di Antonia Arslan
A volte una poesia ti parla con una forza speciale, se riesci a leggerla nella sua lingua originale. Senti come un orologio che ti ticchetta nella mente, scende giù per i nervi e nel cuore, ti percorre con un ritmo potente. Non importa poi tanto sapere a fondo la lingua in cui è scritta: le linee dei versi si allineano, ti conducono per sentieri sconosciuti. E un impeto cresce dentro, una musica energica e veloce, e hai voglia di rileggere, una volta, più volte, come un medicamento, come una preghiera.
Ma poi, per essere sicuri di aver capito ogni parola, vai a vedere la traduzione in italiano. E qui cominciano le dolenti note. Le opere in prosa ci vengono presentate solo nel testo tradotto. E quindi, a parte certe traduzioni di classici che sono diventate leggendarie, una forma di simbiosi fra autore e traduttore, leggendo un saggio o un romanzo, o comunque un testo in prosa, il lettore si affida per necessità alla voce dell’intermediario: prima di tutto segue la storia o le idee esposte nel libro, sicché la corrispondenza di ogni vocabolo con quelli dell’originale passa in secondo piano, purché il tono e il “clima” generale del libro siano resi con efficacia.
In un libro di poesia invece l’uso del testo a fronte permette raffronti e giudizi immediati e spesso impietosi, quando il lettore emozionato dall’incontro col fascino del ritmo e delle immagini dell’opera si accorge che il traduttore ha cambiato senza necessità la posizione delle parole, alterato il numero dei versi, scomposto il crescendo emotivo così suggestivo nell’originale.
In un silenzioso pomeriggio di agosto sfogliavo distrattamente il libro delle poesie di Lawrence Durrell. In quegli anni lontani ero entusiasta lettrice del Quartetto di Alessandria ed ero curiosa di leggere altro di lui. Il ritmo era piano, con improvvisi colpi di colore, paesaggi e immagini fulminee, e un andamento affabile, astutamente simil-famigliare. C’era molta Creta e molto Egeo, molto sole mediterraneo, ritratti veritieri dei solitari, bizzarri greci delle isole, fissati nell’attimo dei loro mestieri e delle loro mani sapienti. C’era una Teodora cortigiana alessandrina (Un ritratto di Teodora) che emergeva malinconica dall’acqua del ricordo con “una macchia di rossore in oro / nella pupilla”, c’era un sapiente ritratto dell’artista da vecchio, c’erano i bianchi Asfodeli di Calcidica e c’era Byron, con i suoi ultimi giorni nelle paludi di Missolungi, una lunga ballata molto autobiografica, che percorreva strani sentieri. Irrequieto e scontento, sentendosi invecchiare, aveva scoperto la buona battaglia per l’indipendenza greca: ma moriva di febbri, non di spada, nel suo letto da campo.
La mia passione per la Grecia era intima e forte. Era la nazione-sorella della mia Armenia, il Paese Perduto di nonno Yerwant, di cui non avevo potuto imparare la lingua. I greci avevano salvato gli ultimi armeni, e bevevano lo stesso caffè dai pentolini di rame. Qualcosa in me rispondeva, e volevo capire il perché, volevo tradurre con le mie mani, riga per riga, Kavafis e Durrell, scavare nel mito di Alessandria, percorrere il Mani selvaggio dove la strada corre fra i villaggi disabitati con le torri bizantine.
E così lo feci. Tradussi quelle poesie, tornandoci sopra ogni tanto; mai pensando di pubblicare quelle traduzioni, ma solo rileggendole ogni tanto a voce alta, perché l’inestimabile apporto della voce e del suo suono vivo ti fa capire dove hai sbagliato il ritmo, dove un termine è insulso o inappropriato.
Ma ogni volta cambiavo qualche parola, perché se ne presentavano di nuove, fresche e più “giuste”: un nuovo ingresso nel testo, una nuova piccola chiave di lettura e di comprensione, e ogni volta il testo diventava più mio. Non si trattava più solo del mio amore per la Grecia, era anche quello di Durrell, che in qualche modo aveva scritto per me, per me sola, il delirio di Byron morente, come l’ipnotica Musica d’acqua ondeggiante di trasparenze marine.
L’albero dell’ozio davanti all’abbazia di Bellapais a Cipro, la casetta in fondo all’insenatura fra le rocce di Creta, e poi Katerina e Luigi, e Dimitri il pescatore, comunista di ferro, che aveva imparato l’italiano da Radio Tirana e lo parlava bene (fatta eccezione per qualche slogan che ogni tanto gridava a voce alta): tutti, tutti arricchivano e coloravano i ritmi vagabondi di quel Medio Oriente ancora famigliare, ospitale, anche nei bordelli di Alessandria o nei tuguri del Pireo.
Tradurre poesia è un umile servizio, da fare in punta di piedi, sapendo bene che ogni traduzione invecchia, mostra dopo alcuni anni le rughe del tempo, mentre il testo originale rimane là, nella sua intatta bellezza. Per me fu un lungo appassionante gioco. Questo gioco sceglieva alcune poesie, e ritornava sempre su quelle, ricavandone piacere e apprendimento. Spesso le imparavo a memoria, e mi inventavo canzoncine per divertirmi.
Un solo poeta ho tradotto per pubblicarlo (anzi, eravamo in tre): l’armeno Daniel Varujan, morto a trentun anni durante il genocidio. Una voce straordinaria, che nessuno conosceva, un ponte incredibile fra Oriente e Occidente, sontuoso, tenero, forte.
Ma nel mio privato quaderno di traduzioni, ci sono gli altri, tutti i miei amici stranieri: Properzio e Catullo, Durrell e Rimbaud (quasi intraducibile, ahimè), Gottfried Benn (quanto ho lavorato e rilavorato su Morgue…) e Paul Celan (la Todesfuge è la più vera poesia sui Lager nazisti), Lamartine e Ronsard e Victor Hugo (il ritmo assatanato di Waterloo), tanto Trakl e Lorca, Hölderlin e la sua bella Garonna, Rilke del Giorno d’autunno e, ovviamente il Goethe delle elegie. E poi gli “angli”: John Donne (ma qui la traduzione di Cristina Campo resiste, e quanto!), Dickinson ed Eliot, Mansfield e Pound e Dylan Thomas (pazzo, consolante, sfidante), Yeats e la sua dorata Bisanzio. Dai loro alti luoghi condividono con me il loro fulgore e la loro musica segreta. Sgridano, consolano, sorridono, a volte. E mi rendono felice.