In teatro il verbo si fa carne

INTERVISTA A GABRIELE LAVIA

di Giovanni Greco

Gabriele LaviaArrivo puntuale all’appuntamento con Gabriele Lavia, regista, attore, e attuale direttore artistico del Teatro di Roma. Lui non c’è ancora perché ha da risolvere un problema tecnico con lo spettacolo in scena in questi giorni, una riduzione della Trappola, novella di Pirandello riadattata per la scena dallo stesso Lavia, che ne cura la regia e ne è protagonista. Aspetto nel lungo corridoio dei camerini del Teatro di Roma, dove altre volte sono stato, mi ripasso le domande che ho pensato per il nostro incontro precedente l’andata in scena e che poi non seguirò, preso dall’impeto della conversazione. Dopo dieci minuti Lavia arriva trafelato ma impeccabile e ci accomodiamo nel suo camerino, dove gli spiego brevemente di che si tratta. Poi accendo il mio Ipod, Lavia si produce in uno sguardo enigmatico e gli faccio presente sorridendo che è solo un registratore «in versione contemporanea»…

Gabriele Lavia, attore, regista, erede della grande tradizione capocomicale italiana, ci racconta la Sua esperienza “sul campo” con la traduzione di un testo teatrale?

Tutti i testi teatrali comportano una traduzione. È un problema centrale per il teatro. Tutto è traduzione, tradizione, trasferimento, tradimento: per me sono sinonimi che poi nel tempo hanno acquistato valenze simboliche diverse. Qualunque cosa facciamo in teatro, dobbiamo sapere, ogni momento, che siamo liberati nel tradimento, nel tradurre, nel tradere. Nel portare da un posto a un altro, dal passato al presente, da lì a qui: in questo passaggio qualcosa succede sempre.

Succede qualcosa. Ma secondo lei si perde qualcosa o si guadagna qualcosa?

Non si perde mai nulla e non si guadagna mai nulla – risponde d’impeto Lavia -. Si scopre qualcosa che è sé stessi, l’essere che noi siamo. Prendiamo l’Edipo Re di Sofocle. Devo tradurlo. Come posso tradurre le migliaia di parole del greco con le poche centinaia del lessico fondamentale che noi usiamo ogni giorno? È possibile? Sembrerebbe di no. E allora noi dobbiamo vedere se tutto si risolve nella traduzione delle parole o se c’è qualcos’altro che ha a che fare con la comunicazione che non si esaurisce nelle parole, che non sappiamo cosa sia. Evidentemente c’è qualcos’altro: un sentimento, uno stato d’animo, uno stato del corpo che deve essere trasferito, che comunica nel senso della comunione (che significa la stessa cosa di comunicazione). Questa comunione è in teatro sempre fisica, corporea, carnale.

A questo proposito, il teatrante si trova sempre o quasi davanti la traduzione di un letterato…

… che non funziona mai!

Lei si sarà trovato molte volte ad avere a che fare con una traduzione di qualcuno che ha composto a tavolino quelle parole, portandole da una lingua all’altra e poi…

Guardi, prendiamo l’esempio di Quasimodo. Quasimodo è un poeta e nessuno può negarlo.  Traduce l’Edipo Re, una delle poche traduzioni che si possono “dire”. A un certo punto, tuttavia, si racconta di un carro tirato da cavalli e ci sono due persone di cui si parla, un battistrada e uno che guarda dietro: Edipo si piazza di fronte a questo carro e colui che sta sul carro viene avanti e alza il bastone della frusta per colpirlo. A questo punto il racconto dice «mi guardò» (il racconto è di Edipo): Quasimodo non lo traduce, sorvola… Ora lei mi dica se nella tragedia degli occhi, noi possiamo tralasciare gli sguardi del padre e del figlio che, inconsapevoli, s’incrociano? Quasimodo è un poeta, non capisce la pregnanza di quello sguardo o la ritiene superflua: la lingua che si usa sul palcoscenico è una lingua che deve diventare carne e quindi anche sguardo, sempre.

Gli occhi di Lavia, la sua gestualità, che nessun Ipod potrà immortalare, hanno reso perfettamente il senso di quello sguardo, la necessità della sua presenza, la pregnanza della sua vita scenica e non letteraria…

Questo vale anche per Shakespeare, sul quale Lei ha lavorato molto?

Ci sono ancora in commercio decine di traduzioni indecenti di Shakespeare, indicibili, che non sono neppure traduzioni, neppure adattamenti, che sono nate vecchie e per le quali si chiedono ancora oggi fior di quattrini agli sprovveduti lettori.

Lei crede che ci sia sempre bisogno di un adattamento; anche il Pirandello che porta in scena in questi giorni nasce da una novella, La trappola, che non nasce direttamente per il palcoscenico?

Adattare fino a tradire, fino a portare Gesù dall’orto di Getsemani al Sinedrio e alla Croce. Ogni opera d’arte, ogni messa in scena è un assassinio e per certi versi un auto-assassinio, perché quando l’attore dice «un uomo ebbro di vino mi chiamò bastardo», come traducono tutti quel verso dell’Edipo Re, in realtà non c’è la parola, non è quella la parola in greco. Orazio Costa, mio maestro ai tempi dell’Accademia e conoscitore del greco, traduce con fattizio quella parola impossibile: si trovano traduzioni con trovatello o simili, ma nessuna parola dice di quella condizione particolare di Edipo, di quell’essere figlio e marito di sua madre e di quella serpe che gli s’insinua in petto al sentir quella parola. E allora, quando dovetti farlo io, la soluzione fu «un uomo ebbro mi chiamò… (qui Lavia si mette una mano sulla bocca bloccando qualsiasi espressione e quasi il respiro, sbarrando gli occhi in una smorfia che è di sorpresa e di consapevolezza profonda allo stesso tempo)» non c’è la parola, non si può dire «figlio di puttana»; in italiano non c’è niente che corrisponda, c’è solo il silenzio, il non-detto non dicibile che solo il teatro, l’azione teatrale può restituire. Vai a spiegarlo ai letterati!

Ma Lei tutto questo travaglio, questo doppio piano, lo vive più come regista o più come attore?

Io sono un regista che fa anche l’attore. Non sono un attore: questo è il mio limite.

O la Sua risorsa? C’è tutta la tradizione del capocomicato in questa Sua condizione.

Comunque è un limite. Però io, essendo un regista che è anche attore, quando adatto una traduzione, la faccio passare per la bocca, la metto in bocca, la dico. In genere credo di essere abbastanza fedele…

… fedele nel tradimento?

Il tradimento è fatale. Certo il teatro è il luogo della visione, non della parola. Che cosa ci guarda? Che cosa guarda te spettatore e che cosa guarda te attore? Ti guarda la dea, la dea Verità nascosta dalla skenè, dal nascondimento: e la verità in greco è la svelatezza, la mancanza di nascondimento. La svelatezza non accade attraverso le parole ma attraverso lo sguardo, che può essere anche lo sguardo delle parole, ma non solo. Le parole ti guardano, nel momento in cui dico «mare» già sono guardato dal mare che suona. I Greci dicono che l’uomo è zoon logon echon, traducibile con l’uomo è animale che risuona, come un’eco di qualcos’altro. Ma Eco è una ninfa condannata, per colpa del suo sapere, a far risuonare solo le ultime sillabe. A ripetere, così come l’attore, così come il teatro. Certo l’attore ha i sentimenti. Ma come si fa a dire «amore»? Come si può pronunciare credibilmente questa o un’altra parola, tra quelle più abusate? Non sul palcoscenico, ma nella vita, alla faccia della semiotica che non capisce niente di teatro, per non dire della vita! Solo la comunione permette la traduzione, ma su un piano diverso da quello esclusivamente linguistico. I preti in questo la sanno lunga…

I preti hanno avuto per millenni un rapporto pessimo con il teatro e con i teatranti. Gli attori venivano sepolti in terra sconsacrata, ne parlano molti Padri della Chiesa. La questione, a parte la promiscuità dei costumi, è che gli attori fanno quello che fa il diavolo, entrando ed uscendo dai corpi delle persone cioè dei personaggi, possedendoli e poi abbandonandoli ripetutamente…

Sì, la religione cristiana nasce in conflitto con il teatro, il cui dio, Dioniso, ha una storia molto affine a quella di Cristo, gli fa concorrenza: Cristo è il Dioniso con il sesso coperto. Paolo di Tarso, greco, ha orecchiato il teatro, ne conosce potenzialità e limiti e non può che contrapporsi a un dio che fa della follia la sua ragione di esistere, antitetica alla Sapienza del mondo che era la filosofia greca. Il Dio di Paolo è unico, onnipotente e onnisciente, un dio per il quale la verità non è più svelatezza, ma Lui stesso, la Sua rivelazione. Nel 529 d. C. viene chiusa la Scuola di Atene e da lì è cominciata un’altra storia…

In effetti tutti i problemi di fedeltà e infedeltà della traduzione rispetto al mitico originale iniziano con la traduzione della Bibbia, con la necessità di essere fedeli non solo e non tanto alla Parola, ma alla Rivelazione di Dio, all’ordine delle parole (l’ordo verborum) con cui quella Rivelazione è stata consegnata agli uomini…

Mi dice il mio amico Igor Sibaldi, conoscitore dell’ebraico e traduttore della Bibbia, che ci sono molti travisamenti nella Bibbia di Gerusalemme che comunemente leggiamo: per esempio non c’è la foglia di fico e più che di vergogna si deve parlare di tristezza al momento della scoperta della nudità da parte di Adamo ed Eva…

Già, ma forse ci stiamo allontanando dal nostro tema. O forse la stiamo prendendo alla larga, da un altro punto di vista.

Forse. Ci sono argomenti che non si possono esaurire.

È vero, però Lei tra meno di mezz’ora dev’essere in scena e io Le ho già sottratto molto tempo…

Non si preoccupi, La ringrazio e torni un’altra volta che continuiamo.

Ci congediamo calorosamente. Gli regalo il mio romanzo, Malacrianza, lui regala a me la sua riduzione della Trappola. Mi invita a venire allo spettacolo nei giorni che verranno – cosa che farò. Mentre scendo per le scale che mi porteranno fuori dal teatro, mi torna in mente una frase che mi diceva sempre una persona che mi è stata molto cara, Lugi Maria Musati, direttore dell’Accademia che mi ha formato come teatrante. La frase recitava all’incirca «Chissà perché ogni volta che si parla autenticamente di teatro, si finisce sempre nella teologia, a parlare di Dio?». Anche stavolta come le altre, la frase resta senza risposta, ma il senso mi appare meno scontato del solito, qualcosa forse si è svelato…