di Fabio Stassi
Ho sempre pensato al traduttore come a un musicista. L’interprete che si accosta a uno spartito già scritto ma a cui manca lingua, timbro, intonazione e tocco. Il suono e il fiato. In una parola, la voce. Il suo compito è quello di restituirne la musica, e restituire è un verbo difficile, in letteratura, perché ha a che fare con la natura più intima del raccontare. Scrivere è anche, e forse soprattutto, un tentativo di restituire qualcosa a qualcuno (un’altra versione della verità? un segreto mai detto?), nell’incoscienza di sanare delle ferite, in una necessità quasi infantile di riparazione.
Il traduttore, in fondo, è un uomo che cerca di riparare alla babele del mondo, al disordine e alla confusione del nostro sempre imperfetto modo di comunicare. Come sostiene Milan Kundera, il romanzo è un fenomeno sovranazionale e per questo dovremmo portare verso i nomi di alcuni traduttori lo stesso rispetto e la stessa ammirazione che tributiamo ai nomi di Glenn Gould o di Benedetti Michelangeli. L’inesauribile riconoscimento che merita chi ci aiuta a riconoscerci in un personaggio letterario o in una frase.
Nella mia formazione, come in quella di molti, leggere e studiare la letteratura di altri paesi è stata fondamentale tanto quanto conoscere la nostra. A vent’anni, per me hanno contato soprattutto la letteratura di lingua portoghese, quella sudamericana, e poi le altre letterature europee, la nordamericana, naturalmente, alcuni autori dell’Africa e dell’Asia.
Ho letto, riletto e amato José Saramago dal primo libro che fu tradotto in Italia, e tutta la mia gratitudine va a Rita Desti capace di riconsegnare con la stessa potenza dell’originale la fluvialità della sua prosa e il primato della virgola nella nostra lingua. Ne ho smontato e studiato a lungo le costruzioni sintattiche: ogni nuovo libro era per me un appuntamento e un esercizio entusiasmante. Volevo indovinare il tempo interno di ogni testo, se suonava in levare o in battere, se era dispari o pari, il ritmo, insomma, che la traduttrice era riuscita a mettere in salvo e a riprodurre. Come se si potesse tradurre il respiro di un autore, il suo giro di fiato. Mi colpì, tra tante, la traduzione di un libro lirico come L’anno della morte di Riccardo Reis, dove Saramago immagina che per morire, come per nascere, ci vogliono nove mesi, e in questo tempo di congedo può anche accadere che uno degli eteronimi del poeta Pessoa, Riccardo Reis, un medico brasiliano che scriveva odi classiche, torni in Portogallo prima di scomparire definitivamente dal mondo. Traduzione piena di rimandi letterari, di versi e di suggestioni, difficile quanto l’esecuzione di un fado.
Un altro, enorme, debito, l’ho contratto anche con l’ispanista Dario Puccini. Devo a lui la scoperta e la fruizione di Juan Carlos Onetti, di Neruda, Garcia Marquez, Rafael Alberti, e pure alcuni suoi sconfinamenti nel Brasile di Jorge Amado. Ricordo ancora l’impressione che ebbi nel leggere per la prima volta la storia del nero Baldo e del santone Jubiabà.
Ho portato poi a lungo con me la memoria del nome di Alberto Zevi perché sua è stata la prima resa in italiano dell’Étranger di Camus. Ma l’elenco, a questo punto, sarebbe lungo quanto buona parte della mia biblioteca. Vorrei solo citare una piccola ma preziosa collana einaudiana a cui sono sempre stato particolarmente legato: «Scrittori tradotti da scrittori». Ne comprai il primo volume, nel 1983, con grande curiosità. Poi, attraverso il suo catalogo, ebbi almeno quattro incontri decisivi: le Finzioni di Borges tradotte da Franco Lucentini, Il processo di Kafka nella voce di Primo Levi, un piccolo Pessoa restituito da Antonio Tabucchi e una meravigliosa traduzione dell’Eredità di Maupassant da parte di Massimo Mila, che musicologo lo era per davvero e sapeva bene quanto tutto sia sempre una questione di tocco e di orecchio e, in definitiva, di un termine così sfuggente da definire anche per un traduttore come sensibilità.