Tradurre l’egemonia

A PROPOSITO DI UN LIBRO AMERICANO SU GRAMSCI

Gramsci

di Mauro Pala

È un registro prevalentemente linguistico a caratterizzare il volume collettaneo Gramsci, Language and Translation, curato da Peter Ives e Rocco Lacorte per l’americana Lexington Books di Lanham (MD) nel 2010. Ives e Lacorte appartengono alla generazione di giovani studiosi del pensiero gramsciano: il primo assistant professor presso la University of Winnipeg, il secondo assegnista e dottore in italianistica presso la University of Chicago, affrontano con gli strumenti del «materialismo dialettale» quel corpus di testi ormai fondamentale nel pensiero novecentesco che si deve a Gramsci. Ma che cos’è il vernacular materialism? Non si tratta di un gioco di parole rispetto al materialismo dialettico, quanto piuttosto, come spiega Ives (2004), di un approccio che parte da un’evoluzione comune a tutti i principali indirizzi della riflessione contemporanea, dalla psicoanalisi allo strutturalismo al postmoderno fino alla decostruzione: tutte queste espressioni della critica hanno infatti attraversato la loro “svolta linguistica”, che ha spostato l’attenzione sulla lingua come spia e metonimia della dinamica sociale.

I saggi raccolti nel testo in questione si ispirano al «materialismo dialettale», nel senso che adottano una prospettiva “dal basso” sulla lingua e sulla società nel suo complesso, dove la comunicazione si attua attraverso elementi che non sono soltanto quelli, meramente formali, racchiusi da Saussure nel termine langue; ciò che Gramsci designa come «linguaggi» infatti include in primo luogo le modalità d’uso della lingua, come essa è parlata, scritta e usata, secondo quelle che Bachtin indica come «espressioni» e che Saussure raggruppa come parole; nei Quaderni del carcere (Gramsci 1975, Q 29, 2341-2362) questi due livelli interconnessi verranno designati come «grammatica normativa» e «spontanea»; sulla scia di Esteve Morera (2011), Ives non considera il pensatore sardo un realista nel senso del materialismo epistemologico, né confina la sua analisi nell’ambito di quel naturalismo che esclude l’esistenza di una sfera non materiale: all’interno di un delicato equilibrio di cui è artefice, Gramsci riesce a riconciliare il linguaggio come espressione materiale con quelle attribuzioni non strettamente materiali che già erano state messe in luce dalla scuola idealista. Il linguaggio non si esaurisce perciò nella sfera pertinente alle scienze naturali (Ives 2004, 7) ma la sua comprensione richiede un’apertura culturale, come verrà postulato da Louis Dupré o Raymond Williams: esso «crea» coscienza, ma tale coscienza non è da intendersi in senso idealista o metafisico, ma contingente, ancorata a circostanze concrete.

Come mai una simile evoluzione in campo linguistico, da cui non risultano esenti neanche la filosofia e la critica letteraria gramsciane, non ha richiamato prima l’interesse degli studiosi? Questo dato è ancora più sorprendente se si tiene conto del numero relativamente esiguo di pubblicazioni su queste tematiche sullo sfondo di una bibliografia gramsciana nel mondo che ha superato la soglia dei sedicimila (16.000) titoli.

Eppure già negli anni Settanta, nel far riferimento a Gramsci, Raymond Williams, Stuart Hall e altri cultural historians giudicavano la sua teorizzazione pertinente a realtà storiche in cui la lingua era un indicatore sociale di primaria importanza; ma – soggiunge lo stesso Ives- Gramsci è vissuto in un periodo in cui il dibattito critico – tanto più tra i marxisti militanti – non si scostava dall’economicismo determinista e non esistevano ancora gli strumenti teorici per analizzare la dimensione sociale da una prospettiva sostanzialmente linguistica: dunque a maggior ragione l’elaborazione gramsciana è da intendersi come un’impresa pionieristica, anticipatrice, fra l’altro, di molte delle intuizioni attribuite al gruppo di filosofi e semiologi riunito intorno a «Tel Quel» in Francia, negli anni Sessanta.

In quest’ottica i biografi del grande dirigente comunista hanno sottolineato che la sua maturazione si era sviluppata di pari passo con lo studio della linguistica e, di pari passo, si fa costante riferimento all’importanza delle lingue anche nella corrispondenza familiare. Last but not least, all’interno della rassegna enciclopedica dei Quaderni, l’ultimo di essi si concentra sulla grammatica per individuarvi degli spunti per un rinnovamento epistemologico; tenuto conto di tutto ciò, è lecito affermare che il testo di Lacorte e Ives contribuisce a colmare una grossa lacuna nell’ambito degli studi gramsciani, visto che per la prima volta vengono raccolti nella stessa opera alcuni dei principali contributi su Gramsci di argomento linguistico – o dei saggi che li riassumono – pubblicati nell’arco di trent’anni in Italia e all’estero.

Lingua, intellettuali, egemonia in Gramsci di Lo Piparo (1979) inaugurò il dibattito alla fine degli anni Settanta e con Lo Piparo si apre anche il volume di cui qui parliamo: Studio del linguaggio e teoria gramsciana, apparso su «Critica Marxista» nel 1987, viene tradotto dagli stessi Ives e Lacorte, di concerto con l’autore, come The Linguistic Roots of Gramsci’s Non- Marxism: in questo senso assume un rilievo ancora maggiore, perché lo studioso, ribadendo polemicamente l’importanza del fattore linguistico nella sfera della teorizzazione gramsciana, vorrebbe invalidarne l’impronta e la derivazione marxiste. Gli altri saggi della raccolta non solo replicano a Lo Piparo, ma soprattutto approfondiscono e precisano le tante implicazioni e ramificazioni della matrice linguistica e la loro portata nell’economia dei Quaderni.

Piuttosto che entrare nel merito della controversia del marxismo di Gramsci, cerco di cogliere nel lavoro di Ives e Lacorte il senso di questa ricerca linguistica partendo dal versante, tematico e insieme metodologico, della traduzione. La sezione del volume che tratta di queste tematiche si articola specificatamente nei saggi di Derek Boothman, Lucia Borghese, Fabio Frosini e Maurizio Lichtner.

L’appunto con cui i curatori aprono l’introduzione del volume vale anche per questa sezione della raccolta: non solo scarseggiano, come già accennato, le ricerche specifiche su Gramsci linguista, ma soprattutto le sue opere sulla traduzione, a fronte di un interesse ormai globale per il pensatore sardo, non sono state minimamente oggetto di studio da parte degli esponenti di quelle correnti di pensiero più in vista – o, per certi versi, più in voga – nel panorama filosofico di orientamento progressista. Eppure è risaputo che, in diversa misura, intellettuali della caratura di Ernesto Laclau, Chantal Mouffe, Gayatri Spivak non soltanto si sono formati sulla linguistica postsaussuriana ma hanno preso parte attivamente al dibattito, sempre in chiave linguistica, sul poststrutturalismo.

Come sottolinea Luigi Rosiello (in Ives Lacorte 2010, 29), saranno proprio gli studi di linguistica, con un crescente interesse per la sociolinguistica, a fornire a Gramsci la base per una teoria sociale globale, fondata sulla relazione fra intellettuali e società. Alla luce dell’elaborazione che ne seguì, si comprende come fin dagli anni di università il giovane studente sardo individuasse nella neo linguistica di Matteo Bartoli lo strumento più adatto ad analizzare le modalità del conflitto socio-culturale: il tipo di linguistica che Gramsci definisce «comparata» non individua un andamento lineare nell’espressione di un idioma, come sostenevano i neogrammatici, ma, al contrario, rileva nella comunicazione quegli elementi di contrasto e confronto – poi trasposti nella teoria egemonica – confacenti ad un’analisi sulla quale si potessero innestare i metodi critici del materialismo storico.

Il saggio di Derek Boothman inquadra la problematica della traduzione in un contesto più ampio, come risulta anche nell’eccellente volume del 2004 dello stesso autore, a tutt’oggi lo studio più completo su tale tema (Boothman 2004a). Lo studioso inglese ricostruisce il costante impegno di Gramsci rispetto alla «quistione della lingua», testimoniato da una serie di scritti che coprono un lunghissimo arco di tempo, dal 1912 fino al succitato ultimo quaderno redatto in carcere, il ventinovesimo, dove questa imponente mole di materiale è improntata a un interesse per l’aspetto sociale dell’uso linguistico. Dalla corrispondenza con i familiari, in cui si discutono temi legati ai suoi studi universitari a Torino, fino ad una corposa sezione ben strutturata che caratterizza la trattazione nei quaderni durante la carcerazione, Gramsci concentrerà le sue osservazioni di carattere linguistico proprio verso ipotesi di traduzione intesa come elemento variabile e dinamico non solo della comunicazione ma anche nella dialettica sociale. In questi scritti gli studiosi gramsciani hanno rintracciato influenze eterogenee, da Michel Bréal a Matteo Bartoli e Isaia Ascoli, attraverso il quale è addirittura possibile ricollegare Gramsci anche al pensiero di Carlo Cattaneo.

Boothman rileva in primo luogo che la voce «traducibilità» manca nell’edizione critica di Gerratana, a fronte del titolo della V Sezione del Quaderno 11 che suona proprio Traducibilità dei linguaggi scientifici e filosofici. Il senso ampio del verbo «tradurre» è reso esplicito proprio in tale sezione, dove tale traducibilità riguarda i rapporti fra le filosofie speculative e la filosofia della praxis, che poi è la forma sotto la quale Gramsci coniuga il suo progetto di emancipazione sociale all’interno della teoria marxista.

«Tradurre» era stato usato per la prima volta già nel Quaderno 1, nel senso lato di «trasporre» e, allo stesso tempo, «rendere evidente», «elucidare», in riferimento a Giuseppe Ferrari, «lo specialista inascoltato in questioni agrarie del Partito d’Azione che non seppe tradurre il “francese” in “italiano”» (Gramsci 1975, Q1, § 44, p.49): qui evidentemente non si intendono le lingue quanto le realtà nazionali, con un implicito accenno al corso degli eventi in Francia dopo la Rivoluzione.

Il linguaggio dei giacobini, la loro ideologia, rifletteva perfettamente i bisogni dell’epoca, secondo le tradizioni e la cultura francese (cfr. nella Sacra Famiglia l’analisi di Marx da cui risulta che la fraseologia giacobina corrispondeva perfettamente ai formulari della filosofia classica tedesca, alla quale oggi si riconosce maggiore concretezza e che ha dato origine allo storicismo moderno) (Gramsci 1975, Q 1, § 44, p.51).

Il fatto che il linguaggio dei giacobini fosse in grado di «riflettere perfettamente» le esigenze dell’epoca costituisce la base per una comparazione con un pensiero e un linguaggio analoghi, seppure in questo caso di matrice tedesca. Tra il quaderno 1 e il quaderno 19, ovvero in un lasso di tempo di quattro anni, Gramsci torna su questa importante analogia constatata prima da Hegel e ribadita da Marx e ne fa la base per la traducibilità di un sistema di pensiero in un altro:

Il linguaggio dei giacobini, la loro ideologia, i loro metodi d’azione riflettevano perfettamente le esigenze dell’epoca (…) Naturalmente le riflettevano secondo la tradizione culturale francese e di ciò è una prova l’analisi che del linguaggio giacobino si ha nella Sacra Famiglia e l’ammissione di Hegel che pone come paralleli e reciprocamente traducibili il linguaggio giuridico- politico dei giacobini e i concetti della filosofia classica tedesca (Gramsci 1975, Q 19, § 24, p.2028).

Analizzando questa nuova formulazione, ci si rende conto che la traducibilità pertiene ad un confronto fra una situazione culturale e un’altra, a livello nazionale: Boothman puntualmente registra come Gramsci discuta qui della capacità di assimilare o rigettare suggestioni provenienti dall’esterno e dunque come la sua idea di traduzione riguardi sia la filosofia politica che i paradigmi giuridici e scientifici.

Non stupisce a questo punto che proprio le pagine sulla traduzione nei Quaderni risultino paradossalmente le più ostiche per un traduttore. Il motivo di queste difficoltà è da cercare proprio nelle accezioni multiple che il termine assume attraverso le riflessioni carcerarie: Carl Manzani, il primo traduttore in inglese di Gramsci, arrivò infatti a concludere che il termine «tradurre» in realtà avesse poco a che fare con quell’attività generalmente praticata dai traduttori e allargasse invece la sua area semantica in altre direzioni, per comprendere accezioni come «trasporre, trovare corrispondenze o differenziazioni tra gli idiomi». Sotto molti aspetti Manzani non si sbagliava, almeno per ciò che concerne gli «idiomi» interessati all’azione del traduttore, intesi non più alla stregua di lingue in senso stretto, bensì in un significato più ricco e ampio, come stili di vita, modalità dell’agire collettivo in un paese nel corso di una determinata fase storica.

«Nel 1921 trattando di quistioni di organizzazione Vilici scrisse e disse (press’a poco) così: “non abbiamo saputo tradurre nelle lingue europee la nostra lingua”» (Gramsci 1975, Q 2, § 46, p.1468). La succitata incapacità di Ferrari all’atto di spiegare – traducendolo – il senso della rivoluzione francese in Italia riecheggia il bilancio negativo tracciato da Lenin (il clandestino Vilici di Gramsci detenuto dal fascismo) nel 1921, allorché sostenne che, all’indomani dell’affermazione rivoluzionaria in Russia, i leader bolscevichi non erano stati in grado di «tradurre» nelle varie lingue europee il senso di quell’esperienza.

A questo punto Boothman (2004b, 249-250) distingue in Gramsci due tipi di traducibilità, di cui la prima rientra nelle forme di confronto fra culture nazionali sul modello già utilizzato da Marx, mentre va profilandosi una seconda forma, non soltanto terminologica, ma comprensiva di un discorso teorico: l’intellettuale sardo, riflettendo su un paragrafo dedicato a Machiavelli, si chiede ad esempio se la parlata fiorentina riuscisse a suscitare legami fra città e campagna tali da incorporare le classi rurali nello Stato.

Riepilogando: se in un primo momento Marx riteneva che il linguaggio dei giacobini corrispondesse nella sostanza alla filosofia classica tedesca, come già osservato da Hegel, Gramsci parte da questo caso di traducibilità parallela e reciproca per individuare un paradigma nel linguaggio, e nel corso dell’elaborazione successiva arriva a stabilire due livelli di traducibilità: la prima, come già accennato, circoscritta a «questioni di terminologia», la seconda invece più ampia, e concentrata «sulla possibilità che due materie (la politica e l’economia) possano avere dei presupposti fondamentalmente uguali» (Boothman 2004b, 250).

Questo genere di traduzione, che Gramsci designerà come «ristretta», viene applicata a fenomeni di notevole rilevanza storica, come, ad esempio, la diffusione di una fede religiosa:

Una concezione del mondo non può rivelarsi valida a permeare tutta una società e diventare fede se non quando dimostra di essere capace di sostituire le concezioni e fedi precedenti in tutti i gradi della vita statale […] Non può non essere rilevato inoltre che una fede che non si riesce a tradurre in termini popolari mostra per ciò stesso di essere caratteristica di un determinato gruppo sociale (Gramsci 1975, Q 10, § 5, 1217-1218).

Il confronto con la filosofia di Croce, che attraversa tutta l’impresa dei Quaderni, è importante anche nell’elaborazione del concetto di traduzione, che implica una distinzione fra la traduzione nelle scienze esatte e quella applicabile ad un linguaggio filosofico: «Come la filosofia della praxis è stata la traduzione dell’hegelismo in linguaggio storico, così la filosofia del Croce è in una misura notevolissima una ritraduzione in linguaggio speculativo dello storicismo realistico della filosofia della praxis» (Gramsci 1975, Q 10, § 11, 1233).

Boothman osserva che

il paragrafo sembra di transizione verso la concezione più completa della traducibilità, perché a questo punto Gramsci definisce i compiti della nuova traduzione del discorso di Croce: occorre creare una nuova cultura integrale, che abbia i caratteri di massa della Riforma protestante e dell’illuminismo francese e abbia i caratteri di classicità della cultura greca e del Rinascimento italiano, che sintetizzi Robespierre e Kant. Qui abbiamo compresenti, nel giro di poche righe, entrambe le forme di traducibilità: interparadigmatica o ristretta rispetto alla ri-traduzione del paradigma di Croce – secondo Gramsci, già una traduzione della filosofia della praxis – e interculturale (o generale) rispetto alle culture precedenti, italiane e non (Boothman 2004b, 257).

Lo schema esplicato da Boothman si applica in senso diacronico e sincronico: in altre parole, la traducibilità in Gramsci può interessare due società contemporanee oppure partire dalla diagnosi di uno stadio di sviluppo di una certa società per poi stabilire le condizioni del suo raffronto con una società del passato. La diagnosi passa attraverso l’analisi del linguaggio naturale e la verifica di come questo si inserisca in un particolare contesto culturale, riferito alla categoria di nazione. Attraverso questo doppio passaggio – analisi della realtà culturale A, verifica contestuale e, se determinate condizioni vengono rispettate, comparazione con la realtà B – il riferimento alla traduzione in Gramsci si riallaccia idealmente al suo senso etimologico di «trasportare» (trans- ferre) da un contesto ad un altro, secondo l’accezione approfondita da studiosi della Bibbia come Nida e Taber, in cui Boothman rintraccia un interessante parallelo epistemologico. È anche possibile, in questa idea di traduzione interculturale, che una filosofia si manifesti appieno in un corpus giuridico, come Gramsci riscontra a proposito della filosofia greca reinterpretata dal codice romano. Nel paragrafo intitolato Filosofia – politica – economia Gramsci osserva che

Se queste tre attività sono gli elementi costitutivi di una stessa concezione del mondo, necessariamente deve esserci, nei loro principii teorici, convertibilità da una all’altra, traduzione reciproca nel proprio specifico linguaggio di ogni elemento costitutivo: uno è implicito nell’altro, e tutti insieme formano un circolo omogeneo» (Gramsci 1975, Q 11, § 65, 1492).

Senza questi passaggi opportunamente esplicati nell’illuminante saggio di Boothman, fasi di una costruzione generalmente poco nota al profano, non è possibile cogliere appieno il senso degli altri interventi sulla traduzione del volume di Ives e Lacorte, tutti saggi che partono dall’accezione allargata di cui si è appena trattato.

Fabio Frosini infatti (in Ives e Lacorte, 2010, 171-186) tratta delle condizioni affinché questa forma di traduzione si realizzi: come risulta evidente – e ciò avvalora in un certo senso l’osservazione di Manzani – non si tratta di traduzioni convenzionali, ma di una traduzione radicale, quella della filosofia in politica, nello spirito auspicato a suo tempo dallo stesso Marx. Mentre la traduzione secondo la prospettiva erronea dell’idealismo rappresenterebbe un capovolgimento, per Gramsci essa inaugura e consente il dialogo fra più paradigmi:

È da risolvere il problema: se la traducibilità reciproca dei vari linguaggi filosofici e scientifici sia un elemento ‘critico’ proprio di ogni concezione del mondo o solamente proprio della filosofia della prassi (in modo organico) e solo parzialmente appropriabile da altre filosofie. La traducibilità presuppone che una data fase della civiltà ha una espressione culturale fondamentalmente identica, anche se il linguaggio è storicamente diverso, determinato dalla particolare tradizione di ogni cultura nazionale e di ogni sistema filosofico (Gramsci 1975, Q 11, 1468).

Nel raffronto fra la politica francese e la razionalità tedesca contenuto nella marxiana Sacra Famiglia si assegna al termine «capovolgimento», contrariamente a quanto possa sembrare a prima vista, un’accezione positiva, e molto affine al significato di traduzione. Ciò che Gramsci vuole sottolineare è che in entrambi i paesi veniva perseguita la stessa politica, pur con ovvie differenze, legate, fra l’altro, alle diverse prospettive di classe dominanti in Francia o Germania. Qui si assiste così ad una scelta di traduzione che si può considerare a tutti gli effetti una forma di egemonia in atto. Il tema della traducibilità delle lingue – o, come usa Gramsci, dei linguaggi – è strettamente legato alla possibilità di realizzare le potenzialità contenute nella filosofia marxista. In questo senso Frosini ricostruisce come il recupero di Hegel attraverso l’articolazione di un linguaggio rispetto a una cultura nazionale possa costituire il primo passo verso la sintesi di teoria e pratica.

Il rifiuto da parte di Gramsci di aderire a uno schema rigido nel processo di mediazione fra culture diverse fa sì che egli ricorra al concetto di traduzione per tenere conto, all’atto del raffronto, di ogni aspetto della realtà sfaccettata che si manifesta in un momento storico preciso. In tale modo egli riconosce che la lingua è un microcosmo, ovvero il veicolo di una concezione del mondo visto in chiave metaforica in uno stato di costante divenire.

L’atto di articolare un particolare linguaggio rispetto a una determinata cultura passa attraverso un’associazione logica presente nella metafora: e Maurizio Lichtner (in Ives e Lacorte, 2010, 187) affronta precisamente sotto questo registro il rapporto fra Gramsci e Marx: servendosi del concetto di immanenza sviluppato da Nicola Badaloni (1988), Lichtner afferma che l’attitudine linguistica di Gramsci lo porta a considerare determinate espressioni di Marx come metaforiche, e dunque intrinsecamente aperte, variabili in base a orientamenti e linee di tendenza. Il rischio di reificarle coincide con la possibilità che esse vengano considerate in un’accezione fissista e ritenute assiomi, come in effetti avvenne con il marxismo volgare di matrice sovietica. La metafora consente anche di esamiare le ideologie come possibilità inespresse, che, al di là del loro contenuto di non-verità, hanno avuto un ruolo importante e storicamente certificabile nell’orientare l’azione di raggruppamenti politici.

Su questa linea di pensiero si muove anche Rocco Lacorte (Ives e Lacorte 2010, 213), il quale assegna al concetto di traducibilità un ruolo centrale nella filosofia della prassi proiettata su una concezione emancipatrice. Ciò può avvenire perché la politica è anche pratica e, in questo senso, un’attività attraverso la quale si crea socialmente un senso, si attribuisce significato alle forme della comunicazione. La lotta per l’egemonia passa dunque attraverso una contesa sul significato e sul senso, nello stesso spirito con cui si avviò la ricerca di Raymond Williams o Richard Hoggart, nel tentativo di erodere e infine capovolgere l’egemonia di una certa classe, una condizione egemonica che era parte integrante del linguaggio o dei testi – Foucault parlerebbe di «discorso» – di una certa fase della storia inglese.

In una prospettiva aperta e metaforica si muove anche il contributo di Lucia Borghese, una delle prime riflessioni – apparse su «Belfagor» già nel 1981 – sui Quaderni di traduzione, con le quali la studiosa auspicava la pubblicazione del materiale – escluso dall’edizione critica di Valentino Gerratana – per una comprensione a tutto tondo della scrittura di Gramsci (Borghese in Ives e Lacorte 2010, 149). La pubblicazione dei Quaderni di traduzione nel quadro dell’edizione nazionale degli scritti di Antonio Gramsci a cura dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, avvenuta solo nel 2007 (Gramsci 2007), conferma alcune delle osservazioni del saggio della Borghese, a cominciare dalla forma:

Un’ulteriore testimonianza del carattere in progress dei Quaderni di traduzione è costituita infine dall’andamento spesso estremamente tormentato del testo, ricco di correzioni e varianti di cui è resa fedele testimonianza nell’apparato critico a piè di pagina: è come se Gramsci traducesse il testo di getto, salvo poi ritornare sul proprio lavoro nello sforzo di migliorare la resa; in questa sede ci limitiamo a segnalare la presenza di frequenti varianti interlineari che quasi sempre sono più efficaci o fedeli al testo tradotto rispetto alla lezione di base, pur non cassata e pertanto non esplicitamente rifiutata. (Giuseppe Cospito in Gramsci 2007, 34).

Osservando le modifiche che Gramsci consapevolmente apporta al testo delle fiabe dei Grimm nelle sue traduzioni, la Borghese avanza un’affascinante – e sorprendente – ipotesi esegetica: che le microscopiche «manipolazioni» e «i tradimenti» che caratterizzano queste versioni rientrino in un progetto pedagogico rivolto in primo luogo ai figli Delio e Giuliano, ma anche collocabile su un piano antropologico dove le traduzioni danno voce a quanto Gramsci teorizzerà in seguito su folklore, cultura popolare e ruolo degli intellettuali nella società. Il tutto immerso in un registro familiare e privato in cui emerge il talento di Gramsci nell’insolita veste di autore di «riscritture» di fiabe per l’infanzia, e la cornice intima di questi scritti – confermata dalla corrispondenza con i familiari – sembra anticipare la storia come microfisica e modello alternativo praticata da Carlo Ginzburg o Le Roy Ladurie.

Per quanto sia difficile inquadrarla sotto un solo registro, la problematica della traduzione nell’ambito della raccolta di Gramsci, Language and Translation compendia una serie di risposte alla difficoltà posta dal lemma «tradurre»in Gramsci, un ostacolo che si capovolgerà, in seguito lunga, nello stimolo per una comprensone più piena del «mondo grande e terribile». Dove probabilmente il riscontro più utile della traduzione, come viatico in tempi di crisi da globalizzazione, consiste nella capacità di «leggere la società civile come terreno dell’egemonia e dell’opposizione all’egemonia al tempo stesso» (Buttigieg 2007, 61).

Bibliografia

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Buttigieg 2007: Joseph Buttigieg, Il dibattito contemporaneo nella società civile, in Vacca e Schirru 2007, 55-78

Frosini e Liguori 2004: Le parole di Gramsci. Per un lessico dei Quaderni del carcere, a cura di Fabio Frosini e Guido Liguori, Carocci, Roma 2004

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Gramsci 2007: Antonio Gramsci, Quaderni del carcere. I Quaderni di traduzioni (1929-1932), Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2007 (a cura di Giuseppe Cospito e Gianni Francioni)

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Vacca e Schirru 2007: Studi gramsciani nel mondo, 2000-2005, a cura di Giuseppe Vacca e Giancarlo Schirru, Il Mulino, Bologna 2007