Appunti sul tradurre letteratura
di Angelo Morino
Più passa il tempo e più mi rendo conto di credere nei poteri didattici del racconto. Con questo, intendo dire che credo nella trasmissione di un’esperienza e di un sapere attraverso il racconto di come quella certa esperienza è stata fatta e di come quel certo sapere è stato accumulato. Ci credo – nei poteri didattici del racconto – anche per quanto concerne l’esperienza e il sapere del tradurre, attività in merito alla quale non ho teorie da proporre. Quello che ho da proporre o, meglio, da raccontare è semplicemente la mia storia in quanto traduttore. È a partire di qui e solo di qui, che sarà possibile intravedere una qualche organizzazione e sistematizzazione all’interno di un’attività che sicuramente mi ha occupato molto tempo, negli anni passati.
Ho firmato la mia prima traduzione quando ero ancora uno studente universitario. Da quel momento fino a oggi, ho firmato un numero assai alto di traduzioni, più di un centinaio, principalmente dallo spagnolo, ma anche dal francese e, in rari casi, dal portoghese e dal catalano. Una volta, ci ho provato pure con l’inglese: un lungo romanzaccio che ho firmato con uno pseudonimo, su cui mi piace conservare il mistero. Ho cominciato a tradurre un po’ perché era un modo di guadagnare denaro senza che dovessi piegarmi alla costrizione di orari troppo rigidi e un po’ perché mi è sempre piaciuto pasticciare con i libri e con il linguaggio. Volendo abbozzare definizioni, da quanto ho appena detto si può ricavare un primo abbozzo di definizione, che, sebbene parziale, mi sembra contenga del vero: un traduttore sarebbe uno a cui piace vivere senza orari troppo rigidi e pasticciare con i libri, con il linguaggio dei libri. Non fosse che, così vivendo, si rischia spesso di lavorare sedici ore al giorno, ma – questo è molto importante – senza rendersene conto. O, meglio, facendo un lavoro che si dimentica di considerare un lavoro e, così, finendo per vivere una passione nei confronti delle parole e delle frasi.
Una volta, agli inizi della mia attività, tenevo il conto dei libri che traducevo: ne ho tradotti dieci, ne ho tradotti sedici, ne ho tradotti ventuno, e via dicendo. Inoltre, quanto agli oggetti che i singoli libri rappresentano, mi piaceva tenerli allineati in un particolare scomparto della mia biblioteca, in file che si espandevano sempre più. E, se mi capitava di entrare in una libreria e di posare lo sguardo su un libro che avevo tradotto, ero preso da un moto di entusiasmo. Credo di poter dire che, in modo confuso, mi congratulavo con me stesso. Ma più a fondo si trattava di un entusiasmo determinato dall’avere assecondato la circolazione un libro che prima non aveva esistenza, almeno nella lingua italiana. L’avevo reso più accessibile, più alla portata degli altri: nel caso dei libri, i miei amori non sono mai stati segnati dalla gelosia. E, così parlando, mi avvio lentamente verso un secondo abbozzo di definizione del traduttore, verso un abbozzo dai tratti un po’ più precisi dei primi.
Pochi anni fa, ho pubblicato un libro – un libro mio – che raccoglie e riordina una serie di scritti critici con cui, nel corso degli anni, ho accompagnato testi della letteratura latinoamericana in genere tradotti da me. E sia detto fra parentesi: la letteratura latinoamericana è quella che più ho contribuito a diffondere in Italia, anche se non credo sia quella, fra le letterature, che amo di più. Nella premessa a questo mio libro, ci sono alcune righe nei cui confronti amici, colleghi e conoscenti hanno espresso stupore, esitando a credere che si trattasse della verità. In quelle righe si legge: “Sebbene i risultati della mia attività di traduttore apparissero più visibili – forse per la quantità dei testi volti in italiano, forse per la notorietà di alcuni autori cui il mio nome si ritrovava unito -, li ho quasi sempre considerati frutto di una fatica che mi sarei evitato volentieri. Li ritenevo utili solo a permettermi di articolare un discorso su argomenti che non fossero noti solo a una ristretta cerchia di studiosi. Molto spesso mi è accaduto – per quanto inverosimile possa sembrare – di sottopormi alla fatica di volgere in italiano un determinato testo solo in vista del successivo piacere di accompagnarlo con uno scritto illustrativo, senza che il discorso si consumasse fra pochi interlocutori”. Ebbene, tali righe corrispondono – parola per parola – alla verità. Certo, mi è accaduto di tradurre testi nei confronti dei quali c’era tutta la mia ammirazione. Comunque, è proprio la verità: nella maggioranza dei casi, per me tradurre è stato più un dovere che un piacere.
E mi spiego. Quando ho iniziato a occuparmi di letteratura latinoamericana, c’era ancora molto da fare. Chi mi aveva preceduto aveva lavorato in condizioni quasi pionieristiche. Inoltre, all’epoca, c’erano molti malintesi da correggere. Per esempio, mi riferisco al fatto che la letteratura latinoamericana veniva spesso recepita in Italia come un fenomeno privo di passato. Sembrava a molti che tutto fosse emerso a partire dal 1968: a partire dalla comparsa di Cent’anni di solitudine, il romanzo di Gabriel García Márquez. Alle spalle di Cent’anni di solitudine, qualche nome, qualche titolo: nulla di più. Ebbene, non mi sono mai piaciuti i discorsi che si consumano in un àmbito specialistico, che circolano in cerchie ristrette. Nel caso della letteratura, sono sempre stato animato da entusiasmi e – come ho già indicato – i miei entusiasmi mi è sempre piaciuto poterli condividere. Quindi, ho tradotto perché desideravo rendere accessibili testi che, non essendo ancora stati tradotti, il pubblico dei lettori italiani ignorava. Ed è questo il senso che ora vedo nella mia attività di traduttore. Di più: è questo il senso che ora penso debba esserci nell’attività stessa del tradurre. Perché un traduttore non è solo uno che se ne sta tranquillo a casa sua, a godersi una bella libertà rispetto agli orari, tutto preso dal suo pasticciare con i libri. È anche questo, ma non è solo questo.
Venendo a contatto con giovani che hanno voglia di fare i traduttori – e sono molti -, ho notato che, secondo quanto loro immaginano, le cose funzionerebbero in questo modo. Uno se ne sta in casa, tranquillo, davanti allo schermo del computer, lavora nelle condizioni che ho descritto e, ad assicurare queste condizioni di lavoro, periodicamente arriva una telefonata – da Mondadori, da Rizzoli, da Sellerio – attraverso la quale viene affidato un nuovo libro da tradurre. Una situazione di questo genere non è realistica e non lo è perché manca di tutto quanto si colloca a monte dell’arrivo delle telefonate. Voglio dire che, se si vuole che arrivino le telefonate, bisogna prima essersi credibilmente proposti nei panni di un esperto della letteratura, con questo intendendo una persona che ha sviluppato una determinata sensibilità nei confronti della letteratura. Un traduttore non è soltanto un individuo preposto a far passare un testo da una lingua a un’altra lingua e – si badi bene – capace di farlo. Un traduttore sarà un individuo che, prima di tradurre, ha letto, ha letto molto e che, da questo leggere, ha saputo trarre un sapere sul linguaggio, sul linguaggio dei libri. E’ questo il secondo abbozzo di definizione – quello dai tratti un po’ più precisi – che mi sento di proporre. Per essere un traduttore, occorre molta curiosità nei confronti della letteratura, molto entusiasmo nel rendere partecipi gli altri dei propri amori, delle proprie passioni vissute leggendo. Occorre aver letto molto, essere stato un lettore instancabile e attento, possedere una sorta di vocazione al cosmopolitismo, a uscire dai confini, a sapere un po’ di più del normale, rispettabilissimo lettore. Di recente, mi è capitato di dire a proposito di me stesso: sono un uomo di frontiera. Ecco, i traduttori sono proprio questo. Sono uomini di frontiera, uomini che vivono sulla frontiera, uomini che non si curano troppo delle separazioni, dei territori nazionali, delle regole e delle norme che preservano le singole identità.
Negli ultimi tempi, mi capita abbastanza spesso di avere notizia di convegni sulla traduzione e, anche, di essere interpellato per esprimere il mio parere in merito. In genere, tendo a dire di no, perché sento di avere poco o nulla da dire su quanto ci si aspetterebbe: sul meccanismo del tradurre e delle strategie che l’atto di tradurre richiede. In genere, non vengo creduto, di modo che rifiutare diventa molto faticoso e, ogni tanto – come oggi – finisco per accettare. Così eccomi qui, a dar prova del poco o nulla che ho da dire in merito. Della traduzione letteraria si è sempre parlato e si è sempre dibattuto, ma sembra sia soprattutto in questi ultimi tempi che tale discorso, dopo anni di silenzio, tende a emergere con spicco. E, intanto, appaiono libri sul tradurre, si formulano teorie, si producono discorsi sempre più tecnici. Sui motivi di questo emergere non starò adesso a indagare. Mi limito a dire che vi subodoro spesso qualcosa che assomiglia all’opportunismo e che mi innervosisce. L’ho anche scritto e spiegato: io sono un traduttore in mutande e canottiera, non sono un traduttore da convegni. Appartengo ad altri tempi, a una specie che non è abituato alle luci e alle ribalte, che se ne sta in disparte. Certo è che, come stavo indicando, non è sempre stato così e che così non è stato in tempi non lontani, proprio quando mi è accaduto di cominciare a tradurre. Ho ben presente un mio collega – un mio collega docente universitario, non un traduttore – il quale, anni fa, mi disse che, quanto a lui, non aveva tempo di «sporcarsi le mani a tradurre un libro». Questa frase – che mi è rimasta impressa a fondo nella memoria – adesso non la cito con intenzione polemica nei confronti del collega che me la disse. La cito perché ritengo che, tutto sommato, al di là del giudizio snobistico sul tradurre, questa frase esprime bene quel certo corpoacorpo con l’altra lingua che un traduttore è tenuto ad affrontare.
È vero: tradurre significa sporcarsi le mani e, del resto, nella prospettiva che ho finora seguito, come sarebbe possibile non sporcarsele ritrovandosi a pasticciare con i libri? Quindi, si tratta di scendere nella materialità di un testo, con la consapevolezza di compiere un’operazione in tutta umiltà: il traduttore non è mai l’autore di un testo. Un traduttore deve collocarsi sempre alle spalle dell’autore, perché è lì per servirlo scrupolosamente, evitando ogni tendenza alla prevaricazione, a sovrapporsi in modo indebito, interpretando troppo, mettendosi in primo piano. Ed è questo forse il motivo per cui un traduttore finisce per compiere un lavoro buio, che chi ha una concezione troppo alta della letteratura – una concezione troppo fredda, si potrebbe anche dire – potrà tuttalpiù occuparsi del tradurre dal punto di vista teorico. Di certo, non scenderà a sporcarsi le mani, a lavorare sul linguaggio, affrontando quella dimensione artigianale grazie alla quale un testo letterario ha potuto essere scritto, divenire una realtà che richiede innanzitutto rispetto.
La situazione è nota, quasi un luogo comune: chi teorizza sul tradurre non traduce e chi traduce non teorizza sul tradurre. Nel caso della traduzione, esiste una frattura fra la teoria e la pratica: o si sta da una parte o si sta dall’altra. Si potrebbe anche metterla così: chi teorizza evita di sporcarsi le mani passando alla pratica del tradurre e chi traduce si sporca troppo le mani per avere voglia di formulare teorie sulla propria attività. Si possono leggere ottimi libri su quell’atto che è il tradurre, ma, quanto a me, sono pienamente convinto di una cosa: quei libri non sono di alcuna utilità se qualcuno intende imparare a tradurre. Tutto questo sembrerebbe portarmi a dire che un traduttore non possiede un sapere sul tradurre. La qual cosa non è vera.
Personalmente, tradurre è un’attività che mi ha stancato e che ormai non mi attrae molto. Nella mia biblioteca non ho più, da parecchio tempo, uno scomparto dove sistemare i libri che ho tradotto. Addirittura, evito di guardarli, perché in genere hanno finito per suscitare in me un senso quasi di ripugnanza. Qualche anno fa, sapevo di avere tradotto un certo numero di libri, ma poi ho smesso di tenere il conto. Se entro in una libreria e lo sguardo mi cade su un libro che ho tradotto, non sento più entusiasmo e mi ritrovo a girarne alla larga. Traduco sempre di meno: ultimamente lo faccio solo se mi viene offerto un compenso sostanzioso, che mi permetta di togliermi qualche capriccio, o se si tratta di un libro che mi ha appassionato. Parlo di questa mia stanchezza perché so che non si tratta di una situazione personale.
A questo proposito, mi piace dedicare un ricordo a Floriana Bossi, ottima traduttrice dall’inglese, responsabile, fra l’altro, dell’Arancia meccanica di Anthony Burgess e dei racconti di Katherine Mansfield. Floriana Bossi – che si è poi dedicata all’astrologia – smetteva di tradurre dopo molti anni dedicati a tale attività proprio mentre io cominciavo a tradurre. Ricordo che mi parlò di questa stanchezza e che me la preannunciò, sebbene all’epoca io non avessi voluto crederci. Credo che la situazione possa essere riassunta così: ci si stanca, ci si sporca troppo le mani, il corpoacorpo con l’altra lingua finisce per rivelarsi una fatica che uno non se la sente di sostenere all’infinito. Interviene una sensazione: di essersi dedicati a uno scialo, di aver compiuto una rinuncia su cui si preferisce non indagare troppo, di avere forse perso le proprie parole a favore delle parole altrui. Ma, volendo mantenere un po’ di ottimismo, una domanda da porsi rimane. Quanto al sapere accumulato, come descriverlo e, eventualmente, come trasmetterlo?
Mi è accaduto di affrontare l’esperienza del tradurre dal punto di vista didattico e, di conseguenza, qualche idea sulla trasmissibilità di questo sapere me la sono fatta. Innanzitutto, devo dire che non ritengo possibile una simile esperienza all’interno dell’attuale struttura universitaria. Mi è accaduto di trovarmi davanti studenti che mi chiedevano una cosiddetta “tesi di traduzione”. Ebbene, i risultati non sono mai stati soddisfacenti e non di rado si sono rivelati catastrofici. Al punto che, quanto alle tesi di traduzione, ho posto un veto: non intendo seguirne più, a meno che non si tratti di studenti che fin dall’inizio diano prova di essere particolarmente portati nei confronti di questo lavoro. L’altra esperienza didattica che sul tradurre mi è accaduto di affrontare, è stato – per tre anni – all’interno di una scuola di traduzione letteraria che periodicamente ha avuto sede prima a Torino e poi a Firenze. Ed è stata un’esperienza positiva, sebbene con questo io non intenda dire di essere riuscito a trasmettere un sapere sul tradurre indiscriminatamente a tutti gli studenti di questa scuola E, qui, tocco un punto che mi prenderebbe troppo tempo sviluppare e che, allora, mi limito a indicare: il sapere sul tradurre non può essere trasmesso con gli stessi risultati a chiunque. Altrimenti detto: non chiunque può diventare un traduttore letterario, indipendentemente dal desiderio che si può avere di diventarlo.
Comunque, agli studenti della scuola di traduzione letteraria ho sempre detto fin dall’inizio che, se avevano voglia di leggere libri sulla traduzione, scegliessero i migliori e li leggessero pure, ma consapevoli che quei libri non li avrebbero aiutati a tradurre bene. Inoltre, ho sempre raccomandato soprattutto After Babel di George Steiner, che, senza proporsi fini didattici, è una bellissima riflessione sull’atto del tradurre. Quanto al lavoro svolto con questi studenti, è consistito nel prendere in mano un testo mai tradotto, leggerlo dal principio alla fine, discuterne un po’ con l’obiettivo di individuare il registro o i registri linguistici caratterizzanti, e insieme mettersi a tradurlo. Nel corso di questo lavoro in comune, i discorsi non erano mai dei discorsi alti, come quelli che vengono affrontati nei libri sulla traduzione. Bisognava parlare di cose minute, come possono essere l’uso delle “d” eufoniche, degli apostrofi, delle preposizioni, di tutte quelle maledettissime parole italiane che terminano in “one” e sono sempre pronte a creare brutte rime a tradimento, del passato remoto che nel Nord si perde sempre più finendo per parlare di un anno fa come se fossero trascorse solo poche ore. Bisognava imparare a usare il dizionario o, meglio, i dizionari. Bisognava riflettere sulla struttura della frase, sull’ordine delle parole, sulla punteggiatura. Insomma, bisognava stare lì a sporcarsi le mani insieme. Bisognava rendersi conto che la lingua che parliamo – l’italiano – chiede di essere riscoperta nel suo lessico come nel suo funzionamento più minuto. E, anche, a un livello più generale, bisognava imparare a usare la propria creatività esclusivamente per metterla a servizio della creatività dell’autore. L’ho detto molto spesso agli studenti: se avete voglia di scrivere un romanzo, scrivetelo, ma non mettetevi a tradurre con l’atteggiamento di chi sta scrivendo un romanzo, perché quello che state traducendo non è il vostro romanzo.
Tutto questo lavoro in gruppo rinvia – lo si capirà facilmente – all’idea della bottega artigianale, lì dove un sapere fondato sul lavoro e un’esperienza fondata sulla pratica del lavoro possono essere trasmessi lentamente, nel tempo che intanto trascorre. Le aule universitarie non sono botteghe artigianali, non sono luoghi in cui sia possibile lavorare con ritmo quotidiano e all’interno di una cerchia ristretta. E’ soprattutto questo il motivo per cui molto di rado una “tesi di traduzione” si risolve in un lavoro dai risultati insoddisfacenti. Lo studente si presenta al docente senza trovarsi in possesso di una pratica del tradurre e, nei successivi incontri che tuttalpiù si possono concordare una volta alla settimana nel tempo ristretto di un’ora, questa pratica del tradurre fatica a passare dall’uno all’altro. Nelle aule universitarie si può trasmettere un sapere e, sicuramente, questo sapere lo si trasmette. Ma è un altro sapere rispetto a quello sul tradurre, perché le aule universitarie non sono botteghe artigianali né credo abbiano mai avuto motivo di esserlo. Inoltre, bisogna dirlo: lì trova spazio una concezione alta della letteratura, che è semmai il caso di sforzarsi per far sì che non si raggeli troppo, che non si isoli rimanendo separata dalla realtà.
Quanto al tradurre e alla sua relativa pratica artigianale, occorrono luoghi diversi dalle aule universitarie, luoghi dove il sapere abbia agio di essere trasmesso con attenzione alla materialità dei testi letterari, a quel loro essere fatti di un linguaggio che è stato sottoposto a lavoro fin nelle sue più minute componenti. Non credo che, tranne casi sporadici, non ancora istituzionalizzati, simili luoghi abbiano trovato spazio intorno a noi. E, se qui mi interrogo sulla fisionomia che dovrebbero avere, è solo perché sono consapevole dell’esistenza di una vasta richiesta in merito, soprattutto fra i giovani. Altrimenti, l’unica via può essere quella meno incoraggiante: quella di un’avventura solitaria, sul cui filo leggere e leggere fino a trarre un sapere sul linguaggio dei libri, fino a vivere una specie di passione nei confronti delle parole e delle frasi, confrontandosi per riscoprirle e per riscoprirsi. E, intanto, mettersi a pasticciare con i libri, mirare a una competenza sempre maggiore, sporcarsi le mani in una prova di traduzione dopo l’altra. Tutte affrontate senza che sia ancora arrivato il colpo di telefono risolutivo – da Mondadori, da Rizzoli, da Sellerio -, senza che il lavoro di trasportare un testo in un’altra lingua abbia assunto rassicuranti tratti contrattuali, senza che intervenga alcun sospetto del logorio cui per qualche oscuro motivo ci si sta destinando.