L’INVENZIONE DEL LINGUAGGIO DELLA SCIENZA MODERNA
di Silvana Borutti
I temi, o, meglio, i problemi che saranno affrontati in questo articolo sono così riassumibili: che cosa sia il linguaggio per il sapere scientifico nella prospettiva delle scienze moderne; che effetti abbia su un linguaggio scientifico una situazione storica di cambiamento di paradigma; in che termini si possa parlare di traduzione fra teorie in contesti di rivoluzione concettuale. Farò riferimento alle concezioni epistemologiche di Gilles G. Granger, di Willard V. O. Quine e di Thomas Kuhn, e alla situazione esemplare dell’invenzione del linguaggio della chimica moderna da parte di Lavoisier. Alla linea di ricerca epistemologica che ha in Kuhn (oltre che in Feyerabend) la personalità più eminente vengono comunemente ascritte posizioni anti-realiste e costruttiviste, secondo cui sono le scienze a imporre al mondo una certa struttura (Varzi 2010, 3). Non entrerò nel merito di queste questioni, mi limito a precisare che Kuhn non sostiene affatto che il mondo sia dipendente dalla mente, nella misura in cui ci ricorda che il mondo reale «fornisce l’ambiente, la scena per l’intera vita dei singoli e della società. Su tale vita pone rigide restrizioni» (Kuhn 2000, 153), e che è sullo sfondo di un mondo già fatto, che, egli scrive, merita il nome di «mondo reale», che gli uomini intervengono a modificare, riformare, ristrutturare. Farò invece riferimento a quegli strumenti concettuali e a quegli argomenti che hanno consentito di estendere la questione della traducibilità ai linguaggi scientifici e alle teorie – strumenti concettuali e argomenti che sono proprio le epistemologie di Quine, Feyerabend e Kuhn ad aver fornito.
1. «Il linguaggio scientifico è, per principio, un neo-linguaggio»
La citazione da Gaston Bachelard che dà il titolo a questo paragrafo dice in modo efficace che i linguaggi scientifici moderni si formano nella loro specificità separandosi dalle lingue naturali. È stata la filosofia della scienza neopositivista a teorizzare questa separazione e a chiarire a che esigenza risponda: i linguaggi scientifici, a differenza delle lingue naturali, tendono a costituirsi come sistemi a struttura sintattico-semantica determinata; inoltre, mentre le lingue naturali sono sistemi completi di comunicazione dotati di apparati complessi di messa in situazione del messaggio, i simbolismi scientifici tendono a semplificare il proprio apparato comunicativo, facendolo coincidere con la riconoscibilità universale degli schemi logico-formali del calcolo. Su queste basi, il neopositivismo ha pensato la scienza secondo il modello di una “lingua” a struttura determinata, o di un calcolo.
Ora, se si analizza in prospettiva storica la formazione del discorso scientifico moderno, si vede che la messa in forma che si impone nelle scienze è di fatto fondamentalmente linguistica: tuttavia, si vede anche che la struttura che le scienze arrivano a darsi è modellata non tanto sul linguaggio in generale, quanto piuttosto su quella messa in forma del linguaggio che è la scrittura. Che tipo di modello è la scrittura per le scienze? La scrittura costituisce un modello per le scienze non tanto per la sua qualità di semplice trascrizione dell’espressione orale, quanto per le sue caratteristiche modellizzanti. Se la lingua parlata offre il modello di un testo che è un insieme discreto e ordinato di segni, sovradeterminato dal contesto di enunciazione e da segni secondari tonali e affettivi, e soprattutto vincolato all’unica dimensione temporale lineare, il codice grafico offre una “geometria” diversa (cfr. Granger 1977, capp. 2 e 3): il segno scritto è spaziale, e quindi significa anche per la pluralità dimensionale e per il valore di posizione. Sono queste caratteristiche modellizzanti che diventano la condizione e la struttura dell’espressione scientifica. Il linguaggio moderno delle scienze sfrutta la geometria spaziale che fa della scrittura uno schema di ordine e dimensione; sfrutta quindi le potenzialità significanti di un particolare tipo di scrittura: la scrittura come sistema grafico di segni a struttura analitica e combinatoria, la scrittura come “caratteristica” (ricordiamo il progetto leibniziano di una lingua characteristica per la conoscenza, e il progetto di Frege di una Begriffsschrift: ideografia, scrittura di concetti). È tale la scrittura alfabetica, per esempio: ricordiamo ancora il tema platonico dell’alfabeto come modello di analisi, come «arte grammaticale» della scomposizione in elementi-lettere e ricomposizione in sillabe (Filebo, 18 b-c e Teeteto, 202; e non dovremmo neppure dimenticare, in prospettiva antropologica, il rapporto tra scrittura e trasformazione dei processi conoscitivi: Goody 1990; Cardona 1981). Vediamo ora come questo paradigma di scrittura caratterizzi i simbolismi scientifici moderni.
Granger (1979, cap. 2) ricostruisce le linee di tendenza dei simbolismi scientifici moderni, facendo riferimento all’esempio storico della formazione del linguaggio della chimica. Mi riferisco a questo esempio storico, perché sarà utile riprenderlo per affrontare la questione del rapporto di traduzione tra teorie. Granger mostra che il linguaggio moderno delle scienze presuppone almeno tre trasformazioni: il passaggio da un simbolismo figurativo a un simbolismo caratteristico; il passaggio da una lingua orale a una lingua scritta; l’adozione di un simbolismo logico-matematico per l’espressione delle forme del ragionamento.
Il primo processo analizzato da Granger è la sostituzione di simbolismi caratteristici a simbolismi figurativi. Nei simbolismi figurativi, i simboli rinviano direttamente a contenuti sensibili per relazione metaforica (che schematizza la figura apparente del designatum), o per relazione metonimica (che rappresenta una parte o un tratto del designatum). Scritture figurative di questo tipo non sono evidentemente economiche, poiché richiedono un segno individuale per ogni cosa; sono quindi difficilmente manipolabili, e limitate a una circolazione esoterica, data la complessità della rappresentazione. Sono di questo tipo le iconografie, o le simbolizzazioni del linguaggio alchemico. La lingua alchemica, ad esempio, è una complessa nomenclatura esoterica. È in primo luogo una nomenclatura, essendo un linguaggio ridotto alla funzione semantica, composto cioè essenzialmente di nomi. I nomi alchemici costituiscono sì una terminologia specialistica: si tratta però di un insieme terminologico organizzato da un’economia che non risponde a ragioni sintattico-articolatorie, ma piuttosto a ragioni di sovradeterminazione semantica. I nomi sono infatti veri e propri simboli, a significato non univoco, bensì sovradeterminato da polisemie, ambiguità, connotazioni associate a immagini (ad esempio, aria/acqua e visibile/invisibile sono opposizioni associate), significati trasportati analogicamente e metaforicamente da altre discipline (Crisciani 1974 e 1981). Per quanto in testi alchemici tardo-medievali venga configurata l’esigenza, accanto alla dimensione religiosa, di un piano di ricerca scientifico-razionale (e quindi di un linguaggio che contenga definizioni non ambigue e abbia un rapporto univoco coi referenti dell’esperienza: Crisciani 1974), tuttavia sul piano operativo la tecnica alchemica è sempre dominata da un principio divino, il lapis, la pietra filosofale che sovradetermina simbolicamente il rapporto linguaggio-esperienza. Intuizione e indeterminatezza caratterizzano ogni lingua simbolica figurativa: in quanto intuizione, rivelazione del divino, ogni nome si addice infatti al principio del lapis, ma nessuna predicazione ne può esaurire il significato (Crosland 1962, 22).
Un linguaggio di questo tipo, che persegue la pienezza semantica, implica l’esoterismo, cioè la costituzione di una società chiusa che trasmetta le proprie conoscenze secondo le procedure dell’iniziazione. Un linguaggio simbolico ed esoterico come quello alchemico (che usa ad esempio figure individuali per designare i composti e allegorie mitologiche per raffigurare le reazioni tra i corpi) è essenzialmente un linguaggio privo di tecnicità, perché privo di articolazione sintattica: non è cioè analizzabile in unità costanti di significazione, che siano costituite da un rapporto univoco tra significante e significato, e che formino espressioni proposizionali composte sulla base di regole sintattiche definite. Al linguaggio alchemico in quanto linguaggio simbolico intuitivo ed evocativo manca l’elemento sociale, intersoggettivo, che è la comunicazione del sapere sulla base della costanza dei significati e della combinabilità dei segni. Di conseguenza, la trasformazione in direzione dell’espressione scientifica della chimica può cominciare solo quando, nel Settecento, compaiono segni per le funzioni e regole di formazione dei segni composti: quando si va cioè verso un linguaggio analitico e combinatorio.
I linguaggi scientifici moderni si costituiscono dunque per scarto in rapporto ai procedimenti figurativi. Ciò che è moderno è l’assunzione della regola economica dei simbolismi “caratteristici”: la lingua characteristica era pensata da Leibniz come un linguaggio analitico e combinatorio, che fosse strumento di razionalizzazione della comunicazione del sapere (Rossi 1960, capp. 7 e 8; Serres 1968; Dascal 1978, capp. 6 e 7). In un simbolismo caratteristico, si isola un sistema di oggetti elementari, designati per mezzo di simboli convenzionali, e si producono per i simboli elementari regole di combinazione in oggetti complessi, classificando così i simboli a seconda delle loro possibilità combinatorie. I sistemi simbolici così strutturati sono dominati da regole di economia e arbitrarietà, perché sono basati su regole combinatorie e su segni convenzionali. Le lingue caratteristiche sono indipendenti da ogni rapporto di immagine, da ogni elemento che significhi per connotazione, e dalla sovradeterminazione contestuale dei significati che domina i linguaggi comuni: sono lingue essenzialmente sintattiche, costruite come un’architettura di elementi componibili, che forniscono una struttura di calcolo – vale a dire una rete di relazioni vuote, capaci di esprimere strutture d’oggetto. Sono dunque lingue perfettamente intersoggettive, e perfettamente vuote dal punto di vista semantico; tendono all’universale e alla comunicabilità intersoggettiva, a differenza dei linguaggi simbolico-figurativi, che tendono alla pienezza semantica, all’evocazione in presenza della cosa stessa, e perciò all’esoterico (Preti 1962).
La realizzazione compiuta di una caratteristica non può che essere grafica, poiché i segni grafici sono più adatti dell’oralità alle condizioni del lavoro concettuale e conoscitivo. Il secondo processo significativo per la costituzione dei linguaggi scientifici moderni è dunque il passaggio alla scrittura. Per ogni scienza si sviluppano scritture specifiche, che si allontanano dalle lingue naturali secondo specifiche modalità. Granger (1979, 28 sgg.) ricostruisce il processo di costituzione di una terminologia unitaria e di una scrittura chimica che avviene con Lavoisier (in prospettiva epistemologica, cfr. Bachelard 1975 e Dagognet 1987; in prospettiva storica, cfr. Crosland 1962, Partington 1961-1970, Hannaway 1975). Nel Settecento, alle figure alchemiche per i composti erano stati sostituiti segni analitici combinati: segni per gli acidi e segni per gli alcali. Con Lavoisier, si ha l’invenzione di una caratteristica per la chimica, cioè di un sistema di segni organizzato da un principio analitico e combinatorio. Ciò che Lavoisier cerca è un metodo di costruzione per i nomi dei corpi composti: egli vuole costruire una nomenclatura che sia capace di esprimere proprietà strutturali. La sua idea (e a questo proposito egli stesso si richiama all’idea di Condillac di una lingua ben fatta per le scienze: cfr. Lavoisier 1789, Discours préliminaire) è di costituire una terminologia unitaria eliminando i prestiti delle lingue naturali (come i nomi per i composti: crema di tartaro, latte di calce, burro di antimonio).
Lavoisier espone la sua macchina terminologica nel Mémoire letto nel 1787 all’Académie des Sciences, intitolato Sur la nécessité de reformer et de perfectionner la nomenclature de la chimie (pubblicato nella Méthode de nomenclature chimique di Guyton de Morveau, Lavoisier, Berthollet e Fourcroy), e nel Traité élémentaire de chimie (1789). È un progetto di lingua sistematica per la chimica, in cui l’invenzione linguistica è guidata da una grande consapevolezza epistemologica a proposito del problema dei linguaggi scientifici. Lavoisier dice esplicitamente che scienza e linguaggio nascono insieme: una volta data una tavola terminologica organizzata su principi costitutivi, con questo linguaggio si potranno ordinare e nominare anche le nuove scoperte: «Tutto quello che si può fare è dare dei principi per nominare, conformemente allo stesso sistema, i corpi che potranno essere scoperti in seguito» (Lavoisier 1789, I, 182). Il che significa essere consapevoli del fatto che il linguaggio scientifico si attrezza per la scoperta, cioè per crescere. La terminologia di Lavoisier non è una semplice nomenclatura, ma un sistema ordinato. È un sistema per nominare i composti, organizzato su due idee, o principi d’ordine: l’opposizione tra la funzione “base acidificabile” e la funzione “acida”; il ruolo mediatore dell’ossigeno, che acidifica le basi. Di qui deriva la macchina grammaticale della nomenclatura: cioè le desinenze -ico e -oso per gli acidi; -ato e -ito per i composti ternari corrispondenti; -uro per i composti non ossigenati (Granger 1979, 29).
Bachelard (1975, capp. 3 e 4) mostra che questa nomenclatura contiene la concettualizzazione delle scoperte della chimica moderna. La chimica moderna nasce sull’abbandono della rappresentazione dell’alchimia secondo cui tutta la materia era pensata come composta di quattro elementi (aria, acqua, terra, fuoco): quattro radici della materialità, ritenute sostanze eterogenee. Principio concettuale della chimica moderna è l’omogeneità della materia: non si tratta di trovare elementi puri in natura, ma di sottoporre la materia a procedimenti di scomposizione e di purificazione per trovare le leggi di composizione dei composti. La purezza non è un presupposto, da scoprire in natura, ma è l’effetto di processi di purificazione. Cavendish nel 1784 e Lavoisier quasi contemporaneamente scoprono che né aria né acqua sono elementi semplici, e che l’acqua è composta di due gas; alla nozione prescientifica di fluido (ricca di valori connotativi, come il riferimento a magnetismo e vitalismo) si sostituisce quella di gas; si scopre la funzione dell’ossigeno nella combustione, ecc.: così l’omogeneità della materia, sottoponibile a un modo di approccio unitario, si sostituisce all’idea alchemica di sostanza. Dapprima il linguaggio di Lavoisier organizza linguisticamente gli elementi in un sistema aperto. Si sviluppa nello stesso tempo un simbolismo grafico, non vincolato all’ordine lineare e successivo imposto dall’orale, e capace di esprimere le proprietà strutturali delle sostanze (ad esempio, con raggruppamenti diversi si possono distinguere sostanze di uguale composizione). Il simbolismo sfrutta in un primo tempo la giustapposizione; poi il linguaggio della chimica perfeziona ulteriormente le proprie capacità rappresentative, in un processo che va dalla tavola degli elementi di Mendeleev, organizzati per numero e peso atomico (un ordine che è un vero e proprio sistema di invenzione che amplia il sapere, Dagognet 1987, 89; Gil 1981), e poi, con lo sviluppo della teoria fisico-chimica delle strutture molecolari, alle rappresentazioni grafiche di architetture dove i segni sono disposti in uno spazio a più dimensioni. I linguaggi e le scritture sono dunque nel cuore della crescita scientifica. Come scrive Bachelard: «Il linguaggio della scienza è in uno stato di rivoluzione semantica permanente […] Il linguaggio scientifico è, per principio, un neo-linguaggio» (Bachelard 1975, 263-264).
La formazione dei linguaggi scientifici moderni entra nella sua fase decisiva con l’adozione del simbolismo logico-matematico per l’espressione delle forme del ragionamento. È la trasformazione ricostruita e codificata dalla filosofia della scienza neopositivista del Novecento, in particolare da Schlick e da Carnap, cui accenno qui brevemente (cfr. Barone 1953). Il linguaggio delle scienze empiriche è studiato dai neopositivisti nelle sue componenti e nelle sue funzioni: il linguaggio scientifico deve essere adatto a descrivere l’esperienza, deve cioè essere un linguaggio interpretabile empiricamente, in cui si dia una connessione controllabile coi fatti extralinguistici (nella problematica neopositivista della verifica e della conferma, e poi, con Popper, della corroborazione, confluisce il problema della tradizione empirista di come l’esperienza venga trasformata in conoscenza scientifica); il linguaggio scientifico deve anche essere organizzato sintatticamente, deve cioè contenere regole di formazione e di trasformazione delle sequenze di simboli, in modo che le inferenze tra proposizioni siano controllabili. Nella concezione del primo neopositivismo, il linguaggio scientifico è rappresentato come l’insieme delle regole sintattiche di combinazione dei simboli (calcolo) e l’insieme delle relazioni semantiche con l’universo degli oggetti rappresentati (interpretazione semantica). La prospettiva analitica e formale con cui si analizza la struttura dei linguaggi che si usano è il metalinguaggio, codificato da Tarski negli anni trenta del Novecento, con la distinzione, fondamentale per i linguaggi a struttura determinata, tra linguaggi-oggetto e codici metalinguistici con cui se ne parla. La struttura dei linguaggi scientifici nel modello neopositivista è dunque data come un’integrazione tra livelli e dimensioni di analisi: livelli sintattico, semantico e metalinguistico. La componente osservativa e quella teorica sono da connettere attraverso regole semantiche, che interpretino empiricamente i termini osservativi, e attraverso regole di corrispondenza, che definiscano i termini teorici (e sul rapporto tra le due componenti hanno continuato a interrogarsi molte analisi post-positiviste; rinvio a un’analisi critica del rapporto logica-esperienza così impostato in Dalla Chiara 1987). Il livello pragmatico e comunicativo è assegnato invece alla dimensione dei linguaggi naturali. I neopositivisti danno in questo modo un’immagine astratta e semplificata per livelli del linguaggio scientifico, un’immagine che vede in procedure di controllo e nella formalizzazione la completezza epistemologica delle teorie.
Un aspetto del modello neopositivista è particolarmente rilevante. Nelle scienze empiriche come la fisica, in cui è possibile esprimersi per generalizzazioni simboliche formulate in forma logica e applicare tecniche di manipolazione logico-matematica, gli oggetti vengono costruiti in un linguaggio avente unità logica, il linguaggio delle teorie. In fisica, una teoria è una struttura di calcolo che formalizza un insieme di leggi sperimentali. Secondo la definizione del fisico Pierre Duhem, «una teoria fisica […] è un sistema di proposizioni matematiche, dedotte da un ristretto numero di principi, che hanno lo scopo di rappresentare nel modo più semplice, più completo e più esatto, un insieme di leggi sperimentali» (Duhem 1978, 23-24). Le teorie, in quanto sistemi di proposizioni, indipendenti nel significato e nel valore di verità, che descrivono attraverso leggi le proprietà di un dominio di oggetti, organizzano un campo scientifico in un linguaggio referenziale e proposizionale, presentano cioè i referenti come oggetti con proprietà. Ma il linguaggio referenziale e proposizionale delle teorie è un tipo di messa in forma di un campo di oggetti scientifici troppo rigido per essere esportabile in tutti i discorsi scientifici. Nelle scienze umane e sociali, ad esempio, non è possibile semplificare la costruzione del referente nella formula “oggetto con proprietà”, dove l’identità di ciò che è “oggetto” è data dall’appartenenza a una classe di individui equivalenti dal punto di vista funzionale e delle proprietà manifestate. Il regime linguistico dell’oggettività nelle scienze umane è più problematico: i referenti sono molto più fluidi e legati al sistema di descrizione e al modello interpretativo adottato. Basti pensare a come appaiono diversi, diremmo anzi incommensurabili, i dati e gli oggetti economici trovati in un modello formalista neoclassico (modello della logica dell’azione e dei comportamenti di decisione) e i dati e gli oggetti trovati in un modello marxista (modello dei rapporti di produzione e delle conflittualità sociali).
2. Traduzione interteorica e cambiamento di paradigma
La codificazione epistemologica neopositivista ha così prodotto un’immagine idealizzata dell’oggettività e della comunicazione scientifica e un’immagine astratta delle teorie. È significativo che le critiche ai dogmi della prospettiva neo-empirista abbiano portato in primo piano la questione della traduzione, come è avvenuto in due contributi epistemologici fondamentali: la critica di Quine alla semantica neopositivista e alla concezione atomistica del significato, critica che ha al centro l’argomento dell’indeterminatezza della traduzione; e l’analisi dei grandi cambiamenti scientifici e del problema dell’incommensurabilità tra le teorie che Kuhn ha affrontato con la sua nozione di “paradigma”. Entrambe queste prospettive affrontano il problema del confronto fra teorie e tra insiemi concettuali, cioè il problema della traduzione interteorica; ma la concezione di Quine riguarda sostanzialmente l’aspetto metodologico, cioè la questione della scelta fra teorie che spieghino lo stesso insieme di dati; la concezione di Kuhn riguarda piuttosto l’aspetto storico del cambiamento concettuale che avviene nelle rivoluzioni scientifiche, con la sostituzione di una teoria a una teoria precedente (Borutti 1991, 93-105).
Willard van Orman Quine ha il merito di aver riconosciuto il carattere epistemologicamente cruciale dell’esperienza della traduzione: in Word and Object (1960), egli dimostra infatti l’infondatezza di una teoria semantica atomista e riduzionista come quella del primo neopositivismo – l’idea cioè che il linguaggio sia costituito da unità di significato isolate che rappresentano univocamente fatti – attraverso l’esperimento della traduzione radicale. Ogni passaggio traduttivo è per Quine indeterminato, perché non c’è per ogni significante un corrispondente atomo di significato, reale o mentale: non c’è «qualche significato in libera circolazione, linguisticamente neutro» (Quine 1970a, 99) che faccia da supporto dei passaggi traduttivi, ma ciò che significa è l’intero complesso dei significati, la lingua o la cultura nella loro globalità. Attenzione: la tesi quiniana dell’indeterminatezza della traduzione non significa impossibilità di tradurre, ma significa che solo gli enunciati di osservazione hanno significati linguisticamente neutri, puramente comportamentali e quindi intersoggettivi. Al di là, si traduce facendo ipotesi analitiche di interpretazione.
La tesi dell’indeterminatezza ha in Quine una valenza non solo semantica, ma anche epistemologica: infatti la considerazione olistica del significato implica la tesi epistemologica antiempirista e antiriduzionista secondo cui nessuna proposizione presa di per sé, cioè isolata dalla teoria cui appartiene e entro cui significa, si può confermare o infirmare. Quine riprende a questo proposito l’olismo epistemologico e metodologico di Duhem e lo radicalizza, ricavandone la tesi dell’inesistenza di un criterio metodologico e metalinguistico che fondi il confronto fra teorie alternative.
Nel cap. VI della Teoria fisica, dedicato al rapporto fra teoria fisica ed esperienza, Duhem sostiene che in una scienza matura come la fisica il controllo sperimentale di una teoria non è, come nelle scienze meno sviluppate, una situazione osservativa pura, dove ciò che è osservato è osservato in un’esperienza sensoriale semplice, indipendentemente dalle ipotesi e può quindi confermare o infirmare le ipotesi stesse. In fisica il rapporto teoria-dati è complesso: gli apparecchi concreti degli esperimenti sono comprensibili e costruibili solo a partire dall’apparecchio logico-schematico che è la teoria fisica nel suo complesso. Un’operazione come la misura della resistenza elettrica di un rocchetto si fa e si comprende a partire dalla teoria dell’elettricità. Non possiamo allora controllare un’ipotesi con un esperimento isolato:
<blockquote>Tentare di separare ciascuna ipotesi della fisica teorica dalle altre supposizioni sulle quali si fonda questa scienza al fine di sottoporla da sola al controllo dell’osservazione equivale a seguire una chimera perché la realizzazione e l’interpretazione di qualunque esperienza di fisica implica l’adesione a tutto un insieme di proposizioni teoriche. (Duhem 1978, 225)</blockquote>
Ma mentre Duhem ammette criteri razionali di selezione fra le teorie (Ramoni 1989), Quine radicalizza l’analisi di Duhem del rapporto teoria-esperienza, negando criteri possibili di confronto e scelta tra le teorie: egli sostiene che non solo un’ipotesi non può essere controllata separatamente, ma anche che «un’esperienza contraria può conciliarsi ed inserirsi in un certo sistema modificando a piacere alcune fra le varie e diverse valutazioni che si erano date nei vari e diversi settori dell’intero sistema» (Quine 1966, 42). In conclusione, egli enuncia sia la tesi antiriduzionistica radicale dell’inseparabilità dell’osservativo dal teorico, sia la tesi convenzionalista dell’inesistenza di un criterio metalinguistico di confronto tra le teorie. Poiché l’osservativo non può essere base linguisticamente e teoricamente neutra di controllo delle teorie, non si può costruire un algoritmo che permetta di trattare e confrontare le teorie. Il criterio di confronto e scelta non può che essere di ordine pragmatico: ognuno sceglie bilanciando pragmaticamente la propria «eredità scientifica» con gli «incessanti dettami dei sensi» (Quine 1966, 44).
Nel caso della traduzione interteorica, l’indeterminatezza della traduzione può aggiungersi all’indeterminatezza empirica delle teorie. A livello intralinguistico, la teoria è sottodeterminata dalla totalità dei dati: il che vuol dire che teorie rivali opposte e tra loro contraddittorie possono essere empiricamente equivalenti a causa della sottodeterminazione empirica (per una sintesi della discussione di questa tesi di Quine, e un’analisi della distinzione tra sottodeterminazione debole e forte, cfr. Ladyman 2007, cap. 6); in più, a livello interlinguistico, se si traduce una teoria fisica in una lingua radicalmente diversa, la traduzione è indeterminata a due livelli: a livello della scelta della teoria (con la stessa base di dati, possiamo scegliere teorie differenti); e a livello della scelta fra traduzioni diverse della stessa teoria, poiché la scelta fra traduzioni differenti non dispone di una base neutra di dati linguistici (cfr. Mondadori 1970, XXV-XXVI e Quine 1970b; per una critica di questa tesi, cfr. Gardner 1973).
Che il carattere intrateorico del significato renda impossibile confrontare e tradurre tra loro due teorie è stato sostenuto anche da Feyerabend e da Kuhn con la tesi della “meaning variance”. Feyerabend (1971) critica i principi empiristi della coerenza di nuove teorie rispetto a teorie affermate in un campo e dell’invarianza dei significati rispetto al cambiamento scientifico, sostenendo la tesi della soluzione radicale di continuità tra insiemi teorici e dell’incommensurabilità e intraducibilità delle teorie. Ogni cambiamento di teoria è un radicale cambiamento di significato, poiché i significati di teorie diverse sono ciascuno carichi della propria teoria. Ad esempio, il concetto relativistico e quello classico di massa non sono confrontabili:
<blockquote>Il primo è una relazione tra un oggetto e un sistema di coordinate, implicante le relative velocità, mentre il secondo è una proprietà dell’oggetto stesso, indipendente dal suo comportamento in un sistema di coordinate (Feyerabend 1971, 14)</blockquote>
Tra le due fasi teoriche avviene una revisione concettuale che altera gli elementi strutturali che compongono l’universo degli oggetti in questione e si ha quindi un radicale cambiamento dei concetti e dei significati. In una teoria non ci sono unità di significato isolate, ma significati (come il concetto di massa) che sono nodi di relazioni teoriche; perciò un cambiamento di teoria è una trasformazione della Gestalt complessiva che è la teoria, una revisione dell’insieme dei significati e dei referenti, un cambiamento concettuale e percettivo insieme. Le teorie sono qui intese come Gestalten concettuali (Hanson 1978, 109), modi concettuali di costruire fatti in insiemi coerenti. Da questo punto di vista, adottato anche da Kuhn nella Struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), la teoria è indistinguibile dalla costruzione modellizzante dei fatti. È questa una prospettiva epistemologica (di cui riparleremo) che sottolinea la funzione schematizzante delle teorie: le teorie come altrettanti vedere come che cambiano storicamente.
Feyerabend parla genericamente di mutamento di significato, evocando una nozione, il significato, che – gli è stato obiettato (Shapere 1984) – non è affatto definita. Kuhn si chiede più esplicitamente che cosa muti durante i grandi cambiamenti scientifici e in che senso i cambiamenti producano incommensurabilità. Secondo Kuhn, nel corso della maggior parte del suo sviluppo la scienza è “normale”: c’è cioè un punto di vista, un “paradigma” dominante condiviso da tutti i membri di una comunità scientifica, uniti in un linguaggio e in una tradizione di ricerca. Nella prima edizione del 1962 della Struttura delle rivoluzioni scientifiche, Kuhn definisce il paradigma come una costellazione complessa di leggi, teorie, sapere sperimentale e applicativo, credenze, conoscenza di sfondo, valori condivisi da una comunità scientifica: si tratta di un insieme di modelli e regole che danno origine a una particolare tradizione di ricerca coerente, che fondano cioè la prassi di una comunità scientifica nell’epoca della scienza normale; un’epoca di stabilità, in cui il corpo teorico dei risultati e dei procedimenti condivisi è consegnato ai grandi manuali, come i Principia di Newton. Nel Poscritto 1969 aggiunto alla seconda edizione della sua opera, Kuhn (1978b) specifica lo statuto della nozione di paradigma, che era stata criticata per la sua ambiguità di nozione insieme scientifica, sociologica e metafisica; e risponde a Putnam (1983, 195), che critica la tesi della «varianza di significato» osservando che non possiamo dire come due concezioni differiscono, se non siamo in grado di tradurle e confrontarle (per la discussione delle nozioni di paradigma e di scienza normale, cfr. Lakatos e Musgrave 1976). Kuhn parla ora di «matrice disciplinare», composta da una serie di elementi che costituiscono la base dell’addestramento scientifico, cioè della trasformazione dell’io di ogni scienziato in un io intersoggettivo, comunitario. Elementi della matrice disciplinare sono: le generalizzazioni simboliche o componenti esprimibili in linguaggio formale; le credenze in modelli accettati, costituiti da analogie e metafore privilegiate (come, ad esempio, l’analogia meccanica tra il comportamento delle molecole di un gas e il movimento elastico delle palle da biliardo); i valori condivisi, come l’accuratezza e il carattere quantitativo delle previsioni; gli esemplari, cioè le concrete soluzioni di problemi con cui i ricercatori sono addestrati a un saper fare formale e tecnico.
Ora, per Kuhn i grandi cambiamenti scientifici sono essenzialmente mutamenti di paradigma. Nelle congiunture straordinarie che sono le rivoluzioni scientifiche (momenti di crisi in cui le anomalie delle teorie non sono più controllabili dal paradigma scientifico dominante) si sviluppano modelli teorico-sperimentali in competizione, finché si afferma un nuovo paradigma: un nuovo paradigma comporta mutamenti irreversibili ed è incommensurabile rispetto ai paradigmi precedenti. Kuhn sostiene che quando mutano i paradigmi cambia il mondo degli scienziati e che i casi di riorientamento della Gestalt visiva sono una buona base per capire queste trasformazioni (Kuhn 1978a, 138). Contro una lettura riduttiva delle Gestalten come visualizzazioni percettive (presente ad esempio in Hoyningen-Huene 2000), ho già richiamato l’attenzione sul fatto che i riorientamenti kuhniani vanno intesi come rimodellizzazioni insieme concettuali e percettive, come dice bene il concetto di Wittgenstein di «vedere come» (sehen als, seeing as): il «vedere come» è un vedere carico di pensiero, non è cioè semplice visualizzazione percettiva, ma una sensibilità per il significato attraversata dal linguaggio e dal concettuale (Borutti 2006, 44-52). Nei periodi di innovazione e scoperta, gli scienziati arrivano a concepire il mondo dei fenomeni in maniera diversa da come lo avevano visto prima e ad operare in un mondo diverso (Kuhn 1978a, cap. X). Un cambiamento di paradigma è una trasformazione radicale e globale insieme: cambiano i metodi, i problemi, le credenze, i modelli di soluzione, i valori accettati; cambia l’arredo ontologico del mondo degli scienziati. Poiché l’osservazione non porta direttamente sui referenti, ma è sempre carica di linguaggio e di teoria, un cambiamento nel sistema di significati che costituisce la teoria conduce necessariamente a una costruzione diversa degli oggetti del riferimento.
3. Incommensurabilità e rivoluzioni concettuali
Kuhn sostiene in questo modo la tesi della soluzione radicale di continuità tra gli insiemi teorici, e dell’intraducibilità (incommensurabilità) delle teorie. Un cambiamento di paradigma, nella misura in cui è un cambiamento di modellizzazione teorica, più che una scelta è una vera e propria conversione a una diversa costruzione concettuale del mondo e a un diverso orizzonte ontologico, a un ordine di significati e oggetti intraducibili in quelli del modello precedente; in quanto è assunzione di diversi metodi, credenze, valori, il cambiamento concettuale comporta per gli scienziati un passaggio a diversi codici di comportamento teorico-sperimentale e una rottura nella comunicazione. Scienziati aderenti a teorie diverse, scrive Kuhn (1985, 372-373), sono come interlocutori di lingua madre diversa, che si trovano di fronte a zone del lessico e a campi semantici intraducibili: così ad esempio un tolemaico e un copernicano costruiscono in modo incommensurabile le classi delle “stelle” e dei “pianeti”. Nel passaggio all’eliocentrismo, individui astronomici come Terra, Luna, Marte, vengono distribuiti in modi diversi tra diverse famiglie naturali. La Luna è pianeta prima, non dopo Copernico; la Terra è assegnata alla famiglia dei pianeti dopo Copernico, mentre prima è considerata come un corpo a sé stante nell’universo: solo dopo Copernico Terra e Marte possono essere visti come corpi analoghi, mentre nell’universo aristotelico mondo sublunare e corpi celesti appartenevano a due ordini diversi di realtà; il che significa una vera e propria rifabbricazione del cielo (Kuhn 1983, 107-110). Il dopo Copernico è una revisione dell’ontologia dello spazio, una rimetaforizzazione del mondo, oltre che un ripensamento antropologico. Gli individui dati nelle due teorie astronomiche (due diverse modellizzazioni) sono diversi: non sono le stesse cose pensate in un linguaggio diverso, ma il mondo e il suo arredo ontologico cambiano con la teoria. Non si aggiungono semplicemente individui a classi date, ma cambiano i caratteri salienti per il riferimento, cioè per riconoscere gli elementi delle “famiglie”, dei “generi naturali” (natural kinds) (che sarebbe meglio chiamare, con Nelson Goodman, relevant kinds, generi pertinenti in un sistema di descrizione che costituisce la nostra costruzione del mondo: Goodman 1988, 11); l’aggiunta di un nuovo individuo cambia la classe, e i criteri di appartenenza. Terra e Marte sono visti come corpi analoghi in un cielo che, da cosmo chiuso e gerarchizzato, si è trasformato in un universo unificato, privo di gerarchie ontologiche, e reso omogeneo dalla spiegazione fisica e dall’espressione in equazioni matematiche dei fenomeni celesti. Non siamo di fronte alla correzione di un errore di classificazione dei corpi naturali, come se la natura avesse un solo insieme di articolazioni, cui il linguaggio della scienza si avvicini progressivamente, ma a un radicale mutamento delle parole scientifiche, che è insieme un rifacimento del mondo. Detto nel linguaggio delle gerarchie concettuali di Paul Thagard (1994, 29-34), una rivoluzione concettuale non è una semplice revisione delle credenze (passare a credere, ad esempio, che la Luna sia un satellite), ma è un rifacimento del sistema concettuale, che comprende legami gerarchici di tipo diverso tra i concetti (legami kind, come quello tra il concetto di uccello e di animale; legami parte/tutto, come quello tra uccello e becco; legami di istanza, per cui un individuo è un’istanza di un concetto, ecc.): una riorganizzazione concettuale è una riorganizzazione ontologica.
L’intraducibilità intesa come incommensurabilità non significa tuttavia inconfrontabilità, ma mancanza di misura comune, come Kuhn precisa in un saggio successivo:
L’espressione “nessuna misura comune” diventa “nessun linguaggio comune”. Affermare che due teorie sono incommensurabili significa allora affermare che non c’è un linguaggio, neutrale o di altro tipo, nel quale entrambe le teorie, concepite come insiemi di frasi, possano essere tradotte senza alcun resto o alcuna perdita (Kuhn 2000, 36).
Riprendiamo il nostro esempio riferito alla chimica del Settecento. La rivoluzione chimica del XVIII secolo significa senza alcun dubbio una completa ristrutturazione della rappresentazione della materia e degli elementi: la chimica moderna sostituisce al principio delle quattro radici sostanziali della materia il principio dell’omogeneità della materia; la purezza degli elementi non è data in natura, ma nel laboratorio del chimico, come risultato di tecniche di purificazione. Scoprire che aria e acqua non sono elementi semplici, originari, ma rispettivamente un miscuglio e un composto, sostituire alla nozione di fluido, ricca di valori connotativi, quella di gas, sono trasformazioni radicali del modo di vedere e costruire il mondo (Bachelard 1975, cap. II). Consideriamo il passaggio dal flogisto all’ossigeno. Nella teoria del flogisto la combustione è spiegata come rilascio di flogisto da parte dei materiali, mentre nella teoria dell’ossigeno è spiegata con l’ossidazione: ma nel passaggio non avviene solo la sostituzione di una teoria con un’altra, bensì una riformulazione della teoria che è una vera e propria reinvenzione del mondo chimico. Prima di Lavoisier, Priestley aveva già raccolto il gas liberato dall’ossido di mercurio, ma lo aveva categorizzato con i vecchi concetti, come un tipo di aria deflogistizzata. Per un certo periodo, vengono elaborate varianti della teoria del flogisto per rispondere al presentarsi di quelle che Kuhn chiama “anomalie” rispetto al paradigma dominante del flogisto (ad esempio, il fatto che alcune sostanze bruciando aumentano di peso, anziché perderlo col rilascio del flogisto). La scoperta di Lavoisier, che mostra che la combustione non implica rilascio del flogisto, ma aumento di ossigeno, è una trasformazione complessa del paradigma scientifico, che fa capire come la scoperta non sia tanto il ritrovamento di qualcosa, quanto la sua concettualizzazione e il relativo cambiamento di insight. Di fatto, Priestley isola, ma non vede l’ossigeno. Solo Lavoisier lo vede come un elemento distinto, come un gas costituente dell’atmosfera (Kuhn 1978a, cap. VI). La scoperta non è un atto con una data, ma è un atto epistemologico, una trasformazione del vocabolario teorico. Scoprire l’ossigeno significa abbandonare il flogisto come “principio” chimico che provoca la combustione e vedere la combustione come assorbimento di un gas presente nell’atmosfera; significa anche abbandonare il concetto sostanziale di “principio” (un principio nella chimica moderna non è più sostanziale, ma è piuttosto una regola funzionale: ad esempio, “purifica i reagenti” negli esperimenti – Kuhn 2000, 45-46). La teoria della combustione ad opera dell’ossigeno porta Lavoisier a una riformulazione della nomenclatura chimica, quella vera e propria reinvenzione del mondo chimico che abbiamo commentato prima.
In che senso il rapporto tra i due paradigmi è incommensurabile? Nel saggio del 1983 che abbiamo citato, Kuhn scrive che l’incommensurabilità non è da intendere come inconfrontabilità, ma come incommensurabilità locale (Kuhn 2000, 36), in cui alcuni termini sono traducibili ed altri no. Nell’esempio che stiamo analizzando, nella chimica moderna non sono traducibili concetti come “flogisto”, né il concetto sostanziale di “principio”. Il concetto di flogisto non è traducibile, ma è interpretabile: Kuhn precisa che, se la teoria del flogisto è intraducibile nella teoria dell’ossigeno, tuttavia lo storico può ricostruire e comprendere la concettualizzazione del flogisto. Lo studioso in questo caso non traduce la teoria del flogisto nel linguaggio teorico dell’ossigeno, ma comprende l’uso del termine flogisto e le relazioni concettuali che il termine, che rimane intraducibile, presuppone – così come nelle situazioni di impatto con una lingua e cultura radicalmente diverse dalle nostre possiamo comprendere l’uso dei termini e anche imparare la lingua indigena, senza poterla tradurre termine a termine nella nostra. Lo storico della scienza, scrive Kuhn, non traduce, ma comprende interpretando. Mary Hesse (1983) fa una precisazione a mio parere corretta: contrapponendo interpretazione a traduzione, Kuhn sembra riferirsi a un concetto di “traduzione ideale”, come sarebbe quella tra due lingue (se esistessero due lingue simili) che segmentano allo stesso modo il contenuto e hanno la stessa struttura lessicale. Ma di fatto ogni traduzione è una “traduzione reale”: cioè una pratica locale di interpretazione, in cui i termini non significano in isolamento, ma entro relazioni strutturali tra termini.
Kuhn (2000, 37 sgg.) dice invece in modo perentorio: scienziati e storici interpretano, non traducono. Ma gli si può obiettare che fa parte del lavoro del traduttore la ricostruzione interpretativa del testo dell’altro: tradurre non vuol dire produrre un testo “equivalente”, e sostituire così l’altro testo, ma fare un atto di riscrittura interpretativa, e al limite proporre un nuovo testo (Borutti, Heidmann 2012, cap. 6). Nella pratica della traduzione, c’è un legame imprescindibile tra tradurre e interpretare, quello che Quine (1970a, 89-94) chiama costruzione di ipotesi analitiche e di un manuale di traduzione. Come si costruisca il manuale, dipende dal contesto storico e teorico: si tratta di una costruzione interpretativa, di una pratica interpretativa locale.
Del resto, è quanto altrove Kuhn aveva detto in questo modo: gli scienziati possono diventare bi-teorici, così come gli antropologi tendono a diventare bilingui. Sulla base di quanto possono condividere con i sostenitori del sistema rivale (le esperienze sensoriali, il linguaggio e il mondo quotidiani, gran parte del linguaggio scientifico, alcuni criteri di valutazione dei risultati concreti) e nonostante l’incompletezza della comunicazione, gli scienziati possono simulare il comportamento altrui, pensare nella teoria altrui e riconoscerne i risultati tecnici (cfr. Kuhn 1976, 354 sgg.; e Kuhn 1985, 373): in ultima analisi, traducono la teoria altrui interpretandola.
Giulio Giorello (1984 e 1985, cap. VII) sviluppa il tema della traduzione-interpretazione dicendo che la traduzione è un’operazione di simulazione di schemi rivali entro il proprio schema. Egli sostiene che nelle fasi storiche più creative la crescita della conoscenza appare come una dinamica di conflitti, dispute, scontri su presupposti metafisici. Il conflitto è una situazione euristica, luogo di scoperte: e conflitto significa sempre anche dialogo, e inevitabile traduzione. Ogni voce non può far altro che confrontarsi con gli avversari, e la disputa diventa in questo modo un rapporto ermeneutico di traduzione e interpretazione: cioè una simulazione, entro il proprio quadro concettuale, di aspetti rilevanti del punto di vista rivale. L’esempio storico analizzato da Giorello è la controversia sugli infinitesimi: il vescovo Berkeley combatte il libero pensiero dei newtoniani affrontandoli sul loro terreno e dimostrando che il calcolo infinitesimale non è rigoroso, perché funziona per compensazione degli errori. Il che conferma che la traduzione non è una possibilità data metodologicamente e metalinguisticamente, ma una pratica locale di interpretazione, operata a partire dal proprio contesto storico e teorico.
In questo senso, la tesi kuhniana dell’incommensurabilità è anche una tesi sulla socialità e storicità dei significati e degli insiemi concettuali: invita in altre parole a rispettare lo statuto di insieme strutturato che ha ogni teoria – per cui i termini e i concetti significano in rapporto al loro insieme teorico, e gli enunciati scientifici sono occorrenze, realizzazioni di una teoria storica, non di una linguaggio scientifico dato per decreto metodologico e metastorico. Una scienza non si riproduce in uno spazio intellettuale puro, ma in una formazione culturale e sociale; concetti, teorie, gesti speculativi e sperimentali non sono tutti confrontabili in uno spazio astratto, metodologico e metalinguistico, ma assumono significato nel loro insieme storico e semantico. Questa prospettiva esclude che si possa assumere una metodologia scientifica unificata che consenta di trascrivere in un modello logico-formale tutte le teorie; esclude quindi la confrontabilità e traducibilità di ogni momento di organizzazione del sapere ed esclude l’idea che le teorie più recenti includano logicamente teorie precedenti, idea che si accompagna alla ricerca di tecniche logiche per tradurre, ad esempio, la meccanica classica nella struttura concettuale della meccanica relativistica (in prospettiva filosofica, cfr. Pearce 1987, 199-206; in prospettiva scientifica, sulla riduzione interteorica tra teorie fisiche, cfr. Batterman 1995 ). Ma ogni epoca del sapere, e a ogni regione del sapere, ha una temporalità specifica e un ambiente storico e teorico specifico: ed è questo che dicono essenzialmente le nozioni kuhniane di matrice disciplinare e di comunità di ricerca e la nozione di Laudan di tradizione di ricerca (Laudan 1979). Dunque, la tesi dell’incommensurabilità non è tanto una tesi metafisica sul significato, quanto un modo per ripensare il significato come una relazione complessa di appartenenza a un insieme teorico, anziché come un’entità; e la tesi della meaning variance richiama l’attenzione sulla discontinuità tra insiemi teorici e sulla necessità di rispettare il modo specifico di costruzione di concetti e oggetti entro ogni insieme. In ultima analisi, richiamarsi all’intraducibilità significa riconoscere che non c’è possibilità di confronto e di scelta senza una costruzione interpretativa locale: senza considerare cioè che all’interno di ogni insieme teorico i termini sono sovradeterminati, che ogni insieme comporta ontologie e classificazioni, e uno specifico orientamento gestaltico.
La tesi dell’incommensurabilità pone dunque il problema del nesso epistemologia-storia: ciò per cui il problema metodologico della scelta tra teorie e il problema storico del cambiamento concettuale e delle rivoluzioni, sono evidentemente intrecciati. Gli storici e filosofi della scienza che hanno riflettuto sullo statuto epistemologico della storia e che hanno guardato alla storia della scienza come luogo di discontinuità e di sostituzione di teorie hanno posto problemi che sono rilevanti per la questione dell’incommensurabilità. Ad esempio, le critiche che Georges Canguilhem fa ad alcune nozioni della storia delle scienze tradizionale e continuista possono essere lette come un’esplicitazione dell’aspetto storico del tema dell’intraducibilità. Egli critica in particolare la nozione di “tradizione ininterrotta”, intesa come trasmissione, da un’epoca all’altra e da uno scienziato all’altro, di verità acquisite e di problemi omogenei e sempre uguali, e la categoria di “precursore”, che è al centro di ogni nozione continuista di tradizione. Secondo Canguilhem, parlare di precursori di una teoria significa togliere concetti, teorie, atteggiamenti speculativi e sperimentali dal loro inquadramento culturale per confrontarli in uno spazio astratto e astorico, al di fuori delle congiunture pratiche e teoriche (Canguilhem 1968, 21). È invece l’insieme storico temporale e semantico che definisce il significato dei gesti teorici e sperimentali; ed è questa temporalità specifica che lo storico deve ricostruire nelle sue scansioni. Le temporalità scientifiche non sono omogenee; il tempo di una scienza specifica non è una crescita lineare a partire da un nucleo che contenga preformato lo stato finale; il tempo di ogni scienza procede per riorganizzazioni, rotture, punti critici, accelerazioni, ostacoli epistemologici, arresti. Una scienza non si riproduce in uno spazio intellettuale astratto, ma in contesto culturale e sociale.
Dire che le lingue e gli insiemi concettuali sono incommensurabili viene ad essere in ultima analisi una tesi teorica che richiama l’attenzione sul nesso epistemologia-storia, ma che non esclude che di fatto si traduca, si confronti, si scelga. La tesi teorica dice che non c’è un linguaggio neutrale in cui le teorie possano essere tradotte e confrontate, perché le teorie organizzano mondi eterogenei; e insegna a considerare il significato non come un’entità, ma come un nodo di relazioni concettuali. Ma nella pratica scientifica, gli scienziati e gli storici, come gli antropologi, fanno continui esperimenti mentali interpretativi per usare la teoria dell’altro, simularne il comportamento, pensare nella lingua dell’altro.
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