I quattro problemi del «traduttore della lettera»

LESSICALE, GRAMMATICALE, RETORICO E RITMICO

di Alberto Bramati

1. Traduzione del senso / traduzione della lettera

In Occidente la riflessione sulla traduzione si è fin dalle origini caratterizzata per l’opposizione tra il senso e la lettera. Citando Cicerone, Gerolamo (1993, 66) afferma nella Epistola LVII ad Pammachium, scritta alla fine del IV secolo d. C.:

nelle mie traduzioni dal greco in latino, eccezion fatta per i libri sacri, dove anche l’ordine delle parole racchiude un mistero, non miro a rendere parola per parola, ma a riprodurre integralmente il senso dell’originale.

Alla traduzione della lettera del testo (una parola per una parola, cercando addirittura di rispettarne l’ordine) si oppone così la traduzione del senso (un’idea per un’idea).

Molti secoli più tardi, la stessa opposizione si ritrova nel testo della conferenza letta il 24 giugno 1813 all’Accademia Reale delle Scienze di Berlino da Friedrich Schleiermacher (1993, 153), Sui diversi metodi di tradurre: «O il traduttore lascia il più possibile in pace lo scrittore e gli muove incontro il lettore, o lascia il più possibile in pace il lettore e gli muove incontro lo scrittore». Lasciare il più possibile in pace il lettore corrisponde alla traduzione del senso: il traduttore coglie il senso di ogni frase e lo riformula nel modo per lui più naturale nella lingua d’arrivo. Tradurre il senso significa allora fare astrazione dalla lettera del testo originale, dal “corpo” delle parole che lo compongono. In questo modo, sarà necessariamente l’autore a spostarsi verso il lettore in quanto la struttura della frase tradotta non avrà più un rapporto diretto con la struttura della frase originale, ma rappresenterà solo la struttura più “normale” nella lingua d’arrivo per esprimere il senso della frase originale. Ne consegue che da un lato, il senso del testo originale sarà inevitabilmente influenzato, modificato o addirittura deformato dalle strutture della lingua d’arrivo, dall’altro ogni forma d’influenza della lingua di partenza sulla lingua d’arrivo viene necessariamente esclusa.

Al contrario, fare in modo che il lettore vada incontro allo scrittore corrisponde alla traduzione della lettera: il traduttore cerca in questo caso di riprodurre nel testo d’arrivo l’insieme delle caratteristiche linguistiche del testo di partenza (lessico, sintassi, figure retoriche, ritmo). Tradurre la lettera significa allora sforzarsi di adattare la lingua d’arrivo all’espressione della complessità del senso del testo originale, un senso che passa innanzitutto attraverso l’uso di certe parole (dotate non solo di un significato ma anche di un significante, cioè di un suono e di una forma specifici), poi attraverso la scelta di certe strutture sintattiche (che esprimono un certo punto di vista, una certa rappresentazione della realtà, una certa visione del mondo), infine attraverso il ricorso a certe figure retoriche (figure di parola e figure di pensiero) e a un certo ritmo proprio di un dato tipo di scrittura. In questo modo, sarà il lettore a spostarsi verso lo scrittore in quanto la lingua d’arrivo si aprirà allora all’influenza della lingua e della cultura di partenza.

Nella pratica del mestiere di traduttore, la traduzione del senso e la traduzione della lettera rappresentano due poli che esistono solo in astratto: di fatto, i traduttori che seguono il criterio del senso non dimenticano mai completamente la lettera del testo di partenza così come quelli che seguono il criterio della lettera sono necessariamente portati, in vari punti del proprio testo, a modificare il lessico, la sintassi, le figure retoriche e il ritmo dell’originale per tenere conto delle esigenze della lingua d’arrivo. I due diversi approcci daranno quindi alla fine lo stesso risultato? Io credo di no: mentre il “traduttore del senso” tende a riscrivere il testo di partenza secondo la propria concezione della lingua d’arrivo, e quindi a cancellare la maggior parte delle caratteristiche linguistiche dell’originale, il “traduttore della lettera”, pur essendo anch’egli obbligato a modificare in vari punti della sua traduzione il lessico, la sintassi, le figure retoriche e il ritmo del testo di partenza, interverrà solo là dove è realmente necessario, sforzandosi per il resto di riprodurre le scelte lessicali, sintattiche, retoriche e ritmiche dell’originale. Il risultato non sarà lo stesso.

La traduzione della lettera non corrisponde quindi a una traduzione parola per parola ma rappresenta piuttosto il tentativo di riprodurre nel testo d’arrivo il maggior numero possibile di caratteristiche lessicali, sintattiche, retoriche e ritmiche del testo di partenza, di quello che cioè si può chiamare il suo stile. Contro l’idea diffusa che lo stile costituirebbe uno scarto rispetto a una norma, sempre difficile se non addirittura impossibile da definire, io penso infatti che lo stile non sia altro che l’uso di un certo lessico concatenato, secondo certe regole grammaticali, in un certo tipo di strutture sintattiche; lessico e sintassi sono infatti anche gli elementi che compongono le figure retoriche nonché il ritmo che caratterizza ogni tipo di scrittura. Come afferma Joëlle Gardes Tamine nel suo studio La stylistique, lo stile non è altro che «un lavoro sulla lingua» (Gardes Tamine 2010, 5):

Estendere le possibilità della lingua, e non pervertirla o sovvertirla, come troppo spesso si dice, questo è quello che fanno gli scrittori. Ciò implica che lo studioso di stilistica, invece di definire lo stile come uno scarto etichettando i fatti grammaticali individuati in un dato testo come violazioni di un presunto codice rigido, li spieghi con le virtualità iscritte nella lingua (Gardes Tamine 2010, 10; traduzione mia).

Tradurre la lettera del testo significa quindi cercare di riprodurre il suo stile nel testo d’arrivo. Il traduttore che raccoglie questa sfida incontrerà allora inevitabilmente quattro tipi di problemi : dei problemi di ordine lessicale, dei problemi di ordine grammaticale, dei problemi di ordine retorico e dei problemi di ordine ritmico. Descriverò ora più in dettaglio questi quattro tipi di problemi.

2. I quattro problemi del “traduttore della lettera”

2.1 I problemi di ordine lessicale

Ogni lingua è costituita da un insieme di parole, cioè da un lessico, il che implica, quando si traduce, due diversi problemi, uno al livello dei significanti, l’altro al livello dei significati. Cominciamo dai significanti: fatta eccezione per i pochi prestiti, i suoni che compongono le parole di ogni lingua sono diversi da quelli che compongono le parole equivalenti delle altre lingue. Ne segue che un traduttore incontra inevitabilmente nel suo lavoro dei problemi di ordine fonico e ritmico: ci tornerò sopra più avanti. Il livello del significato non pone meno problemi: i significati che sono codificati dalle parole di ogni lingua sono almeno in parte diversi dai significati che sono codificati dalle parole delle altre lingue, cosicché ogni lingua risulta povera di significati ogni volta che deve esprimere quelli che sono codificati dalle parole di un’altra lingua e non hanno corrispondente nella propria; ogni lingua cioè presenta delle lacune di ordine semantico rispetto alle altre lingue. Nell’articolo Aspetti linguistici della traduzione, Roman Jakobson (2002, 59) presenta la lista delle soluzioni di cui dispone un traduttore quando il lessico della lingua d’arrivo presenta una lacuna rispetto al significato di una parola della lingua di partenza:

Ogni esperienza conoscitiva può essere espressa e classificata in qualsiasi lingua esistente. Dove vi siano delle lacune, la terminologia sarà modificata e ampliata dai prestiti, dai calchi, dai neologismi, dalle trasposizioni semantiche, e, infine, dalle circonlocuzioni.

Applicando l’una o l’altra di queste cinque soluzioni, un traduttore può esprimere nella lingua d’arrivo qualsiasi significato codificato nel lessico della lingua di partenza. Ogni soluzione ha ovviamente delle conseguenze particolari a livello stilistico.

2.2 I problemi di ordine grammaticale

Secondo Jakobson, tuttavia, ciò che differenzia realmente le lingue non è la potenza semantica, cioè la capacità di esprimere un numero più o meno grande di significati, ma piuttosto l’insieme delle regole grammaticali che ogni locutore deve necessariamente rispettare nel proprio uso della lingua: «Le lingue differiscono essenzialmente per ciò che devono esprimere, non per ciò che possono esprimere» (Jakobson 2002, 61). Per Jakobson, tutte le lingue possono quindi esprimere ogni sorta di significati, ma non tutte le lingue devono esprimere gli stessi significati. Per esemplificare questo concetto, Jakobson prende in esame l’espressione del genere. I locutori di qualsiasi lingua, infatti, non scelgono il genere delle parole che compongono il loro lessico, il che ha conseguenze, per esempio, sul «modo di personificare o d’interpretare metaforicamente i nomi di esseri inanimati» (Jakobson 2002, 62). Nello stesso modo – si può aggiungere – i locutori non scelgono, all’interno del lessico della propria lingua, le categorie grammaticali interessate dall’espressione del genere, cioè le “parti del discorso” (nomi, aggettivi, verbi…) che devono necessariamente esprimere il genere: per esempio, se in francese il pronome clitico indiretto lui non esprime il genere (lui può infatti avere come antecedente sia un nome maschile che un nome femminile), in italiano l’uso del pronome clitico equivalente comporta obbligatoriamente l’espressione del genere (gli per il maschile, le per il femminile).

2.3 I problemi di ordine retorico e ritmico

Oltre ai problemi di ordine lessicale e grammaticale, un “traduttore della lettera” deve risolvere dei problemi di ordine retorico e ritmico. Nella tradizione occidentale, le figure retoriche sono divise in due grandi categorie, le figure di parola che riguardano il livello del significante (paronimia, omoteleuti ecc.) e le figure di pensiero che riguardano il livello del significato (metafora, litote ecc.). Già Leonardo Bruni, nel suo trattato De interpretatione recta (1420 ca), sottolineando l’importanza della riproduzione delle figure retoriche nel testo d’arrivo, precisava che le due categorie di figure non pongono al traduttore la stessa difficoltà:

E poiché due sono i generi di ornamenti – uno quello con cui si dà colore alle parole, l’altro quello con cui si dà colore al pensiero – l’uno e l’altro implicano difficoltà per il traduttore; maggiore comunque, la implicano i colori delle parole rispetto a quelli dei pensieri, per il fatto che spesso gli ornamenti di tal genere consistono in ritmi (Bruni 2004, 87-89).

Sfruttando i giochi fonici prodotti dalla messa in relazione dei significanti di certe parole (proprio ciò che cambia sempre nel passaggio da una lingua all’altra), le figure di parole implicano per il traduttore una maggiore difficoltà delle figure di pensiero che, invece, si fondano sulla messa in relazione dei significati delle parole (cosa che si può spesso riprodurre in un’altra lingua). Ma il problema su cui Bruni insiste maggiormente è quello del ritmo: non solo per suscitare un’emozione estetica ma anche per avere un’efficacia retorica, un testo deve possedere un ritmo appropriato che si fonda anch’esso sui suoni delle parole (numero e tipo di sillabe, posizione degli accenti), cosa che è molto difficile riprodurre nel testo d’arrivo:

difficilissimo poi è tradurre correttamente le opere che dal primo autore sono state scritte in maniera ritmica e raffinata. In una prosa ritmica è necessario procedere per membri, per incisi, per periodi, e stare molto attenti a che la proposizione finisca ben composta e connessa» (Bruni 2004, 87).

Per questa ragione, dopo aver risolto i problemi di ordine lessicale e grammaticale, il “traduttore della lettera” deve dedicare la maggior parte del suo tempo alla soluzione dei problemi di ordine retorico e ritmico.

3. La ricerca delle soluzioni

Per ogni tipo di problema, il “traduttore della lettera” deve trovare una soluzione. In alcuni casi, soprattutto quando il problema riguarda il livello del significante, quando cioè si tratta di un gioco fonico irriproducibile nella lingua d’arrivo, una soluzione può semplicemente non esistere e il traduttore si deve rassegnare a una déperdition, come dice Antoine Berman (2003, 59), cioè a una perdita. L’attività stessa del tradurre è del resto necessariamente votata al fallimento, nel senso che la traduzione perfetta non sarebbe altro che la riproduzione del testo originale: non una trascrizione meccanica ma l’esatta riscrittura del testo originale nella sua stessa lingua, esattamente come il Chisciotte di Menard nel racconto di Borges:

Chi insinua che Menard dedicò la vita a scrivere un Chisciotte contemporaneo, calunnia la sua chiara memoria. Non volle comporre un altro Chisciotte– ciò che è facile – ma il Chisciotte. Inutile specificare che non pensò mai a una trascrizione meccanica dell’originale; il suo proposito non era di copiarlo. La sua ambizione mirabile era di produrre alcune pagine che coincidessero – parola per parola e riga per riga – con quelle di Miguel de Cervantes (Borges 1955, 40).

Un paradosso per dire che ogni traduzione, anche quella più felice, comporta quindi sempre una perdita, che il traduttore deve imparare ad accettare.

Nella maggior parte dei casi, tuttavia, per risolvere uno dei quattro problemi di cui ho parlato, al traduttore si prospettano varie soluzioni, più o meno adeguate al tipo di testo su cui sta lavorando. Qui mi sembrano opportune due considerazioni: la prima è che la scelta della soluzione sarà inevitabilmente orientata dal tipo di testo su cui il traduttore starà lavorando. Uno stesso problema di ordine lessicale avrà soluzioni diverse a seconda che il termine da tradurre si trovi in un manuale, in un saggio, in un articolo di giornale, in romanzo, in una poesia ecc., e – all’interno di queste tipologie generali – in un dato manuale, in un dato saggio, in un dato articolo, in un dato romanzo, in una data poesia ecc. Voglio dire, cioè, che se esistono in generale delle differenze linguistiche che caratterizzano i diversi tipi di testi, all’interno di ogni tipologia, in particolare di quelle linguisticamente più complesse come il romanzo o la poesia, esistono differenze così marcate tra i singoli testi che la scelta della soluzione più adatta sarà determinata dalle singole caratteristiche del testo di partenza più che da quelle della tipologia generale a cui esso appartiene.

La seconda considerazione, con cui vorrei concludere, è che alla fine la ricerca e la scelta di una buona soluzione spettano esclusivamente al traduttore: dalla sua sensibilità linguistica e dalla sua intuizione creativa dipenderà la sua capacità, assolutamente unica e personale, di trovare una soluzione adeguata alle caratteristiche linguistiche del testo del partenza. È questo spazio di creatività, pur nel costante rispetto della forma dell’originale, a rendere impossibile la sostituzione del lavoro individuale del traduttore con quello anonimo e meccanico di un programma di traduzione automatica, in una parola di una macchina senza storia e senza emozioni.

Bibliografia

Berman 2003: Antoine Berman, La traduzione e la lettera o l’albergo della lontananza, Quodlibet, Macerata 2003 (traduzione italiana di Gino Giometto da Antoine Berman, La traduction et la lettre ou l’auberge du lointain, Seuil, Paris 1999).

Borges 1955: Jorge Luis Borges, Pierre Menard, autore del Chisciotte (1939), in Finzioni, Einaudi, Torino, 1955, pp. 36-47 (traduzione italiana di Franco Lucentini da Jorge Luis Borges, Ficciones, Editorial Sur / Emecé Editores, Buenos Aires, 1944).

Bruni 2004: Leonardo Bruni, Sulla perfetta traduzione, Liguori, Napoli 2004 (traduzione italiana di Paolo Viti da Leonardo Bruni, De interpretatione recta, 1420 ca).

Gardes Tamine 2010: Joëlle Gardes Tamine, La stylistique, Colin, Paris, 2010 (1992, 2005).

San Gerolamo 1993: San Gerolamo, Le leggi di una buona traduzione, in La teoria della traduzione nella storia, a cura di Siri Nergaard, Bompiani, Milano, 1993, pp. 63-71 (traduzione italiana di Umberto Morrica da Gerolamo, Liber de optimo genere interpretandi. Epistola 57 a Pammachio, 390 ca.).

Jakobson 2002: Roman Jakobson, Aspetti linguistici della traduzione, in Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano, 2002, pp. 56-64 (traduzione italiana di Luigi Heilmann e Letizia Grassi da Roman Jakobson, Essais de linguistique générale, Minuit, Paris 1963, raccolta di saggi a loro volta tradotti dall’inglese da Nicholas Ruwet).

Schleiermacher 1993: Friedrich Schleiermacher, Sui diversi metodi del tradurre, in La teoria della traduzione nella storia cit., pp. 143-179 (traduzione italiana di Giovanni Moretto da Friedrich Schleiermacher, Über die verschiedenen Methoden des Übersetzens, 1813).