La recensione / 6 – La traduzione negata

di g.p.

bolzanoStadttheater / Teatro civico / Teatro Verdi di Bolzano. Storia di un teatro di confine (1918-1943), a cura di Massimo Bertoldi e Angela Mura, Quaderni di storia cittadina, volume 3, Comune di Bolzano – Stadtgemeinde Bozen: Archivio storico – Stadtarchiv, 2011

Quale luogo più interessato all’incontro e confronto tra culture e lingue diverse di un “teatro di confine”? In realtà, quando lo Stadttheater fu concepito, intorno al 1910, Bolzano non era affatto una città di confine, in quanto si trovava ben insediata nell’impero asburgico, essendo il confine con l’Italia parecchio più a sud e a ovest e la sua popolazione quasi esclusivamente di lingua tedesca. Sicché è abbastanza comprensibile che quando, con molte difficoltà e peripezie – essendo intervenuta la guerra e divampante il nazionalismo –, il teatro finalmente fu inaugurato nella primavera del 1918, esso recasse sul frontone la scritta Zum deutschen Kunst (all’arte tedesca), mentre ai nostri occhi di posteri la cosa appare incredibile, alla vigilia del crollo di quell’impero e dell’annessione manu militari della città e del suo circondario al Regno d’Italia. Ma era un segnale di contrapposizione: Monaco o Amburgo o la stessa Vienna non avrebbero mai avuto bisogno di affermare in tal modo la propria identità nazionalculturale. Bolzano, «la più meridionale delle città tedesche», minacciata di annessione, sì. E ancor più Bolzano annessa: la programmazione del teatro – con una propria compagnia, una propria orchestra e un proprio direttore artistico, Leo Bowacs, proveniente dalla condirezione dello Schauspielhaus di Stoccarda – fu nei suoi primi anni di vita esclusivamente in lingua tedesca, anche quando si trattava di testi stranieri, come nel caso di Frau Warrens Gewerbe, traduzione di Mrs Warren’s Profession, di George B. Shaw. Tassativamente esclusi gli autori italiani, fino al 1921, quando vennero rappresentate tre opere di successo – Tosca, Pagliacci e Cavalleria rusticana – che d’altronde, in lingua originale, circolavano in tutti i teatri lirici del mondo e che furono seguite poi da altri articoli del repertorio lirico italiano, sempre rappresentati dalla compagnia stabile in italiano. Di proporre un incontro tramite traduzioni non veniva in mente a nessuno, né agli occupanti né agli occupati.

Fino al 1922 gli amministratori italiani, prima militari e poi civili, lasciano fare e quelli locali – lo sperimentato borgomastro Julius Perathoner in testa – sostengono, a costo di buchi finanziari spaventosi, per di più con insoddisfacente riscontro di pubblico. Ma poi arriva il fascismo e pian piano la musica (è il caso di dirlo) cambia: l’italianizzazione da progressiva diventa violenta, si dà vita a una forte corrente immigratoria, con l’insediamento di fabbriche italiane e la creazione di nuovi quartieri. La compagnia stabile si scioglie, il teatro assume nome italiano fin dal 1923, il «difficile e capriccioso pubblico, tedesco e italiano» – come lo definisce nel suo saggio su Spettacoli e pubblico nel Teatro Civico / Teatro Verdi Massimo Bertoldi – si dirada ancor più. Arriva il cinema a cambiare la carte in tavola, ma la programmazione è in lingua italiana, che d’altronde è imposta in tutta la vita pubblica. I film si alternano alle opere liriche con cantanti italiani: il melodramma italico viene usato come grimaldello per forzare la chiusura germanica alla lingua dell’occupante.

Nel testo iniziale del volume, Cultura e politica a Bolzano, 1906-1943, l’affermato storico Rolf Petri riassume egregiamente le tragiche (ma con risvolti che sarebbero comici, soprattutto nelle gesta toponomastiche di Ettore Tolomei) vicende di questa snaturalizzazione di una città che ben poco aveva di italiano prima del 1918. La stretta finale arriva nel 1937, con il cambiamento di denominazione in Teatro Giuseppe Verdi; ma un nome non basta: ormai i film hanno un deciso sopravvento.

Sembra davvero emblematico che il teatro tedesco nato alla vigilia della fine della prima guerra mondiale e poi forzatamente italianizzato sia stato distrutto ai primi di settembre del 1943, alla vigilia del crollo dell’Italia fascista, dell’occupazione tedesca e dell’annessione di tutta la regione al Reich col nome di Alpenvorland. I documentari di guerra tedeschi hanno immortalato le accoglienze festose che sulle strade sudtirolesi furono riservate alla Wehrmacht. Il bel volume bolzanino (splendide le immagini, soprattutto quelle riservate alla vicenda della progettazione e della costruzione del teatro) non si azzarda oltre. È riuscita la Repubblica antifascista a rimediare almeno in parte ai guasti fascisti? Vorremmo saperne di più.