Chiacchierata con Maurizia Balmelli su Suttree di Cormac McCarthy
di Paola Mazzarelli
Nel 2009 esce per Einaudi Suttree di Cormac McCarthy nella traduzione di Maurizia Balmelli. Il libro è del 1979, non è mai stato tradotto in italiano e c’è chi lo considera intraducibile. La traduzione vale a Maurizia Balmelli il premio Vallombrosa Gregor von Rezzori 2010.
Maurizia, tu che hai tradotto prevalentemente dal francese, com’è che a un certo punto te ne vieni fuori con la traduzione dall’inglese di un testo complesso e difficile come Suttree?
— Dall’inglese avevo già tradotto qualcosa. Per esempio La legge dei sogni diPeter Behrens, uscito per Einaudi nel 2008. Una specie di fratello minore di McCarthy, diciamo una sua versione pop. Un libro per niente facile. E prima avevo fatto la revisione dell’ultimo romanzo di McCarthy, tradotto da Martina Testa ancora per Einaudi, La strada, pubblicato nel 2007. Ed è lì che ho imparato a sentirlo. Lavorare su una traduzione fatta da altri di un autore che poi tradurrai anche tu è molto interessante. Hai modo di riflettere. Hai una sponda in più cui appoggiarti. E posso dire che la misura dello stile di McCarthy ho cominciato a trovarla facendo quella revisione. Mi hanno sempre detto che ho una scrittura molto equilibrata, sembra strano, ma è così. Un forte orecchio musicale…
Lo si capisce dalle tue traduzioni.
— Insomma, per mia natura tendo ad armonizzare le frasi. McCarthy invece le sospende. Lo faceva molto nella Strada e a me sembra che lo faccia anche in Suttree, un aspetto che forse in seguito ho notato meno perché ho imparato a rispettarlo in maniera quasi automatica. Ma all’inizio, nella revisione della Strada, quando ancora dovevo sintonizzarmi con lui, capitava che gliele chiudessi, le frasi. Con questo non intendo dire che la frase mccarthiana non sia compiuta, anzi, ma è una chiusura leggera, non accentuata, che sommata al frequente uso della paratassi, altra forte caratteristica di questo scrittore, porta a un andamento “dondolante”, come ha detto Raul Montanari, che tra il 1996 e il 2000 di McCarthy ha tradotto Meridiano di sangue, Figlio di Dio, Il buio fuori e Città della pianura. Dondolante è un aggettivo cui io non avrei pensato, se non lo avessi letto. Ma è calzante.
Anche se La strada, almeno all’apparenza, ha uno stile molto diverso.
— Sì, ma in Suttree ho ritrovato moltissimo della Strada. McCarthy è un grande autore. Quando ci lavori sopra te ne accorgi: traducendo Suttree, a tratti l’impressione era che La strada l’avesse distillato da lì. Ci sono delle immagini, dei nuclei, in Suttree, che poi ritrovi anche nella Strada.
Dicevi del ritmo di Suttree.
— Sì. Qui il ritmo è un faro. È quello che guardi traducendo. Questo non vale per tutti gli scrittori. Martin Amis, per esempio, su cui sto lavorando adesso, è un’altra cosa. Ma in Suttree il ritmo è fondamentale. E succedeva questo: che le pagine del mio file corrispondevano alle pagine del libro. Non è che lo avessi voluto o pensato prima. È venuto così e credo sia per una questione di ritmo.
Come mai succedeva questo, se tutti dicono che le traduzioni dall’inglese diventano del dieci per cento più lunghe dell’originale?
— Non lo so. Comunque per me la frase aveva non solo un andamento, come ho detto prima, ma anche un peso specifico. Tutti dicono che l’inglese è una lingua più sintetica e va bene, ma questo non vuol dire che in italiano non si possa fare quello che fa l’inglese. Bisogna vedere quella sinteticità a che livello incide sulla lingua dello scrittore, capire che ricadute stilistiche ha. Perché se aggiungi il dieci per cento, hai aggiunto il dieci per cento di materia in più. La sinteticità può essere intesa in due modi. Il primo è la capacità dell’inglese di condensare sul piano semantico, il secondo è una questione formale, di densità della frase nell’economia del paragrafo. A me, soprattutto in Suttree, pareva che occorresse privilegiare il livello formale. A livello concettuale forse quella sinteticità in italiano non la puoi rendere, ma a livello formale sì o, quanto meno, è là che devi tendere. Prendi la parola mentecatto, che ho usato nella traduzione. In inglese era loony. Mentecatto mi piaceva, è una parola che ha una sua coloritura, però è molto più pesante di loony, più pesante e attaccaticcia. Anche se espressiva. E allora mentecatto la uso, ma la devo accostare a parole che lascino respirare la frase, se no mi viene fuori troppo pastosa.
Il che vuol dire che magari devi togliere qualcosa.
— Be’, sì. A volte levo, sì. O levo o sintetizzo. Adesso mi viene in mente la pagina dei ringraziamenti dell’ultimo libro di Martin Amis, che sto chiudendo in questi giorni. L’ho tradotta ieri. Tu mi dirai: va be’, i ringraziamenti… Voglio vederti, invece! Mi sono accorta, per spiegarti che cosa intendo, che li ho asciugati parecchio. Ci ho messo quattro ore, per una pagina di ringraziamenti! Ho tolto qualcosa, per forza. E ti dico che il risultato è molto più “Martin Amis” che se avessi lasciato tutto. Perché in inglese quelle cose ci stavano, c’era lo spazio. In italiano no. Non c’era modo. E una pagina di Martin Amis, sia pure di ringraziamenti, ha un’eleganza secca che bisogna rendere in italiano.
Ecco che cosa significa rendere lo stile. E poi forse tradurre Suttree ti piaceva e ti era particolarmente congeniale.
— Mi piace anche Martin Amis. Però è vero che McCarthy mi è più congeniale, proprio a livello di pancia…
Parliamo di due scritture molto diverse…
Sì, quella di Suttree è una scrittura che potremmo dire barocca, minuziosa ed esuberante al tempo stesso, e anche molto composita. McCarthy usa una lingua talmente stratificata… conoscenze letterarie, richiami al sacro e al metafisico, termini scientifici e ipertecnici … Un esempio:
Suttree si stupì di trovare ancora piccoli fiori nei boschi. Si perse in mute disamine sopra la trama delicata del muschio. Licheni anelliformi di un verde acceso che si spandevano sulla roccia come minuscoli vulcani di giada. Le flange di funghi smerlati intorno a vecchi ceppi marci, tumori mammari della consistenza di visceri e pallide ditole in grappoli carnosi fra detriti d’humus e fertile putrescenza e funghi con strombature dentellate e membranose sotto cui i rospi pare facciano la siesta» (Balmelli 2009, 339).
Ma tutto questo è orchestrato con sapienza…
— Sì, ha una sua musica, ed è quella che mi smuove. E dico smuove mettendo la s tra parentesi. Mi smuoveva al punto che andavo con lui, ballavo insieme a lui. Con Martin Amis questo non succede. La sua è una scrittura molto più cerebrale. Mentre la lingua di McCarthy è così materica… Dire materica però forse è pleonastico, perché la lingua è materia. Ma altri scrittori la usano in modo più mentale, lui invece la usa come una materia plastica. In Suttree la vedi tutta, la plasticità della lingua, ed è principalmente su quello che mi sono sintonizzata. Mi sono messa a fare la stessa cosa con l’italiano. È un atteggiamento che passa per i sensi, no? Un approccio molto sensuale, che forse io tendo ad avere sempre. Ma qui gli si poteva dare libero corso… Ci sono stati momenti in cui tradurre questo libroè stato puro piacere. Senti questa frase: «Below him ravens rode up like things of wire and crepe weightless on the updrafts. They rocked and wheeled and slid away over the high vast emptiness with lost windmuted croaks» (McCarthy 1989, 284).Lo senti, l’andamento che ha? È bellissimo. Ma guarda questa parola: updrafts. In italiano è “correnti ascensionali”. Ti rendi conto? Come si fa a mettere “correnti ascensionali” dove l’inglese dice updrafts? Correnti ascensionali! Come lo infili in una frase?
Tu ce l’hai infilato, però, e anche la tua frase è bellissima:
Sotto di lui i corvi si abbandonavano alle correnti ascensionali come cose di crespo e fil di ferro senza peso. Oscillavano e volteggiavano e scivolavano via sulle vaste altitudini del nulla con gracchi smarriti smorzati dal vento (339).
— Sì. Ricordo perfettamente quando l’ho tradotta. Avevo la nitida sensazione di averla metabolizzata, fatta mia. Di essere in perfetta sintonia con il testo.
Il punto è che tu senti il ritmo dell’inglese ma, per quello che riguarda poi il lettore italiano, senti il ritmo dell’italiano. Il lettore mica ha l’originale sotto gli occhi, eppure, se è un minimo avveduto, lo vede lo stesso, lo sente, che si tratta di una traduzione bellissima. La poesia, il ritmo, il peso specifico — come lo hai chiamato tu — li sente in italiano.
— Sì, ma soprattutto riconosce McCarthy.
Se conosce altri suoi romanzi. Certo, io ho ritrovato l’autore di Meridiano di sangue, di Figlio di Dio…
— Un’atmosfera, delle sonorità, un andamento che si sposa con il suo immaginario — l’immaginario di McCarthy, intendo. Io trovo… Mi fa venire in mente l’America arcaica, l’America dei pionieri e dei predicatori. Mi sembra che attinga a un immaginario remoto, come se nella sua prosa riecheggiassero gli albori di una civiltà…
Ha anche un taglio epico.
— Sì, ma a commuovermi non è quello. Guarda le prime righe del prologo:
Caro amico adesso nelle polverose ore senza tempo della città quando le strade si stendono scure e fumanti nella scia delle autoinnaffiatrici e adesso che l’ubriaco e il senzatetto si sono arenati al riparo di muri nei vicoli o nei terreni incolti e i gatti avanzano scarni e ingobbiti in questi lugubri dintorni, adesso in questi corridoi selciati o acciottolati neri di fuliggine dove l’ombra dei fili della luce disegna arpe gotiche sulle porte degli scantinati non camminerà anima viva all’infuori di te (3).
È liturgico. Sì, sai che forse è liturgico? Quasi ipnotico. Una qualità che poi lungo il romanzo lui stempera, ma che è sempre presente, come una musica in filigrana.
È vero. Ma tu mi hai letto la versione italiana.
— Sì. Perché stiamo facendo un discorso sulla mia traduzione, e le due versioni non sono immediatamente sovrapponibili. Ognuna è a se stante. Detto questo, a me sembra che qua ci sia quella cosa là, fatta con l’italiano, fatta come la può fare l’italiano.
La pagina ha una naturalezza, una sua giustezza…
— Che però è frutto di un lavoro, anzi, proprio di un lavorio, sulla lingua d’arrivo. Perché comunque, per creare questo effetto, devi riorganizzare le unità che compongono il testo di partenza. E data l’abbondanza lussureggiante della prosa di Suttreeè stato molto faticoso. Mi trovavo spesso di fronte a parole che mi erano estranee… Il mio vocabolario inglese non è così ampio, d’accordo, ma nel passaggio all’italiano spesso approdavo a termini altrettanto ignoti. C’erano pagine e pagine lungo le quali avanzavo per disperazione, prendendo i paragrafi per le corna. Se mi fossi permessa di dubitare, su questo libro, mi sarei completamente smarrita.
Tu l’inglese lo conosci meno bene del francese, vero?
— Sì. L’ho frequentato molto, ma non sono un’anglista. Comunque quando traduco uso sempre moltissimo il dizionario. Anche dal francese. All’inizio cercavo tutto, anche le parole più banali. E per l’inglese lo faccio ancora. Quindi, da questo punto di vista, che l’inglese lo conosca più o meno bene importa relativamente. Prendi Suttree. Quando ho visto il testo, a spaventarmi non è stato tanto quello che non capivo a livello prettamente lessicale… Avevo l’abitudine a non capire tutto, a che parte del testo rimanesse avvolta in un velo di nebbia. E forse questo non è poi così male, perché ti sposta l’attenzione su altro. Ad ogni modo, quando traduco mi pongo domande in continuazione, sto sempre all’erta. Ti faccio un esempio, ma ce ne sarebbero centinaia. Nell’ultimo libro di Martin Amis c’era una frase, una battuta di dialogo, che mi sembrava strana. Pensavo: sarò io che non capisco, sintatticamente non mi torna tanto, non la colgo e quindi forse nella mia traduzione mentale la sto travisando… Forse sto prendendo un granchio. Ci sarò stata sopra mezz’ora, su quella frase. Alla fine la prendo e la metto in Google. E sai che cosa viene fuori? Che era un verso di Montale! Io quella poesia non la conoscevo, ma la mia traduzione della traduzione inglese era uscita molto simile al verso originale.
Il fatto è che ci vuole talento. Che poi vuol dire moltissimo orecchio per la lingua. E soprattutto molto orecchio e molta sensibilità per la lingua in cui traduci.
— Sì. Ma guarda che è un po’ la stessa cosa per la cultura. È chiaro che devi conoscere qualcosa del mondo da cui esce quel libro, ma poi entrano in gioco altri fattori. In un certo senso, la mia non conoscenza del contesto da cui nasce il libro equivale alla immaginazione dell’autore che elabora la realtà. La mia immaginazione lavora per colmare le lacune, così come l’immaginazione dello scrittore lavora per andare oltre la realtà.
Questo è un discorso importante sul tradurre.
— È un discorso non tanto sull’esito del lavoro, quanto sul tipo di rapporto che si instaura fra il traduttore e la materia che traduce. Non verte sulla traduzione, ma sul tipo, o sul grado, di intimità, quasi di esclusività che il traduttore instaura non con lo scrittore che traduce, ma con il testo. Non so bene dove portino queste riflessioni, però per me sono imprescindibili. Perché quando traduco mi sembra sempre, in misura maggiore o minore, di avere a che fare con una materia che per me ha un grandissimo alone di mistero, è una materia sfuggente, a prescindere dal contesto da cui viene fuori.
Certo. Ma in fondo quello che sta nel libro, se l’autore è un grande autore, è tutto lì, nella lingua che usa. Se tu la capisci a fondo, se la senti a fondo, allora puoi “metabolizzarla”, come hai detto prima. E mi viene da pensare che questo “capire a fondo”, almeno per te, abbia radici diverse che per la maggior parte dei traduttori. Tu sei partita dal teatro, no?
— Sì. Dopo il liceo sono andata a Parigi alla École Internationale de Théâtre Jacques Lecoq. All’epoca lui era ancora vivo e quella era una grandissima scuola. Lecoq applicava quello che aveva messo a punto in decenni di lavoro e di studio, confluito in una pedagogia molto originale, ricca e articolata: teatro corporeo, maschere, commedia dell’arte… Chiamarla espressione corporea è troppo codificato. Diciamo che si tratta di un lavoro sulle possibilità espressive del corpo. Un lavoro molto dinamico e molto stimolante sulle forme, appunto. Su ogni tipo di forma.
E tu volevi fare teatro?
— Sì. Ma l’esperienza con Lecoq, anche se preziosa e molto intensa, mi ha fatto capire che quella del teatro non era la mia strada. Del resto, noi, intendo noi traduttori, stiamo dietro, no? Dietro le quinte. Già allora, alcuni insegnanti e anche alcuni compagni dicevano che avevo un approccio più “da regista”, o comunque da chi “scrive” lo spettacolo, anche in senso lato. E io ho sempre avuto nel mio orizzonte l’idea di scrivere, anche mentre ero da Lecoq. La scrittura era l’altro binario, che correva parallelo a quello del teatro. Per questo poi ho deciso di iscrivermi alla scuola Holden. Quelle due esperienze convergono in quello che faccio adesso.
Quindi, in un certo senso, l’inizio della tua attività di traduzione è nel teatro e nella scrittura.
— Sì. Non mi ero mai cimentata con la traduzione fino a quando ho fatto una prova per Einaudi. È lì che ho cominciato. Per qualche tempo ho fatto le due cose parallelamente: traducevo e scrivevo fiction per la televisione. Scrivere i dialoghi per le serie TV è stata un’ulteriore palestra. Credo che senza quell’esperienza il mio approccio ai dialoghi da traduttrice sarebbe molto più timido e ingessato.
A proposito di dialoghi, quelli di Suttree devono essere stati una bella sfida. A parte la quantità di inflessioni gergali e coloriture locali, che non si potevano certo riprodurre, e che al lettore italiano necessariamente sfuggono, c’è il fatto che spesso McCarthy non dice chi parla.
— Infatti.
Come fai a capirlo?
— Un po’ risulta chiaro dalla situazione. Ma a tratti è difficile. Quando a parlare è Harrogate lo si capisce. A volte c’è qualche rimando interno, uno nomina un altro, per esempio. O lo capisci da quello che dice. Qualcuno dei personaggi ha un timbro particolare, per esempio il cenciaiolo, che ha una venatura di cortesia d’antan, perché è vecchio, un po’ antiquato nel modo di parlare. Ma altri personaggi sono intercambiabili per quanto riguarda il modo di esprimersi. Quando sono in tanti dentro un bar e ognuno dice la sua, viene fuori una coralità in cui è difficile distinguere le voci. Una coralità bellissima, inebriante, in cui la scansione delle battute è senza tregua e non dà tregua. Era questa per me la sfida interessante: non avevo la possibilità di appoggiarmi su didascalie o elementi di rallentamento, se perdevo il ritmo, il passo non funzionava più.
Questo in un certo senso vale anche per il lettore. La scansione così serrata lo risucchia dentro quella coralità. Si ha l’impressione di esserci immersi dentro. Anzi, trascinati dentro. Del resto, tutto il libro è così. Se cerchi appigli, se vuoi mantenere una distanza, ti perdi. Devi abbandonarti, lasciarti travolgere. Ma c’è un’altra cosa che volevo chiederti e che un po’ ha a che fare con il discorso della difficoltà di questo libro. Quando traducevi avevi il pdf [cioè il file originale] a disposizione?
— Magari! No. Avevamo il libro stampato. Per Martin Amis abbiamo il pdf ed è tutt’altra cosa. Se lavori su un libro di quattrocento pagine e devi cercare una parola che hai già incontrato per sapere come l’hai tradotta, senza il pdf come la rintracci ? Per Suttree c’era il sito di Wes Morgan, per fortuna.
Cioè?
— C’è un tizio, tale Wes Morgan, professore di psicologia all’università di Knoxville, che ha fatto un sito su Suttree. Si chiama Searching for Suttree, se lo metti in Google lo trovi. Contiene la concordanza del libro.
Lo hai scoperto prima di iniziare la traduzione?
— Sì. Ed è stato fondamentale, proprio fondamentale. Non so cosa avremmo fatto senza. Anche Grazia Giua, l’editor della Einaudi che rivede le mie traduzioni, se ne è largamente servita, in fase di revisione. Perché la sapienza con cui McCarthy orchestra il suo lessico sconfinato, be’, andava rispettata, fin nelle singole ripetizioni. Se uso una certa parola, mettiamo il famoso “mentecatto”, in corrispondenza di un certo vocabolo del testo, poi quella parola mi vincola. Una volta che ho usato mentecatto, poi quella tale voce la assocerò sempre, in tutto il libro, a quell’aggettivo.
Tu questo lavoro lo fai sempre?
— Sì, cerco di farlo sempre. Non su tutte le parole, naturalmente, ma su quelle che mi sembrano rilevanti. Puoi farlo se hai le concordanze o il pdf. Qui mentecatto è una parola rilevante. Questa è una banda di folli e stralunati, vengono definiti con una serie di aggettivi tutti di quell’area lì. E se ne usi una una volta, poi la usi sempre per quel dato termine. È un lavoro molto faticoso per il revisore. Bene inteso, se hai un revisore, come è Grazia, che rispetta il punto di vista del traduttore. In un certo senso per lei è un lavoro doppio, perché deve rispettare le parole di un grande autore e le parole del traduttore, o meglio, della traduzione. E allora deve muoversi in due direzioni. Almeno in due direzioni.
Quindi avete lavorato fianco a fianco.
— Da un certo punto in poi sì, c’è stata molta collaborazione. Quando traducevo l’ultima parte, Grazia aveva cominciato a rivedere l’inizio. Comunicavamo moltissimo, abbiamo pagine e pagine di comunicazioni. Usavamo la chat di skype. Anche perché avere la traccia delle nostre riflessioni ci aiutava molto ad avanzare nel lavoro senza perdere il filo del discorso. Posso farti un esempio, per vedere il tipo di lavoro che a volte facevamo. (E perdonami, ma torniamo di nuovo a quella parola che amo tanto, mentecatto.)
Io [10.30 del mattino, attacco così]: Mentecatto, madman, idiot, insane. Ieri sera mi hanno detto questa parola e mi sono dispiaciuta di non averla ancora usata. Se piace anche a te infilala da qualche parte. Visto che quello è un universo di folli di ogni risma e sfumatura…
Lei: Assolutamente
Io: Bella, vero?
Lei: Mentecatto piace molto anche a me. Sì, bellissima. Vuoi che non troviamo un posto dove appiccicarla?
Io: Certo che lo si trova. Anzi, ero a corto di sinonimi.
Lei: Adesso ci impegniamo. Vedi? E voilà: «Suttree sbucò dalle erbacce accaldato e sudato fradicio. Si accovacciò sulla riva e cavò un piccolo involto dalla tasca posteriore dei jeans. Tieni, razza di mentecatto figlio di puttana, disse».
E io: Ma… com’era prima?
Lei : «Stordito figlio di puttana».
Io: Ah. A me mentecatto pare già bello corposo e lo userei da solo. Magari qui non ci piace stordito. Ma mentecatto qui non è troppo “compatto”? In una battuta di dialogo per di più.
Lei: Possiamo togliere «razza di».
Io: Con chi sta parlando? Harrogate? [Lei questa frase l’ha estratta dalla parte che stava rivedendo, io ero da tutt’altra parte.]
Lei: Sì, sta parlando con Harrogate.
Io: Ah, allora va bene. Togliendo razza…
Lei: A me non dispiace. OK, tolgo razza.
Io [che non ero molto convinta]: No! Sai dove? Quando, non so se ci sei già arrivata… ah no, non ci sei arrivata.
Lei: ?
Io: Quando c’è, non ricordo il nome, quello che gli chiede di aiutarlo a portare fuori di casa nottetempo il padre morto. Ricordi?
Lei: Ah, sì sì. Quello è veramente mentecatto.
Io: Hai ragione. Gli dice: «fatti aiutare da Harrogate. Tra… puntini puntini… dovreste sostenervi».
Lei: Ah fantastico.
Io: Ecco, non ricordo cosa ho messo lì, ma mentecatto va benissimo. L’hai trovato il punto?
Lei: Non l’ho cercato. Ma quando ci arrivo me lo ricordo. Allora qui lascio stordito.
Io: [che nel frattempo ho trovato il punto] Era «Chiedi una mano a Harrogate. Degli squilibrati come voi dovrebbero sostenersi a vicenda».
Lei: Allora potremmo metterlo qui squilibrato. Che dici? Al posto di stordito.
Io: Stavo pensando la stessa cosa. Va bene.
Lei: «Suttree sbucò dalle erbacce sudato fradicio, si accovacciò sulla riva e cavò un piccolo involto dalla tasca posteriore dei jeans. Tieni razza di squilibrato figlio di puttana».
Io: Anche se a me stordito piace molto. Però forse più in bocca a Harrogate.
Lei: È così. Per Sut mi sembra strano.
Io: Già. Anche se lui è camaleontico.
Lei: Vada per squilibrato.
Certo, avere a disposizione la concordanza o il pdf del testo che traduci non è cosa da poco. Sarebbe interessante indagare quanto questo abbia cambiato l’atteggiamento dei traduttori. Ma il sito non contiene solo la concordanza, no?
— No, c’è di tutto. È straordinario. Vai a vederlo. Intanto, Morgan è andato a fotografare tutti i posti di Suttree che ci sono ancora e ha messo lì le foto. C’è perfino quella specie di anfratto, sotto il ponte, dove abita Harrogate… A traduzione, e revisione, ultimate avevamo ancora qualche dubbio e allora abbiamo pensato di scrivere a Morgan. Ci siamo dette, è il più grande esperto mondiale di Suttree, ci darà una mano… Non so dire quanto in effetti ci abbia aiutato; su certe cose neanche lui ha saputo fornirci la soluzione. Per esempio, c’è una rivolta all’interno del penitenziario in cui è incarcerato Suttree. Al bar, i suoi amici commentano il fatto: a un certo punto si mettono a parlare di quella che loro chiamano “icecream rebellion”. Né io né Grazia capivamo che cosa fosse. Il traduttore francese – sono andata a guardare – diceva «revolution de tarte à la crème». Mi ha portato fuori strada, perché mi sono immaginata una battaglia di torte in faccia e quindi ho dedotto che fosse ironico, per dire una rivoluzione da pagliacci, una pagliacciata, e ho seguito quel solco. A Grazia, per fortuna, è parso un po’ azzardato e allora, su quello, abbiamo scritto a Morgan. Ed ecco che cosa risponde:
Still working/thinking of the other questions. I have wondered in particular about the “icecream rebellion” (p. 192) before. I seem to remember discussing this phrase with Walt Clancy (one of the “brothers Clancy”) and he too was at a loss for what it meant. But I owe him another visit and will ask him again – and he can ask his friend John Hannifin (“Big Frig”) about it as well. I could not find any such historical event and thought that it might have alluded to something that took place at the high school where the Clancy brothers, Big Frig and Cormac all attended school. The construction “madhouse rising” also strikes me as unusual. I would have expected “uprising” rather than “rising”.
Sto ancora riflettendo / lavorando sulle altre domande. Anch’io mi sono chiesto che cosa fosse questa “icecream rebellion” (p. 192). Mi pare di ricordare di averne parlato con Walt Clancy (uno dei “fratelli Clancy”) e che anche lui non ne sapesse niente. Ma devo andare a trovarlo e glielo chiederò di nuovo. Lui può interpellare anche il suo amico John Hannifin (“Big Frig”). Non ho trovato nessun episodio storico che abbia quel nome e mi sono fatto l’idea che sia magari un riferimento a qualcosa che è successo nella scuola dove sono andati tutti, i fratelli Clancy, Big Frig e Cormac. Anche la costruzione “madhouse rising” mi sembra strana. Ci si aspetterebbe “uprising”, non “rising”.
Unusual, dice lui! Ma è tutto unusual in questo libro. Comunque sulla icecream rebellion a questo punto ne sappiamo quanto prima. Ma la cosa interessante che vien fuori è un’altra. Ti rendi conto che cosa sta dicendo qui? Che i personaggi, questi personaggi di Suttree, esistono, sono in circolazione…
Con il loro nome?
— Sì, sì, con il loro nome. Clancy nel libro è Clancy. Big Frig ha un altro nome, è vero, ma nel libro si sa che Big Frig è un soprannome. Ab Jones è Ab Jones. E questo Morgan li frequenta e ci va a giocare a biliardo…
Del resto, se esiste l’anfratto, sotto il ponte, dove vive Harrogate…
— Ci sono tutti. E quella Knoxville è la Knoxville degli anni Cinquanta, le strade, i bar, gli incroci, i ponti… Sul sito c’è tutto. L’unico che manca è McCarthy. E questo sarebbe un bello spunto per una riflessione sulla scrittura, la finzione e il rapporto tra la finzione e l’autobiografia e la verità…
Nota sui testi citati
Cormac McCarthy 1979: Suttree, Random House, New York 1979 (edizione da cui si cita: Picador, New York 1989).
Maurizia Balmelli 2009: Suttree, Einaudi, Torino.