eliotiano per minor responsibilities), cioè arrivando a preferire un incarico «quanto più lontano possibile dal campo della letteratura» al fine di non alienare nulla o quasi nulla della propria vocazione (Giudici 1992, 66-68).
L’umile esercizio del tradurre
Nel 1956 Giudici viene assunto all’Olivetti, dove rimarrà per tutta la sua carriera, transitando per varie sedi. Passato brevemente per Ivrea e per Torino, si stabilisce definitivamente a Milano il 14 luglio 1958: «Un quattordici luglio io sbarco in questa città | Pago un caffè e un giornale: | Miramilano miracolosa | Tutto cambiato e uguale!» (Vent’anni, in Giudici 2008, 541-542). La traduzione gli consente di avere una funzione intellettuale in senso eliotiano, sia creando una sorta di continuità tra la letteratura del presente e quella del passato, sia emancipandolo dai puri doveri d’ufficio attraverso l’esercizio linguistico. Non sono rare in questa fase traduzioni ispirate a eventi della comunità olivettiana o realizzate durante l’orario di lavoro, come quella del poemetto H. S. Mauberley di Ezra Pound («Il Verri», n. 3, III, 1959, poi All’Insegna del Pesce d’Oro, 1959). Sulle circostanze che lo portano a incontrare Pound, prima solo attraverso i libri, poi anche di persona, Giudici non lesina dettagli. L’episodio dell’incontro fisico, più volte raccontato, entra addirittura a far parte dell’“autobiografia” a causa di un’ammissione di colpevolezza. Confrontandosi con un autore vivente ed enigmatico come Pound, Giudici avverte le implicazioni morali (e perfino giuridiche, direi) del tradurre; sente cioè maggiormente la responsabilità del testimone, il quale comunica il testo originale a un gruppo di nuovi lettori:
Il fatto è che, dopo quel mio primo misurarmi (nel 1958, a Torino) col Mauberley, durante una pausa di quasi disoccupazione, a Torino, io decisi, chissà, forse per ingannare l’ansia o la noia, di tradurre tutto il Mauberley, benché non potessi dire di averne colto compiutamente il senso e il significato di non poche parti. […] La traduzione era piena zeppa di errori – errori, appunto, di significato, di senso – e Pound conosceva l’italiano abbastanza bene da accorgersene a prima vista; ma probabilmente doveva esserci, in quella versione, qualcosa di fondamentalmente non sbagliato, di fondamentalmente fedele al «tono» dell’originale, se il vecchio Maestro, notoriamente di carattere tutt’altro che facile, arrivò a ringraziarmi e ad apporre sul volumetto una dedica: «A G. il Risponsabile», della quale però proprio adesso avverto la sottile ambiguità. Non avrà, infatti, voluto dire che ero io, e non lui autore dell’originale, il «risponsabile» di tutte le sciocchezze e gli errori di quella traduzione? (Giudici 1996, 24-25)
Nessuno meglio di Pound, poeta vessato da più gravi responsabilità storiche, poteva insegnare a Giudici che tradurre, anche quando assolve a una pratica privata, è sempre un atto sociale. Se Eliot è presente nella poesia di Giudici attraverso vari rimandi, Pound lo è soprattutto in quanto personaggio storico. Un componimento tardo si intitola appunto Una copia del Mauberley (Giudici 2004, 65), ma il poeta americano compare anche in Fortezza (Giudici 2008, 887) e nell’unico testo scritto per la scena: Il Paradiso. Perché mi vinse il lume d’esta stella. Satura drammatica (Giudici 1991). Riabilitare la figura di Pound, colpito da condanne giudiziarie e politiche per aver sostenuto fino all’ultimo, risiedendo in Italia, le ragioni del fascismo, è sicuramente il proposito che Giudici condivide con l’amico Vanni Scheiwiller, editore di poeti e raffinato mediatore di letteratura straniera in Italia. Il carteggio tra i due rivela quanto Giudici partecipasse ai progetti della casa editrice, inviando traduzioni e ricevendo in cambio il dono di qualche libro e soprattutto l’incoraggiamento a proseguire con i suoi esercizi. Assecondando vari progetti di antologie e raccolte, Giudici entra in un canone di poeti-traduttori di prestigio, da Montale a Ungaretti, da Sereni (interlocutore di questi anni anche sul fronte della poesia) a Bertolucci e molti altri. Traduce alcuni classici (Milton, Dryden), vari moderni (G.M. Hopkins, Hart Crane, Robert Graves, Lowell) e naturalmente T.S. Eliot e Ezra Pound (Franco 2020).
L’autorialità del traduttore
Riflettendo a posteriori sulla sua lunga carriera e partecipando a vari incontri dedicati alla traduzione, Giudici ha distinto i poeti tradotti «per amore» da quelli tradotti «per commissione» (Giudici 1996, 20-33). Il processo della traduzione può attuare un felice cambio di status. È il caso di Robert Frost, che Giudici accetta di tradurre tra il 1962 e il 1963 dietro suggerimento di Franco Fortini, suo collega all’Olivetti, senza saper molto del poeta americano (Giudici 1982, XIV, e 1996, 26-27). Il volume di Frost, Conoscenza della notte e altre poesie, esce per Einaudi nel 1965 solo qualche mese prima del capolavoro di Giudici, La vita in versi (Mondadori 1965), raccolta che rappresenta, a detta dell’autore stesso, il suo vero esordio poetico. Il lavoro parallelo sui versi propri e su quelli tradotti ha l’effetto di liberare il poeta dalla «maledizione di quell’endecasillabo sardina-sottolio», verso il quale, in tempi di avanguardia, sono in molti a sentire insoddisfazione (Giudici 1982, IX).
Negli anni 1970 escono i due «Specchi» Mondadori: le poesie del “sudista” John Crowe Ransom (1971) e una scelta di versi di Sylvia Plath (1976), per la quale, nel 1977, Giudici riceve il prestigioso premio Monselice (la giuria, presieduta da Gianfranco Folena, è composta da Cesare Cases, Elio Chinol, Carlo Della Corte, Igino De Luca, Emiliana Fabbri, Mario Luzi e Filippo Maria Pontani). Al primo il traduttore è portato da una certa affinità fra le teorie strutturaliste (a cui Giudici si interessa attraverso il critico sovietico Yuri Tynianov) e il metodo del New Criticism, di cui Ransom è un esponente di spicco. Diversamente dalle traduzioni in rivista, la resa di interi volumi richiede maggiori competenze. Affidandosi al Problema del linguaggio poetico di Tynianov, tradotto insieme a Ljudmila Kortikova (Giudici, Kortikova 1968), Giudici impara a riconoscere, tra i «principi fondamentali» del testo, quello costruttivo che guiderà la sua traduzione. La voce del traduttore si rafforza proprio a partire da una maggiore fedeltà al testo tradotto (Zucco 2003b). Ma non solo. Tradurre un volume impone criteri organizzativi meno “artigianali”, un’attenzione agli apparati, una mediazione con le politiche della casa editrice. Giudici è spesso affiancato da consulenti editoriali, ma continua ad affidarsi anche alla consulenza degli amici (Giudici 1992, 46-49).
Negli anni della sua maggiore affermazione autoriale, la cerchia dei consulenti si amplia. Tra i nuovi amici di Giudici c’è l’anglista Massimo Bacigalupo, con il quale riconsidera progetti antichi e ne inizia di nuovi. La prima occasione di collaborazione riguarda la revisione del poemetto poundiano Hugh Salwyn Mauberley (Il Saggiatore, 1982) che viene emendato dagli “errori” confessati dal traduttore e si arricchisce di un dettagliato apparato critico. Pure le versioni di Robert Frost sono sottoposte a revisione e ampliamento, e dotate di una nuova veste grafica (Conoscenza della notte e altre poesie, Mondadori, 1988). Il traduttore si lascia guidare, abbandona modi convenzionali per accogliere le stranezze della lingua (Bacigalupo 1997). A partire dal 1983 Bacigalupo aiuta Giudici a ultimare La rima del vecchio marinaio, da Coleridge, pubblicata dal Saggiatore nel 1987, insieme alla traduzione del Kubla Khan, dopo che una versione di servizio è stata realizzata per alcuni cortometraggi Rai nel 1980, e alcuni capitoli inclusi nel primo quaderno di traduzione (Giudici 1982, XV). Giudici è attratto dal genere anglosassone della ballata (Organte 2018), ma Coleridge esercita su di lui un vero e proprio richiamo al canto popolare: un desiderio di semplicità, di forme narrative (romantic, appunto), la riscoperta della rima e della quartina quale unità strofica elementare (si veda il saggio Design in versi, in Giudici 1996, 13-19), la distinzione tra poesia, l’insieme, il tutto, e il “poema”, cioè la singola esecuzione (come poem) (Giudici 1992, 35-36).
Tra i progetti nuovi condivisi dai due amici ci sono Wallace Stevens e William B. Yeats. Del primo ci rimane la traduzione di tre poesie, che Giudici regala al critico Gianfranco Folena, in occasione di un convegno nel 1990, riconoscendo in quel «ritmo vagamente barbaro» la sua cifra stilistica (ora in Giudici 1997; si veda la lettera al critico, ivi, 185-8). Del poeta irlandese W. B. Yeats, raffigurato nei versi di Biografie (Giudici 2008, 1004-06) e molto presente nella riflessione teorica, Giudici inizialmente intendeva tradurre la raccolta The Tower, ma è costretto a fermarsi dopo pochi componimenti, alcuni dei quali confluiti in quaderno (Giudici 1982), altri ritrovati tra le carte inedite (Corcione 2014).
Giudici ha spesso accostato versi tradotti a versi propri (La stazione di Pisa, 1955, o Poesie Scelte, 1975) e non ha disdegnato forme ibride tra poesia, prosa e traduzione (Zucco 2003). A partire dagli anni ottanta, si preoccupa di dare dignità letteraria ai suoi esercizi raccogliendoli in un quaderno di traduzioni: Addio, proibito piangere e altri versi tradotti esce nella collana einaudiana nel 1982 (la composizione che dà il titolo alla raccolta è tratta da John Donne). Tuttavia, l’abitudine alla disciplina consente al traduttore di espandere la rosa degli autori tradotti, che negli ultimi anni include anche alcuni sonetti di Shakespeare (Giudici 2002 e 2004). Le traduzioni nuove e antiche si sistemano in un secondo quaderno del 1997, A una casa non sua (titolo preso da Robert Graves), curato da Massimo Bacigalupo per Mondadori, e poi in un terzo Vaga lingua strana. Dai versi tradotti (il titolo è un verso dello stesso Giudici), con introduzione di Rodolfo Zucco, nel 2003 per Garzanti (sui criteri compositivi dei tre volumi cfr. Blakesley 2011).
Giudici ha iniziato il viaggio verso una lingua e una cultura straniera da autodidatta, avvertendo una grande distanza tra sé e i testi da tradurre e un forte desiderio di “frugarne” i misteri. Alla fine del viaggio la distanza è percorsa, ma il traduttore continua a sentirsi un dilettante, qualcuno che ha osato parlare attraverso la maschera di un altro («Maschera della maschera è la lingua straniera» recita un verso di Rappresentazione di sé nell’atto di rappresentarsi colpevole e compiacente, in Giudici 2008, 344-345). Il poeta ammette di essersi avvicinato agli autori stranieri spinto dal caso o per forza di una commissione (appartengono a questa categoria tutti i poeti inglesi o americani, ad eccezione di Coleridge). Pochi invece i lavori portati avanti per puro diletto o per amore di un ideale: il «romanzo in versi» di Puškin, e la poesia di Jíří Orten che Giudici traduce dal ceco a quattro mani con l’amico Vladimír Mikeš. Proprio attraverso il gesto avventuroso e disciplinato del tradurre («Testo originale a sinistra, macchina per scrivere davanti a me e dizionario Webster sulla destra» – Giudici 1996, 27), e la riconquista di una forma, il poeta riesce a rendere l’incerto balbettio in un poetico vagheggiare.
Bibliografia
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Carter 2019: Jim Carter, Salaried intellectuals: Fortini, Giudici, Ottieri, Volponi, and Buzzi at the Olivetti Company, in «Italian Culture», 37, 1, 2019, pp. 47-63
Corcione 2014: Riccardo Corcione, Giudici nel ritmo di Yeats. Traduzioni inedite dalla raccolta The Tower, in «Lettere italiane», Vol. 66, No. 2, 2014, pp. 213-241
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Franco 2012: Teresa Franco, La forza dell’‘errore’. Poesia e traduzione in Giovanni Giudici, in «Italianistica», XLI, n. 2, 2012, 91-109
– 2016: Teresa Franco, «Qui sta il ricco e lo strano». Giudici traduttore di Eliot, in Giovanni Giudici. I versi, la vita. Atti del convegno, La Spezia, 12-13 settembre 2013, a cura di Paola Polito e Antonio Zollino, in «Memorie dell’Accademia lunigianese di scienze “G. Capellini”», LXXXV, 2016, pp. 271-286
– 2020: Teresa Franco, La lingua del padrone. Giovanni Giudici traduttore dall’inglese, Soveria Mannelli, Rubbettino
Giudici 1976: Giovanni Giudici, La letteratura verso Hiroshima, e altri scritti (1959-1975), Roma, Editori Riuniti
– 1982: Giovanni Giudici, Addio, proibito piangere e altri versi tradotti (1955-1980), Torino, Einaudi
– 1989: Giovanni Giudici, Frau Doktor, Milano, Mondadori
– 1991: Il Paradiso. Perché mi vinse il lume d’esta stella. Satura drammatica, Genova, Costa & Nolan
– 1992: Giovanni Giudici, Andare in Cina a piedi. Racconto sulla poesia, Roma, Edizioni E/O
– 1996: Giovanni Giudici, Per forza e per amore, Milano, Garzanti
– 1997: Giovanni Giudici, A una casa non sua, a cura di Massimo Bacigalupo, Milano, Mondadori
– 2002: 14 x 14. Dai Sonetti di Shakespeare tradotti da G. Giudici, Bocca di Magra, Edizioni Capannina
– 2004: Giovanni Giudici, Da una soglia infinita, Prove e poesie 1983-2002, a cura di Eugenio De Signoribus, introduzione di Carlo Di Alesio, note di Rodolfo Zucco, Casette d’Ete, Grafiche Fioroni
– 2008: Giovanni Giudici, I versi della vita [2000], a cura di Rodolfo Zucco, con un saggio introduttivo di Carlo Ossola, cronologia di Carlo Di Alesio, apparato critico di Rodolfo Zucco, Milano, Mondadori
– 2009: Giovanni Giudici, Agenda 1960 e altri inediti, a cura di Carlo Di Alesio e Rodolfo Zucco, in «istmi», n. 23-24
– 2015: Giovanni Giudici, Quaderno 1949-1954, introduzione, trascrizione e note di Teresa Franco, in Giovanni Giudici, ovvero le fondamenta dell’opera, in «istmi», a cura di Carlo Londero, n. 35- 36
Neri 2012: Laura Neri, Fedeltà e distanza della lingua poetica. Giudici traduttore di Eliot, in «Letteratura e letterature», n. 6, 2012, 95-102
Organte 2018: Laura Organte, Luzi, Giudici, Fenoglio as translators of Coleridge, in Echoing Voices in Italian Literature: Translation and Tradition in 20th Century, a cura di Teresa Franco e Cecilia Piantanida, New Castle Upon Tyne, Cambridge Scholars 2018, p. 284-300
Paccagnini 2016: Ermanno Paccagnini, Giudici giornalista di «Mondo Occidentale» (1954-1956) e «Comunità» (1956-1963), in Giovanni Giudici. I versi, la vita. Atti del convegno, La Spezia, 12-13 settembre 2013, a cura di Paola Polito e Antonio Zollino, in «Memorie dell’Accademia lunigianese di scienze “G. Capellini”», LXXXV, 2016, pp. 159-190
Satta Centanin 1995: Antonello Satta Centanin, Mistero, distanza e sardine sott’olio: teoria e pratica della traduzione in Giovanni Giudici, «Hortus», 18, 1995, 99-110
Giudici, Kortikova 1968: Yuri Tynianov, Il problema del linguaggio poetico, Milano, Il Saggiatore, 1968 (trad. di G. Giudici e L. Kortikova, I Problema stichotvornogo jazyka)
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