traduzione di Silvia Camatta da Vom Übersetzen. Deutsche Autoren in Italien di Ervino Pocar
Questo saggio si propone di riflettere brevemente sul tema, tanto spesso dibattuto, della traduzione da una lingua straniera, concetto che risulta più difficile da definire di quanto ci si possa immaginare.
Che cosa significa in realtà tradurre?
Tradurre in realtà significa condurre oltre, portare da una sponda all’altra, transducere, trasportare qualcosa da una lingua straniera nella propria. Qualcuno ha anche sollevato la questione se tradurre sia veramente possibile. Domanda legittima, senza dubbio: talvolta, infatti, è non solo difficile, ma addirittura impossibile trovare nella propria lingua l’equivalente di una parola o un modo di dire stranieri. È noto che determinati concetti e forme espressive scaturiscono dalla mentalità di un popolo e non ve n’è traccia presso comunità che adottino altri modi di pensare e abbiano conosciuto uno sviluppo differente. Anche Goethe era di questo avviso quando scriveva:
Davvero intraducibili sono le peculiarità d’ogni lingua; giacché, dalla parola più elevata fino alla più umile, tutto si riferisce a ciò che è tipico della nazione, sia per il carattere come per i sentimenti e le condizioni di vita.
Probabilmente sono noti a tutti i classici esempi di Stimmung e Gemüt, che non si possono rendere in italiano se non in forma approssimativa. I termini proposti di «umore», «disposizione di spirito», oppure «animo», «sentimento» e simili sono lungi dal risultare accettabili. Il traduttore dovrà di volta in volta risolvere il problema circoscrivendo in qualche modo il concetto. Ma anche con gli oggetti concreti ci si trova spesso in grande difficoltà. Come vanno tradotti Heide, Heideland? Non fanno parte del paesaggio italiano! Certo, potrò parlare ai lettori di «pianura incolta», «landa», «scopato», «brughiera»; se tuttavia non hanno mai visto ciò che in Germania viene chiamato Heideland, non potranno capirmi; il goethiano Röslein auf der Heiden [che rendiamo con Rosellina di brughiera – N.d.T.] resterà per loro sempre avvolto nel mistero. Allo stesso modo, al termine tedesco Weide corrisponde perfettamente l’italiano «pascolo», ma un pascolo dell’Appennino o della Campagna romana è assai differente da un pascolo alpino tedesco. Invece Farbe e «colore», Lippe e «labbro», blaß e «pallido» sono concetti del tutto equivalenti, che non dovrebbero lasciare spazio a malintesi. Ma a prescindere dal fatto che esista una corrispondenza tra le parole, si tratta comunque di restituire un testo coerente, in cui trovino espressione pensieri e immagini. Il traduttore deve quindi cercare di immedesimarsi nello scrittore con cui ha a che fare; comprenderne le parole non basta, bisogna penetrare nel suo spirito e individuare ed esprimere non tanto la lettera quanto piuttosto il senso del testo.
Capire la lingua straniera e conoscere bene la propria
Quando si traduce, si devono soddisfare innanzitutto due diverse condizioni: bisogna da un lato capire la lingua straniera, dall’altro conoscere bene la propria. La seconda condizione è di gran lunga la più importante. (Questo discorso è riferito naturalmente a opere letterarie, non alle traduzioni indispensabili per il quotidiano svolgimento pratico delle attività commerciali, giornalistiche o di altra natura). “Conoscere la propria lingua” significa, in questo caso, essere scrittori. Quello che fa il traduttore, in fondo, è scrivere libri, non propri bensì altrui: ma anche in questo lavoro, in questo sentire (Nachfühlen) e ripensare (Nachdenken) il testo che ha davanti a sé come se ne fosse l’autore, il traduttore compie un atto creativo. Non deve mettere in fila una parola dietro l’altra seguendo l’ordine in cui le trova, deve comprendere e interpretare il testo; ecco perché ogni buona traduzione rappresenta un commento al testo originale. Ci sono casi in cui questo è oscuro e difficile da capire: la traduzione però non deve risultare incomprensibile, e quindi è necessario che il traduttore si sforzi di interpretare correttamente ciò che è oscuro e di esprimerlo in modo chiaro.
Esempi di traduzioni malriuscite a causa di una conoscenza insufficiente della lingua straniera
Desidero portare alcuni esempi tratti dalla mia esperienza di lettore per mostrare come procedono i traduttori inesperti, poco coscienziosi e pasticcioni. Una volta si trattava di occhiali die ihnen immer auf rätselhafte Art abhanden kamen [che essi continuavano misteriosamente a perdere – N.d.T.]: la traduttrice scrisse «occhiali che non si sa donde venissero nelle loro mani», cioè esattamente il contrario di quanto afferma l’autore. Oppure: das Volk kämpfte auf eigene Faust [il popolo combatté di propria iniziativa – N.d.T.]: «il popolo inerme lottava coi pugni»! È stato addirittura dato alle stampe quanto segue: Er sprach über die zweiundvierziger Maitage [parlò dei giorni di maggio del 1842 – N.d.T.]: «parlò dei 42 giorni di quella primavera». È davvero inspiegabile come si possa essere tanto sconsiderati. I giorni di maggio del 1842 si trasformano nei quarantadue giorni di quella primavera, come se la primavera avesse quarantadue giorni! Gesegnete Mahlzeit! sagte sie [Buon appetito! Disse – N.d.T.], «Benedetto pranzo, disse». Vermodert [putrefatto – N.d.T.] viene confuso con ermordet e tradotto con «assassinato», Backfisch [pesce impanato e fritto – N.d.T.] con «stoccafisso». Sie hatte den Sohn ihrer Brotgeberin geheiratet [aveva sposato il figlio della sua padrona – N.d.T.]: «aveva sposato il figlio della fornaia»! Be’, in effetti la fornaia potrebbe avere assunto qualche aiutante… Certo, anche i buoni traduttori incorrono in piccoli errori e sviste. Un noto scrittore, ad esempio, tradusse una volta la Nordsee (Il mare del Nord) di Heine. Nella sua versione i nachwachsende Enkelgeschlechter [le future generazioni – N.d.T.] sono diventati «progenie d’angeli». Il traduttore, che senza dubbio conosceva bene il tedesco, aveva letto Engelgeschlechter [generazioni d’angeli – N.d.T.] anziché Enkelgeschlechter [letteralmente: generazioni di nipoti – N.d.T.]! A questo proposito è risaputo che persino Goethe, in una traduzione dell’ode Il cinque maggio di Manzoni, cadde in una trappola simile: «i percossi valli» si trasformano in durchwimmelte Täler [valli brulicanti – N.d.T.], avendo Goethe scambiato i valli con le valli; una svista che non intacca minimamente il valore del suo splendido lavoro. Sono casi di distrazione di fronte ai quali si può chiudere un occhio.
Esperienza interiore (inneres Erlebnis) dell’opera da tradurre
Come detto sopra, è necessario che il traduttore padroneggi la lingua straniera. Ma non è sufficiente; bisogna che l’originale diventi esperienza interiore (inneres Erlebnis) di chi lo traduce, il quale deve altresì essere in grado di esprimere quell’esperienza con parole tali da indurre il lettore a pensare di trovarsi per l’appunto davanti a un testo originale. E questo risultato non si ottiene mai con una traduzione letterale. Di recente ho letto in una rivista che in America è stata inventata una macchina automatica con cui si può tradurre un testo inglese in tre lingue allo stesso tempo. Cosa non si riesce a fare nell’era della bomba atomica! Ammettiamo pure che una macchina simile possa esistere per davvero. Dubito, tuttavia, che sarà mai capace di tradurre in tedesco o in francese una poesia di Whitman o un romanzo di James. Alla macchina mancherà sempre un’insostituibile dettaglio: l’anima.
La lingua è anche musica e melodia
E non solo: alla macchina, oltre che l’anima, mancherà pure l’orecchio. La lingua è anche musica e melodia. Il traduttore deve avere una certa predisposizione musicale, per riconoscere la melodia che si trova nelle parole. Certo, non deve essere musica vuota, fine a se stessa. «Odio il verso che suona e che non crea». Non è necessario condividere la massima di Verlaine, secondo cui la musica viene prima di ogni altra cosa; che tuttavia tra musica e poesia esista un legame molto profondo è un dato di fatto incontestabile. Vediamolo con un esempio. Quando Platen comincia Das Grab im Busento con le parole: Nächtlich am Busento lispeln bei Cosenza dumpfe Lieder, aus den Wassern schallt es Antwort und in Wirbeln klingt es wieder, quello che sentiamo è soprattutto il bisbiglio, il sussurro dei canti, segnalato anche dalle molte i. Carducci traduce, o meglio riscrive: Cupi a notte canti suonano Da Cosenza su’l Busento, Cupo il fiume gli rimormora Dal suo gorgo sonnolento. Qui il sussurro è andato perduto. Tuttavia, una melodia è stata sostituita da un’altra. Il poeta indugia sul suono u: «cupi a notte», «cupo il fiume»… che in originale ricorre solo nell’aggettivo dumpfe. Nei versi seguenti i due poeti trovano consonanza nella suggestione prodotta dalla vocale u. Platen: Und den Fluß hinauf hinunter… Carducci: «su e giù pe’l fiume passano» ecc. C’è una musica, in questo verso, che nella versione italiana viene imitata consapevolmente. Ma solo di rado è possibile imitare in tal modo. Nessun orecchio, per quanto musicale, potrà mai tradurre in italiano il suono del verso di Rilke tratto dalla settima Elegia Duinese: deinem erkühnten Gefühl die erglühte Gefühlin. In italiano , infatti, il suono ü non esiste.
Tradurre è in primo luogo una questione di “imitazione” e di “ri-creazione”
La padronanza della lingua, la conoscenza diretta e profonda della letteratura straniera e la capacità di esprimerla come qualcosa di proprio restando aderenti al senso e fedeli al suono sono presupposti intimamente legati l’uno all’altro. Poiché bisogna soddisfarli tutti, forse hanno ragione coloro che affermano l’impossibilità del tradurre. In realtà si può auspicare e pensare di realizzare solo un’imitazione (Nachahmung), una ri-creazione (Nachdichtung) che, stimolata dall’originale, vada a costituire un’opera nuova, vissuta e sentita in prima persona. Per questo si tradurrà sempre nella propria lingua; molto di rado un autore che conosce due lingue traduce dalla propria lingua madre verso una lingua straniera. È probabile che gli risulti più facile usare direttamente la lingua straniera, come infatti fecero Rilke e D’Annunzio, che scrissero anche in francese.
Pericoli e insidie per chi traduce verso l’italiano
Restando in tema di musica della lingua, è opportuno osservare anche che l’italiano (purtroppo, aggiungo) è ricchissimo di rime, ma il nostro orecchio non le tollera nei testi in prosa, così come è infastidito dalla ripetizione ravvicinata della stessa parola. Nella prosa tedesca il problema non si avverte con la medesima intensità: rime e ripetizioni si accettano più facilmente. Uno degli scogli maggiori che il traduttore deve affrontare quanto alla musicalità è rappresentato dagli avverbi. Il tedesco ha una grande fortuna, e cioè che gli avverbi e gli aggettivi hanno lo stesso suono, mentre in italiano l’avverbio derivato dall’aggettivo prende sempre il suffisso-mente. Un esempio: edel, bescheiden, vernünftig non rimano tra loro. E nemmeno gli aggettivi italiani corrispondenti: «nobile», «modesto», «ragionevole». Bene. Se li trasformiamo in avverbi, in tedesco restano invariati: una persona si comporta edel, vive bescheiden, agisce vernünftig. In italiano invece diventano: «nobilmente», «modestamente», «ragionevolmente». Supponiamo che in una pagina da tradurre ci siano dieci avverbi, poi alcuni participi in -ente, ad esempio «dolente», «lucente», «negligente», qualche sostantivo come «docente», «torrente», «occidente», magari anche una serie di sostantivi quasi in rima, ossia quelli che terminano in -ento, con le forme plurali in -enti, come «unguento», «argomento», «strumenti», «godimenti», ed ecco, ci si può fare un’idea di come sarà quella pagina, di quanto risulterà noiosa, intollerabile! Un altro problema nasce dal fatto che in tedesco sono comuni, accanto a quelle di origine germanica, parole latine, e in questo modo le possibilità espressive raddoppiano: Intervall convive con Zwischenraum, Grazie con Anmut, Monument con Denkmal, mentre io potrò usare sempre e soltanto, rispettivamente, «intervallo», «grazia», «monumento». Se poi in quattro righe appaiono uno dopo l’altro i vocaboli Menschheit, Menschlichkeit, Menschentum, Humanität, a fronte dei quali l’italiano dispone del solo «umanità», non si potrà certo provare invidia per il povero traduttore! Ci porterebbe troppo lontano elencare tutte le difficoltà, le insidie e le trappole in cui può incappare il traduttore. Se è coscienzioso, troverà certo dei trucchi per aggirare gli ostacoli e trarsi d’impaccio, per quanta fatica gli possa costare. Il traduttore può inoltre dedicarsi esclusivamente a un singolo scrittore al cui spirito si senta particolarmente affine, oppure tradurne diversi. In quest’ultimo caso, nel suo cuore devono vivere non solamente due anime, bensì tante quanti sono gli autori che intende tradurre. Dev’essere all’altezza di ciascuno, tenendo presenti e salvaguardando, per quanto possibile, le loro peculiarità lessicali, stilistiche, melodiche.
La definizione rilkiana della traduzione
Una volta Rilke disse che la traduzione è un’arte affine a quella degli attori, trovando un modo eccellente per definirla: «è alchimia, conversione in oro di elementi altrui». Tradurre dunque non è cosa facile. Attori davvero capaci di ricreare come nuovi le parole e i personaggi usciti dalla penna dei drammaturghi ce ne sono pochi; alchimisti in grado di produrre oro, ancora meno. Ciò significa mettersi a lavorare con amore e costanza: così si potrà ottenere anche l’oro.
Excursus storico sulla traduzione
Traduzioni se ne sono sempre fatte. Non appena la lingua originaria si divide in due lingue, parlate da popoli diversi, diventa indispensabile avere un interprete che le conosca entrambe e svolga il ruolo di mediatore. Se però tralasciamo le necessità pratiche del vivere quotidiano, la prima grande impresa nell’ambito della traduzione è quella che riguarda il libro dei libri, la Bibbia. Mi riferisco alla cosiddetta Septuaginta, la più antica traduzione in greco dell’Antico Testamento che ci sia rimasta, condotta a partire dall’originale testo ebraico; ordinata dal sovrano egizio Tolomeo Il Filadelfo ad Alessandria, fu cominciata da settanta eruditi ebrei (ma probabilmente erano meno) nel III secolo a.C. Nel complesso il risultato non possiede i requisiti che oggi si richiederebbero a una buona traduzione; tuttavia, considerando i mezzi disponibili a quel tempo, dobbiamo ammirare il coraggio con cui fu intrapreso il lavoro ed essere molto grati ai pionieri di tutte le traduzioni della Bibbia. A questa versione ne seguirono molte altre nei secoli successivi: quella siriana, copta, etiopica, araba e quella gotica, fondamentale per la Germania, effettuata dal vescovo Ulfila nel IV secolo d.C. Ulfila, che promosse la diffusione del cristianesimo tra le tribù germaniche, svolse un’opera divenuta di importanza enorme. Ordinato vescovo dei Goti nel 341, conoscitore di tre lingue – gotico, greco e latino – portò a termine la traduzione dell’intera Bibbia (tranne i libri dei Re, che si dice avesse tralasciato per non favorire la bellicosità degli appartenenti al suo stesso popolo). Dopo diverse traduzioni latine dal greco, San Gerolamo ritornò alla fonte ebraica. Dai tempi di Erasmo da Rotterdam la sua versione, non priva di errori ma senza dubbio ammirevole, viene chiamata Vulgata. A Ulfila si può paragonare soltanto Martin Lutero, che dodici secoli più tardi si accinse a un lavoro altrettanto straordinario. La traduzione delle Sacre Scritture non fu solo una grande impresa dal punto di vista religioso: fu anche l’avvenimento letterario più importante del Cinquecento tedesco, pose le basi della letteratura tedesca moderna e creò l’unità spirituale della nazione. È lo stesso Lutero a spiegare in quale modo procedette. Nel Sendbrief vom Dolmetschen (Lettera del tradurre) scrive:
Non si deve chiedere alla lettera della lingua latina come parlar tedesco; lo si deve chiedere piuttosto alla madre di famiglia, ai ragazzi sulla strada, all’uomo semplice al mercato, e li si deve guardare direttamente sulla bocca per capire come parlano e poi tradurre di conseguenza. Allora, sì, comprenderanno e noteranno che con loro si parla tedesco.
Segue il famoso esempio di come si debba rendere il latino ex abundantia cordis os loquitur. Chi tradurrebbe mai: «Dal sovrabbondar del cuore la bocca parla»? «Quale tedesco mai capirebbe? Che cosa è mai “sovrabbondar del cuore”?» esclama indignato Lutero. «Invece la madre di famiglia e l’uomo semplice dicono: “Chi ha il cuore pieno non frena più la bocca”. Questo, sì, è buon tedesco». Pertanto ascolta con attenzione il popolo e ne adotta il modo di parlare. Il suo lavoro non è semplice, Lutero lo sa benissimo. «Eh sì, tradurre non è arte di tutti: c’è bisogno di un cuore retto, pio, fedele, diligente, rispettoso, cristiano, dotto, esperto ed esercitato». Secondo Lutero, quindi, il traduttore deve essere diligente e non risparmiarsi alcuno sforzo, avere nei confronti del testo un atteggiamento fedele e rispettoso, cioè umile, possedere le conoscenze, l’esperienza e l’esercizio necessari. E queste sono regole che accettiamo tranquillamente. Oltre a ciò il traduttore deve procedere con amore, padroneggiare la lingua straniera, amare e ammirare la propria. «E dubito – scrive Lutero – che la parola liebe possa essere detta in latino o in altre lingue con la stessa cordialità e pienezza, tanto da penetrare e vibrare nel cuore attraverso tutti i sensi come succede nella nostra lingua». Può essere che il tedesco Liebe suoni meglio di amore o amour; certo è, però, che l’attaccamento e l’amore per la propria lingua sono i presupposti migliori per la buona riuscita di una traduzione. Dopo la Bibbia di Lutero, l’arte della traduzione fece nuovi e vigorosi passi in avanti nel periodo romantico. Basti solo fare i nomi di Herder e Wieland, Simrock e Wilhelm Grimm, e anche di Goethe. Soprattutto, vanno menzionati Tieck e Wilhelm Schlegel con la loro resa in tedesco di Shakespeare. Cito Wilhelm Scherer:
Lo Shakespeare di Schlegel si collocò, pur con tutta la distanza dell’arte che riproduce da quella che crea, ma con tutta la prossimità della perfezione alla perfezione, accanto alle opere di cui Schiller e Goethe ci fecero dono nel periodo del loro sodalizio.
Shakespeare, è stato detto, divenne autore tedesco, proprio come accadde ai poemi epici di Omero, introdotti nella letteratura tedesca grazie a Johann Heinrich Voss.
La traduzione di opere italiane in Germania
I tedeschi avevano cominciato già da prima a innalzare nel loro olimpo dell’arte opere di autori italiani. Nel tardo medioevo, ad esempio, furono tradotti il Decamerone di Boccaccio e un racconto del Papa Enea Silvio Piccolomini. È risaputo che durante il Rinascimento furono tradotte in tedesco molte opere latine e greche di prosa e poesia. Con il diffondersi dell’Umanesimo, autori come Ovidio e Virgilio, Plauto e Terenzio, Cicerone e Vitruvio, Livio e Plutarco furono introdotti anche in Germania. Toccò al Romanticismo, però, dare ascolto alle voci di altri popoli, compreso quello italiano. Ecco, allora, Johann Dietrich Gries da Amburgo, che nel primo decennio dell’Ottocento tradusse con riconosciuta maestria, sulla scia di Schlegel e Tieck, La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso e l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto; non meno sapiente fu nel tradurre due poemi epici minori, l’Orlando innamorato di Boiardo e il Ricciardetto di Forteguerri. La Gerusalemme di Tasso e l’Orlando di Ariosto erano state già tradotte da Wilhelm Heinse negli anni settanta del XVIII secolo. Kannegiesser si cimentò dapprima con la Divina Commedia di Dante, che fu tradotta anche da Karl Streckfuß e dal re Giovanni di Sassonia sotto lo pseudonimo di Filalete ; Förster rese in tedesco tutte le poesie di Petrarca rispettando il metro originale, Streckfuß offrì un nuovo Orlando furioso e una Gerusalemme liberata, Soltau la prima buona traduzione del Decamerone, Goethe le memorie di Benvenuto Cellini. Il numero dei traduttori dunque aumenta sempre più. È difficile trovare una letteratura al mondo che mediante le traduzioni non sia diventata patrimonio del popolo tedesco. Goedecke conta oltre settecento traduttori tedeschi nel XIX secolo, ciò che fa intuire l’incredibile ricchezza della produzione letteraria di questo periodo storico in Germania.
Per quale ragione si è cominciato molto prima a tradurre dall’italiano in tedesco anziché dal tedesco in italiano?
Se si getta invece uno sguardo sulle traduzioni di autori tedeschi eseguite in Italia, vediamo che cominciarono abbastanza tardi, nella seconda metà del Settecento. Si tradussero alcune opere dall’inglese e dal francese: Melchior Cesarotti, Antonio Conti, Rolli e Gozzi tradussero Milton, Ossian e Gray, Racine e Voltaire. I legami tra la letteratura italiana e quella tedesca, però, pur intrecciati già nel Settecento, maturarono solo un secolo dopo. Le ragioni addotte dai contemporanei per questo ritardo sono diverse. Algarotti e Alfieri trovavano il suono della lingua tedesca ripugnante e odioso, mentre Denina scorgeva nei caratteri gotici, così difficili da decifrare, l’ostacolo maggiore alla diffusione delle opere tedesche. Gli scrittori del tempo non nutrono alcuna simpatia per lo stile di vita e l’anima tedeschi. Il già citato conte Algarotti, Pietro Verri e Saverio Bettinelli manifestano un altezzoso disprezzo. Apostolo Zeno, che fu poeta di corte a Vienna, scrisse addirittura: «È piaciuto a Dio, che io venga in Germania per gastigo ed emenda de’ miei peccati». In ogni caso è corretto affermare che in quel periodo l’Italia ha dato più di quanto abbia ricevuto. Non c’è di che meravigliarsi! Se si confronta la realtà italiana con quella tedesca, ci si accorge che Dante, sommo tra i poeti italiani, si trova alle origini della storia letteraria del nostro paese, mentre Goethe, il più importante poeta tedesco, fa la sua comparsa solo dopo un processo durato parecchi secoli. Tuttavia Dante rappresenta anche una conclusione, la summa dell’intera cultura religiosa, politica e filosofica del medioevo. Ma la sua opera fu di portata straordinaria a livello linguistico, tanto che può essere considerato a pieno diritto il creatore della lingua italiana. Dopo di lui, in sette secoli l’italiano ha conosciuto così poche trasformazioni che ancor oggi quasi tutti comprendono la sua lingua. Il tedesco, invece, raggiunse lo stesso grado di perfezione solo grazie al genio poetico e linguistico della Klassik, quindi in epoca relativamente tarda. Un testo in medio alto tedesco coevo alla Divina Commedia, come ad esempio Der Renner di Hugo von Trimberg, per il lettore odierno è assai difficilmente comprensibile.
Il primo traduttore dal tedesco: Aurelio de’ Giorgi Bertola
Questa la spiegazione che noi ci diamo riguardo la tardiva comparsa delle traduzioni dal tedesco. Il primo a occuparsi di letteratura tedesca non solo come traduttore ma anche come critico fu il poeta riminese Aurelio de’ Giorgi Bertola, che a trent’anni, nella seconda metà del XVIII secolo, andò prima a Vienna, poi attraversò la Svizzera, facendo visita a Gessner a Zurigo, quindi da viaggiatore romantico discese il corso del Reno e nel 1795 raccontò queste peregrinazioni nella raccolta di lettere intitolata Viaggio sul Reno e ne’ suoi contorni. Undici anni prima, nel 1784, aveva pubblicato a Lucca la sua Idea della bella letteratura alemanna. L’opera è, dall’inizio alla fine, un inno alla letteratura tedesca, di cui Bertola si dimostra buon conoscitore. Ciò nonostante il suo giudizio su singoli autori e opere, soprattutto quelli a lui contemporanei, è assolutamente inadeguato e dal punto di vista critico spesso insostenibile. Il che comunque non intacca in alcun modo i suoi meriti per la diffusione della letteratura tedesca in Italia.
Di mezzo a questo – scrive – non è egli sembrato, che quasi fino a questi dì siasi dubitato fra noi se gli Alemanni avessero immaginazione? Ravvisavamo il lor paese come ferace di menti infaticabili e profondamente dotte; studiavamo i loro gius-pubblicisti, i lor critici, i lor diplomatici, i lor metafisici: ma pel culto delle Muse fu da noi creduto il loro ingegno assolutamente profano. False idee che ci componevamo per avventura come un cieco potrebbe formarsi quella del color della rosa, toccandone le spine.
Perciò gli sembra opportuno scrivere una breve storia della letteratura tedesca dai Minnesänger alle prime opere di Lessing e Wieland. All’inizio traduce una serie di poesie a cominciare da quelle di Ewald von Kleist per presentare poi, tra le altre, liriche e odi di Hagedorn, Gleim, Stolberg, Haller, Klopstock, Gellert. Vi si trova anche un componimento di Goethe, la poesia della violetta sul prato:
Chiusa in se stessa e incognita stavasi violetta al prato in sen; ma quanto eri mai bella! Quand’ecco sorridente pastorella cantando e a lenti passi al prato vien. Oh, viola foss’io!
Questi pochi versi dovrebbero essere sufficienti a mostrare l’arbitrarietà con cui il buon abate Bertola, con le sue locuzioni arcadiche, tratta il testo. Goethe mantiene la finzione della violetta con coerenza nell’intera poesia. Mentre Goethe rimane sul piano oggettivo – Es war ein herzig’s Veilchen – Bertola opera una scelta del tutto infelice rivolgendosi direttamente al fiore con un «quanto eri mai bella!» e poi esclamando d’un tratto: «Oh, viola foss’io!», laddove Goethe si limita a far dire alla violetta: Ach, denkt das Veilchen, wär’ ich nur / die schönste Blume der Natur! Si potrebbero elencare molti altri esempi: ma ci porterebbe troppo lontano. Si aggiunga solo che Aurelio Bertola tradusse con particolare dedizione gli idilli di Gessner, benché i suoi versi siano spesso prosaici, laddove la prosa di Gessner risulta poetica. In ogni caso gli va riconosciuto il merito di aver reso accessibili per primo in Italia alcuni brani di letteratura tedesca. Tra i suoi contemporanei ricordiamo Giampietro Tagliazucchi, che tradusse il poema Der Frühling di Ewald von Kleist, Giambattista Corniani, autore di un Saggio sopra la poesia alemanna, il bibliotecario Baldassarre Oltrocchi, che rielaborò poesie tedesche in esametri latini. Come in Germania, anche in Italia il movimento romantico è stato di grande stimolo nel campo della traduzione. Celebre è lo scritto di Giovanni Berchet che dettò la linea al Romanticismo: Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo, risalente al 1816 e in cui sono contenute le traduzioni in prosa (Berchet le chiama «romanzi») delle ballate di Bürger Der wilde Jäger (Il cacciatore feroce) e Lenore (Eleonora). La lettera dette il via a quella disputa tra Classici e Romantici alla quale, seguendo l’esempio tedesco, parteciparono Vincenzo Monti, Foscolo, Manzoni e Leopardi.
Traduzioni dal tedesco in italiano nell’Ottocento
Voglio ricordare alcune traduzioni compiute nell’Ottocento che hanno contribuito alla diffusione della letteratura tedesca in Italia. Si pensi ad Andrea Maffei, originario della Valle di Ledro presso Trento, morto quasi novantenne nel 1885 a Milano. Le sue traduzioni dal tedesco sono certo migliori di quelle dall’inglese, ma raramente rendono giustizia allo spirito dell’originale. Talvolta, soprattutto nella lirica, gli riuscì di superare gli ostacoli e trovare il tono giusto. Il suo merito, però, consiste nell’aver tradotto i drammi di Schiller, in cui più della potenza drammatica emerge l’elemento lirico. A suo giudizio, sono soprattutto le numerose parole composte e le infinite possibilità esistenti in tedesco di crearne di nuove a mettere il traduttore di fronte a un duro compito. Se su questo punto possiamo anche essere d’accordo, non condividiamo però l’osservazione secondo cui lo stile italiano sarebbe difficilmente armonizzabile con quello tedesco, «in quanto definito da un modello secolare»! Bisogna avere per l’appunto il coraggio di rinnovarlo, affinché possa soddisfare le nuove esigenze. Maffei, ad esempio, traduce come segue il monologo della regina Elisabetta nel quarto atto della Maria Stuart (Maria Stuarda) di Schiller:
Oh dura schiavitù che mi condanni A piegar la cervice a quest’abbietta tirannia popolar! Come son io stanca di lusingarti, idolo vile, che nell’occulto del mio cor disprezzo! ecc.
Cinque endecasillabi che corrispondono a tre pentametri giambici; segno che c’è stato un annacquamento, con l’aggiunta di parole che sarebbe vano cercare nel testo tedesco:
O Sklaverei des Volksdienstes! Schmähliche Knechtschaft! – Wie bin ich’s müde, diesem Götzen zu schmeicheln, den mein Innerstes verachtet!
La schiavitù diventa «dura», l’idolo «vile», l’animo «occulto del mio cuor»; le parole «che mi condanni a piegar la cervice» sono inventate di sana pianta. Non si può dire che questo sia tradurre in maniera fedele e rigorosa.
Un autore molto tradotto: Heinrich Heine
Un autore molto tradotto fu Heinrich Heine. Tra i tanti a essersi misurati con lui, ricordo Chiarini, distintosi per la traduzione di numerose liriche e dei poemi Atta Troll e Deutschland (Germania ), e Bernardino Zendrini, negli anni sessanta dell’Ottocento docente di lingua e letteratura tedesca all’università di Padova. Questi divenne famoso per la polemica con Carducci relativa alla traduzione di Heine, traduzione, quella di Zandrini, che, per quanto discordi possano essere i giudizi in merito, diede indiscutibilmente un grande contributo alla conoscenza dell’opera poetica di Heine in Italia. Certo, da lui i componimenti di Heine vengono spesso trasformati in sdolcinate poesie pastorali: «Io cammino tra i fiorelli / e fiorisco anch’io con elli». Oggi non possiamo fare a meno di sorridere, recitando rime simili. Confrontando Zendrini e Carducci si comprende la netta superiorità di quest’ultimo: Mit schwarzen Segeln segelt mein Schiff / wohl über das wilde Meer viene tradotto da Zendrini come segue: «Varca il mio legno con brune vele / l’irato mar». Carducci scrive invece: «Passa la nave mia con vele nere, / con vele nere pel selvaggio mare». Carducci ha tradotto magistralmente anche poesie di Klopstock, Herder, Uhland e Platen. Qualche mese fa Giorgio Calabresi ci ha consegnato una traduzione integrale del Romanzero davvero degna di lode.
Fioritura della traduzione in italiano di opere tedesche
A ogni modo, quanto più ci avviciniamo al nostro tempo, tanto più curate e frequenti si fanno le traduzioni, sia dei classici sia degli autori contemporanei. Nella seconda metà del XIX e nelle prima metà del XX secolo le traduzioni di libri tedeschi conobbero una straordinaria fioritura. A poco a poco tutte le opere e gli autori più rinomati furono tradotti, a cominciare dagli antichi: lo Hildebrandslied e il Muspilli, il Nibelungenlied e il poema Gudrun, Hartmann von Aue e Wolfram von Eschenbach, Hans Sachs e Grimmelshausen, Klopstock e Lessing, Hamann e Herder, Novalis e Hölderlin, Wackenroder e Zacharias Werner, Tieck, Kleist, Grillparzer, Stifter e Hebbel, Keller e Storm, Otto Ludwig e Hamerling, Heyse e Rosegger, Fontane e Sudermann, Dehmel, Hauptmann, Ricarda Huch, Hofmannsthal, Hesse e Wiechert, Trakl e Kafka ecc. Come si vede, sono tantissimi i nomi di spicco della letteratura tedesca presenti in questa lista.
Edizioni integrali delle opere di autori tedeschi
È recente la tendenza a offrire, di autori importanti, l’edizione integrale o almeno una ricca selezione. Guido Manacorda, per esempio, ha tradotto tutti i drammi di Richard Wagner, con un corredo di commenti eruditi. E Lavinia Mazzucchetti ha preparato per l’editore Sansoni quattro pregevoli volumi che contengono una vasta scelta delle opere di Goethe e sta curando per Mondadori la traduzione di tutte le opere di Thomas Mann. Singoli testi sono stati tradotti più volte, primo fra tutti il Faust di Goethe: dopo le traduzioni, datate e sotto tutti gli aspetti malriuscite, di Giovita Scalvini (che pubblicò il Faust già nel 1835, tre anni dopo la morte di Goethe) e di Maffei, e dopo le più recenti e migliori di Biagi, Persico, Guerrieri, Baseggio e Vellani, nel 1932, in occasione del centenario della morte, fu pubblicata quella, meditata e pregevole, di Manacorda, commentata con ampia erudizione. A essa sono seguite di recente tre traduzioni, di Vincenzo Errante, Giovanni Vittorio Amoretti e Barbara Allason. Non molto tempo fa si è cominciato persino ad affrontare le opere dialettali e sono stati tradotti Uli der Knecht di Jeremias Gotthelf, dal dialetto bernese, e Ut mine Stromtid di Fritz Reuter, dal dialetto del Meclemburgo. Oggi i contatti sono diventati così rapidi che spesso non si aspetta nemmeno la pubblicazione di un libro, bensì lo si traduce direttamente dalle bozze di stampa o dal manoscritto, in modo che l’opera esca in contemporanea in due o più paesi. Tra i traduttori si sono distinti, nell’Ottocento, anche Antonio Zardi, misuratosi con numerosi poeti, e Casimiro Varese, che ha tradotto Adams Tod di Klopstock, Clavigo, Stella, Tasso ed Egmont di Goethe, Nathan der Weise di Lessing e molto altro. A questi, in tempi più recenti e con un notevole successo si sono aggiunti, tra gli altri, Lavinia Mazzucchetti, Pisaneschi e Spaini, Enrico Rocca e Aldo Oberdorfer, Vincenzo Errante, il traduttore di Rilke e Hölderlin, come pure Rodolfo Paoli e Cristina Baseggio, Leone Traverso e Giorgio Zampa, Bruno Arzeni ed Emilio Castellani, ma sottolineo che, naturalmente, è lungi da me il pensiero di aver formulato un elenco completo. Questa lunga fila di nomi, tuttavia, testimonia quanto vivo si sia fatto, negli ultimi tempi, l’interesse per la letteratura tedesca.
La traduzione dal tedesco all’italiano in numeri
Questo interesse crescente emerge anche da alcuni dati statistici degli ultimi anni. Nel 1951, per esempio, sono state tradotte in italiano 108 opere tedesche, l’11,7% del totale dei libri tradotti. La Germania occupava così la terza posizione; infatti le traduzioni dall’inglese ammontavano al 39% e quelle dal francese al 27%; dato, quest’ultimo, davvero curioso se si pensa che in generale non viene tradotto molto dal francese, in quanto la lingua è abbastanza diffusa e per gli italiani risulta più o meno comprensibile, sicché i libri francesi di solito vengono letti in lingua originale. Non sempre gli autori più tradotti sono anche quelli più significativi dal punto di vista letterario: se in Germania, per esempio, nel 1951 lo scrittore più tradotto è Edgar Wallace e in Francia Erle Stanley Gardner, ossia grandi rappresentanti del romanzo poliziesco, qualcosa di simile accade anche in Italia, dove Delly ha nove traduzioni, i fratelli Grimm cinque e Goethe quattro. Andando ancora più indietro nel tempo, osserviamo che negli anni 1946-1952 la percentuale di libri tedeschi sul totale oscilla tra il 12 e il 17%. Di questi circa un quinto, forse anche meno, sono vecchie o nuove opere narrative e di intrattenimento in genere, mentre la percentuale rimanente riguarda la saggistica. Del resto, alla mostra del libro tedesco tenutasi a Milano la scorsa primavera ho avuto l’impressione che anche in Germania prevalga la saggistica.
Significato storico-culturale della traduzione
È fuor di dubbio che le traduzioni abbiano un enorme significato storico-culturale. Lo si è visto con le traduzioni della Bibbia, ma potremmo fornire molti altri esempi. Di alcuni pensatori greci i cui scritti sono andati perduti siamo venuti a conoscenza solo attraverso Cicerone, che ne tradusse le massime in latino inserendole nelle sue opere, fortunatamente giunte fino a noi. Ci saremmo mai addentrati nei segreti del magico Egitto, se Champollion non ce ne avesse aperte le porte grazie all’iscrizione bilingue della stele di Rosetta? Saremmo in grado di comprendere così a fondo la cultura persiana e mesopotamica se Grotefend e Rawlinson non avessero decifrato la scrittura cuneiforme dell’iscrizione rupestre multilingue di Bīsutūn? Agli occhi di coloro che non conoscono le lingue morte la traduzione fa rivivere culture ormai tramontate. La traduzione ci trasmette i valori culturali di tutti quei paesi e popoli di cui non conosciamo la lingua. La traduzione è una via che permette alle nazioni, ognuna con le proprie particolari, uniche, preziose peculiarità, di comprendersi vicendevolmente. In conclusione voglio ricordare le belle parole di Gottfried Herder, che si batteva contro la follia nazionalista e la discordia tra i popoli:
La natura ha distribuito i suoi doni in maniera diseguale: su tronchi diversi, a seconda del clima e delle cure che ricevono, crescono frutti diversi. Chi mai li metterebbe a confronto l’uno con l’altro o assegnerebbe il primo premio a un melo selvatico, dinnanzi alla vite?… Rallegriamoci piuttosto che sui coloratissimi prati della terra ci sia una tale varietà di fiori e frutti, che di qua e di là delle Alpi germoglino fiori tanto diversi e maturino frutti di ogni genere! [traduzione mia – N.d.T.]