Italo Calvino 1963
L’arte del tradurre non attraversa un buon momento (né in Italia né altrove; ma qui limitiamoci all’Italia che pure, in questo campo, non è certo il paese che ha più da lagnarsi). La base di reclutamento, cioè i giovani che conoscono bene o discretamente una lingua straniera, si è certo allargata; ma sempre in meno sono quelli che nello scrivere in italiano si muovono con quelle doti di agilità, sicurezza di scelta lessicale, d’economia sintattica, senso dei vari livelli linguistici, intelligenza insomma dello stile (nel doppio aspetto del comprendere le peculiarità stilistiche dell’autore da tradurre, e del saperne proporre equivalenti italiani in una prosa che si legga come fosse stata pensata e scritta direttamente in italiano): le doti appunto in cui risiede il singolare genio del traduttore.
Insieme alle doti tecniche, si fanno più rare le doti morali: quell’accanimento necessario per concentrarsi a scavare mesi e mesi sempre dentro quel tunnel, con uno scrupolo che ogni momento è sul punto d’allentarsi, con una facoltà di discernere che ogni momento è sul punto di deformarsi, di cedere ad andazzi, allucinazioni, stravolgimenti della memoria linguistica, con quel rovello di perfezione che deve diventare una sorta di metodica follia, e della follia ha le ineffabili dolcezze e la logorante disperazione…
Sul tradurre (1963) in Mondo scritto e mondo non scritto, Mondadori, Milano, 2002, p. 46.