La questione della Questione del sergente Grischa

di Natascia Barrale

la questione della questione del Sergente Grisha1. La questione del sergente Grischa (1930): un dimagrimento di centoquaranta pagine

Negli anni trenta i lettori italiani mostravano di apprezzare i toni nuovi e realistici dei romanzi stranieri giunti in traduzione sugli scaffali delle librerie. In cima alle classifiche di vendita, tra gli altri, vi erano i romanzi di guerra tedeschi, che raccontavano il primo conflitto mondiale visto con gli occhi del nemico perdente.

Mondadori da qualche tempo stava cavalcando l’onda del successo delle narrative straniere e, nello stesso anno in cui si dedicò in prevalenza ai capolavori ottocenteschi con la collana «Biblioteca romantica», cominciò a sfruttare la nuova moda e a rivolgere l’attenzione anche alle novità letterarie contemporanee, creando una collana ad hoc.

Già dal nome, «I romanzi della guerra» voleva presentarsi come una collana potenzialmente gradita al regime, che traeva dalla prima guerra mondiale tutti gli ingredienti necessari a costruire il mito della vittoria mutilata. Gli argomenti trattati da questa nuova ondata di libri ponevano però ovvi problemi:

Rientrava infatti tra le caratteristiche di molti testi imperniati sulla guerra pubblicati in quegli anni presentarsi con una forte carica pacifista o comunque ripensare a quell’esperienza in chiave di tragedia insensata e fratricida. I maggiori successi, a livello europeo, toccavano precisamente a opere di quel tipo: ben difficilmente conciliabili […] con la morale eroica in cui tendeva invece a identificarsi il fascismo italiano (Decleva 2007, 157).

Pur rappresentando la prima significativa apertura mondadoriana alla letteratura straniera contemporanea, «I romanzi della guerra» non ottennero un grande successo, anzi, le vendite incontrarono non pochi ostacoli.

Considerando i temi che caratterizzavano questo filone narrativo, si sarebbe propensi a ricondurre le cause di un lancio così travagliato alla natura pacifista di questi romanzi, in netta contrapposizione con l’ideologia del regime. Albonetti commenta ragionevolmente: «come si poteva pensare di pubblicare un romanzo che vedeva nel militarismo prussiano la quotidiana offesa al diritto elementare degli uomini e sembrava antivedere la barbarie nazista nella guerra che era appena iniziata?» (Albonetti 1994, 87).

A dire il vero le prime difficoltà erano sorte già un anno prima, quando la pubblicazione del libro Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque era stata bloccata dalla censura (cfr. Barrale 2011). Ciò nonostante, dietro segnalazione di Luigi Rusca, Mondadori aveva acquistato i diritti del romanzo di Arnold Zweig Der Streit um den Sergeanten Grischa (1927). Il protagonista era un prigioniero di guerra russo, buono e innocente, vittima dell’applicazione disumana di regolamenti e codici che, fuggito da un campo tedesco, viene scambiato per una spia e condannato a morte dopo mille peripezie.

Le traduzioni di numerosi altri romanzi pubblicati in quegli anni mostrano le ferite inferte dalla censura o – più spesso – dall’allora diffusa pratica dell’autocensura, che spingeva gli editori a cassare i brani ritenuti contenutisticamente scabrosi o scomodi.

L’analisi de La questione del sergente Grischa (Burich 1930) porta però a conclusioni ben diverse. Sebbene tutto lasci credere che il controllo censorio del regime abbia ostacolato la diffusione di un romanzo pacifista che condanna la guerra, dall’analisi comparativa del testo di partenza con la traduzione italiana, nonché attraverso lo studio dei brani eliminati e delle modifiche apportate, ci si rende conto facilmente che a essere edulcorate non furono le denunce delle atrocità della guerra o le pagine per altri versi scomode, come spesso era accaduto e sarebbe continuato ad accadere per altri romanzi tradotti in quegli anni. La carica pacifista del testo e il precedente divieto di pubblicazione del libro di Remarque non sono indizi rilevanti per ricostruire la storia di questo romanzo, la cui traduzione italiana fu decurtata di centoquaranta pagine rispetto all’originale.

La natura dei tagli riscontrati è quasi esclusivamente descrittiva o dialogica: la traduzione risulta priva di svariati episodi secondari, lunghe descrizioni paesaggistiche o di introspezione psicologica, alcuni personaggi e i relativi accenni e rimandi a quanto venne omesso. A scomparire furono pagine, insomma, del tutto prive di riferimenti alla politica, al pacifismo o ad altri argomenti potenzialmente scomodi agli occhi del regime (Barrale 2012, 195-225). Ciò che segnò le sorti della traduzione del Grischa fu invece il mero intento di ridurne la mole.

Quando, in tempi più sereni, maturò il proposito di offrire al pubblico l’edizione integrale del romanzo, fra la casa editrice e il traduttore nacque un interessante scambio epistolare che raggiunse talvolta toni piuttosto aspri.

Il fascicolo intestato a Enrico Burich conservato nell’Archivio della casa editrice Il Saggiatore presso la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori a Milano, conserva l’intero carteggio sullo strano caso della ritraduzione del Grischa. Dove non diversamente indicato, è a queste lettere che si farà riferimento per le citazioni riportate da qui in poi.

Prima di entrare nel vivo della questione è utile spendere ancora qualche parola sulla prima traduzione del romanzo. Quando Alberto Mondadori si rivolse a Burich invitandolo a integrare il lavoro svolto più di quindici anni addietro, il traduttore rispose: «Il libro allora, per vostro desiderio, fu ridotto di più di un terzo. E credo senza soffrirne né nello spirito né nel racconto, come del resto fu rilevato, p. e. da una recensione dell’Italia che scrive».

La recensione citata da Burich, apparsa nel 1930 su «L’Italia che scrive», era di Leonardo Kociemski, il quale esprimeva un parere più che favorevole riguardo alle modifiche apportate al testo: il romanzo di Zweig, scriveva Kociemski, «attrae forse più nella versione italiana perché l’originale ci è sembrato assai arruffato e non facile a leggersi». Procedendo con l’elogio, il recensore però ammetteva che «Enrico Burich ha ridotto alquanto le proporzioni del romanzo (che crediamo molto più lungo nell’originale) ma, pur senza aver fatto confronti, possiamo dire che questa riduzione ha forse giovato al romanzo stesso(Kociemski 1930, 357)».

La naturalezza che Kociemski attribuì a quest’operazione di sfrondamento sembra non tener conto dell’imponente trasformazione, a suo parere salutare, subita dal testo di partenza.

È pur vero che era prassi solita in quegli anni la tendenza a preferire una ri-creazione più o meno libera del testo di origine rispetto a una traduzione rigorosamente fedele all’originale. Sullo stesso numero de «L’Italia che scrive», recensendo i volumi del poeta provenzale Frédéric Mistral editi da Bemporad, il filologo Paolo Emilio Pavolini elogiava le nuove traduzioni condotte da Mario Chini («vere ri-creazioni, compiute con squisito sentimento d’arte e perfetta aderenza poetica») rispetto alle precedenti, «fredde e scolorite, per quanto fedeli e accurate». In fatto di traduzioni, aggiunge Pavolini, l’importante è «conquistare, in forme di bellezza nostre, ciò che i popoli stranieri hanno conquistato in forme di bellezza loro» (Pavolini 1930, 356).

Ci si potrebbe anche dire d’accordo con questa osservazione, se non fosse che centoquaranta pagine risultano avere un peso non indifferente per l’equilibrio narrativo e per l’assetto stilistico e formale di un romanzo.

2. Per un “restauro” del Grischa. Il carteggio di Enrico Burich con la casa editrice: 1945-1952

L’odissea della seconda traduzione del Grischa ebbe come protagonisti Alberto Mondadori, figlio di Arnoldo, il germanista Ervino Pocar e il già citato traduttore dal tedesco Enrico Burich.

2.1. I protagonisti: Alberto Mondadori, Ervino Pocar, Enrico Burich

Durante la sua giovinezza, Alberto Mondadori (Ostiglia 1914 – Venezia 1976) alternò momenti di «ribellismo giovanile contro i vincoli» a periodi di collaborazione con la casa editrice paterna. «Uomo che sempre fu inquieto» (Renzi 2007, 150), nel 1932 Alberto Mondadori fondò la rivista politico-culturale «Camminare…», soppressa dal fascismo nel giro di qualche anno. Dopo alcune esperienze cinematografiche come regista, tornò ad affiancare il padre in casa editrice. Diresse il settimanale «Tempo», che raggiunse tirature da primato. Nel 1957 fondò il primo settimanale a colori, «Epoca», un’innovativa rivista d’informazione. Il confronto con la forte personalità paterna non poté non generare un conflitto fra le aspettative del genitore e la volontà di Alberto di crearsi un’identità intellettuale propria e autonoma. Nel 1958 riuscì a dare libera espressione al suo spirito innovativo sganciandosi dalla rigidità delle strategie di mercato paterne e fondando una casa editrice propria, Il Saggiatore.

Ervino Pocar (Pirano d’Istria 1892 – Milano 1981) fu uno dei protagonisti principali del processo di diffusione della letteratura tedesca in Italia. Redattore e dirigente di prestigiose case editrici, con la sua intensa attività di traduttore introdusse nella cultura italiana opere di Lion Feuchtwanger, Franz Grillparzer, Novalis, Hermann Hesse, Thomas Mann, Georg Trakl, Franz Kafka, Heinrich von Kleist, Heinrich Böll, Friedrich Schiller, Arthur Schopenhauer, Joseph Roth, Erich Maria Remarque, Frank Wedekind. A partire dal 1934 Pocar fu traduttore dal tedesco presso Mondadori e successivamente funzionario e redattore capo del settore libri (Dacrema 1989; Giusti 2000; Antonello 2012).

È sul traduttore Enrico Burich (Fiume 1889 – Modena 1965) che preme soffermarsi qui, considerata da un lato l’esiguità delle informazioni reperibili e dall’altro la centralità del ruolo che svolse nella vicenda del Grischa.

In un lungo articolo apparso su «Fiume» a metà degli anni Sessanta, Giorgio Radetti ne dipinse un ritratto ben definito, certo non privo di patetismi sulla sua attività di irredentista, ma pur tuttavia ricco di interessanti rimandi a scritti e lettere private ai familiari (Radetti 1965).

Zio materno del ben più noto germanista Ladislao Mittner (Mittner e Tecchi 1966; Mittner 1975, 390), dopo la maturità classica Enrico Burich iniziò gli studi in lettere all’università di Budapest e si laureò a Firenze nel 1912. Membro del circolo irredentista «Giovine Fiume», sin da giovanissimo iniziò a collaborare con diverse riviste, tra cui «La Voce», dove pubblicò i suoi primi articoli. Portando il tema dell’irredentismo fiumano all’attenzione di Scipio Slataper e Giuseppe Prezzolini, Burich stimolò l’interesse per il problema della difesa di Fiume, minacciata dalle autorità ungheresi nella sua italianità (Radetti 1972, 428; Samani 1975, 43).

Tornato a Fiume dopo la laurea, dovette lasciar perdere l’idea di insegnare: la sua collaborazione con la rivista fiorentina costituì motivo di sospetto per le autorità fiumane, che gli negarono la possibilità di prendere servizio presso il liceo statale. Ottenne poco dopo un incarico di insegnamento a Catania, ma la guerra era ormai alle porte. Se nel periodo della neutralità italiana continuò a dedicarsi alla questione delle sorti di Fiume, nel dicembre del 1914 disertò l’esercito austro-ungarico per arruolarsi come volontario in quello italiano, dove svolse il ruolo di interprete per il tedesco e per l’ungherese nel comando della IV armata (Radetti 1965, 102).

Dopo la guerra Burich partecipò in un primo momento all’impresa fiumana di D’Annunzio, ritirandosi però ben presto da quell’ambiente «per lui avventuroso e spesso disordinato» (Samani 1975, 44). Conclusasi l’impresa dannunziana, Burich diventò capo dell’ufficio stampa del governo provvisorio, ma si ritirò definitivamente dalla vita politica dopo pochi mesi, dedicandosi solo all’insegnamento e agli studi (Radetti 1965, 109).

Dopo l’annessione di Fiume all’Italia nel 1924, Burich fu professore di lingua tedesca al liceo scientifico di Fiume, continuando però la sua attività di pubblicista e intraprendendo la carriera di traduttore dal tedesco e dall’ungherese per diverse case editrici: fu nei primi anni Trenta che iniziò a lavorare per Mondadori. Nello stesso periodo collaborò con l’Istituto italo-germanico di Colonia «Petrarca-Haus» e nel 1942, dopo il bombardamento dell’Istituto, si fermò un anno a Roma, dove insegnò lingua tedesca all’università.

Rientrato a Fiume dopo l’8 settembre del 1943, fu preside del liceo scientifico cittadino. Come riporta Radetti, durante l’occupazione nazista Burich mantenne un atteggiamento di non collaborazione, cercando di stimolare lo spirito pubblico alla resistenza contro i tedeschi e alla difesa nazionale della città (Radetti 1972, 428).

All’arrivo dei nuovi occupanti jugoslavi nel maggio 1945, la riorganizzazione politica investì anche la scuola. Nei panni di preside, Burich dovette confrontarsi con la profonda riforma del sistema scolastico, che vide l’abolizione dell’insegnamento della storia «fino a nuovo ordine» e le resistenze degli scolari di fronte all’introduzione dello studio del croato come materia obbligatoria (Rocchi-Rukavina 1998).

All’inizio si impegnò in un’attività clandestina che incitava gli italiani di Fiume alla resistenza, ma finì col dare le dimissioni e lasciare definitivamente la città natale nel 1946 per rifugiarsi in Italia (Radetti 1965, 113). Nei primi anni del carteggio con Mondadori riguardo al caso Grischa, Burich viveva a Modena. Nel 1950 si trasferì a Roma, comandato presso l’Istituto di Studi germanici di Villa Sciarra, dove continuò a lavorare alla ritraduzione del romanzo e da cui giungono le sue lettere alla casa editrice a partire dal 1950.

Membro attivo del comitato di redazione della rivista «Fiume» dal 1952, negli ultimi anni della sua vita fu presidente della Società di studi fiumani.

2.2. Alberto Mondadori e l’integrità delle traduzioni

Il bel volume curato da Gian Carlo Ferretti, Lettere di una vita. 1922-1975, raccoglie numerose lettere di Alberto Mondadori. Ripercorrendo quelle indirizzate ai traduttori e ai consulenti della casa editrice non è difficile rintracciare i principi base della sua politica editoriale in materia di traduzioni.

Con una certa frequenza, Alberto Mondadori sottolineò l’imprescindibile necessità di una severa revisione delle traduzioni, la cui «formalità», come scrisse ad esempio a Libero De Libero, traduttore di Julien Green, veniva adottata «da qualche tempo, per tutte le traduzioni, fosse anche del Padreterno» (Mondadori 1996, 207).

Rivedendo la traduzione di Bernadette di Franz Werfel, opera di Remo Costanzi, Bruno Arzeni propose a Mondadori di tagliare un passaggio del libro che, a suo dire, avrebbe potuto offendere il sentimento cattolico del pubblico. Alberto rispose in modo inequivocabile: «comprendo i suoi dubbi […] ma preferiamo senz’altro pubblicare l’opera integrale, così come Werfel l’ha voluta e concepita» (ivi, 161).

La completezza era per lui un principio imprescindibile, specie nel caso di nuove edizioni di romanzi già tradotti precedentemente. Mondadori si ritrovò ad esempio a mettere in riga il giovane Elio Vittorini, che nel 1933 aveva tradotto St. Mawr di David Herbert Lawrence (Il purosangue, uscito nel 1933 nella collana «Medusa»). Tredici anni dopo, rivedendo il testo in vista di una nuova edizione, Piero Nardi si accorse di un taglio di cinque pagine:

La lacuna, mi dice Nardi, include poche righe di riferimento al fascismo la cui soppressione, ora, si presterebbe a legittima critica. Io concordo con lui, che in una edizione di “Tutto Lawrence” è bene che lacune non ve ne siano. Per delicatezza Nardi chiede che sia tu a colmare le lacune. Concordo […] e ti prego vivamente di voler tradurre al più presto queste cinque benedette pagine. Così saremo a posto e non ci penseremo più (ivi, 174).

Talvolta a interloquire con Alberto Mondadori furono invece gli stessi autori. Riguardo al saggio Golia. Marcia del fascismo, edito negli Stati Uniti nel 1937, tradotto in italiano e pubblicato nel 1946 nella collana mondadoriana «Orientamenti», comunicò all’autore, Giuseppe Antonio Borgese, che la traduttrice Doletta Caprin aveva omesso in modo arbitrario diversi brani e la traduzione si era rivelata «talmente deficiente e inadeguata, da costringerci a una radicale revisione del testo». E aggiunse:

Apparentemente può sembrare che i brani espunti siano superflui per il pubblico italiano, mentre erano necessari per il pubblico anglosassone; ma ritengo essere nel giusto giudicando che proprio questa prima parte del Suo “Golia” racchiude la chiave per intendere la successiva esposizione e interpretazione dei fenomeni più recenti della vita italiana. Credo di aver interpretato il Suo pensiero facendo tradurre anche i brani mancanti, inserendoli nel testo in modo da seguire scrupolosamente l’edizione originale inglese (ivi, 162-163).

Mettere in guardia gli autori dalle cattive traduzioni delle loro opere era ancor più proficuo in caso di libri pubblicati da altre case editrici. Alla pur convinta difesa dell’integralità delle traduzioni si aggiungeva qui una buona dose di competizione, percepibile a chiare lettere, ad esempio, in una lettera ad Arthur Koestler. Spedendogli le copie di Buio a mezzogiorno e Ladri nella notte, tradotti per Mondadori da Giorgio Monicelli, Alberto allegò per conoscenza anche una copia di Arrivo e partenza delle Edizioni U, così da mostrare a Koestler la «grama veste» con cui era stata realizzata la pubblicazione. E chiuse con una netta stoccata nei confronti della casa editrice fiorentina: «Mi astengo poi da ogni commento circa la traduzione; mi limito a dire che potete considerarVi fortunato di non conoscere la lingua italiana, perché ciò Vi risparmia la delusione e l’indignazione» (ivi, 256).

Un atteggiamento analogo fu assunto nei confronti di Thomas Mann. Nel luglio del 1947 Alberto Mondadori incaricò Bruno Arzeni di rivedere integralmente la traduzione de La montagna incantata fatta nel 1930 da Bice Giachetti-Sorteni per la casa editrice Modernissima, corredandola di un elenco di tutti gli errori e omissioni, «perché Mann potesse intervenire, con cognizione perfetta di cose, presso l’editore e fargli le sue rimostranze». Scrisse quindi a Thomas Mann offrendogli «un quadro completo delle deturpazioni e mutilazioni subite dal meraviglioso originale» (ivi, 261-262). Si trattava di un aspetto secondario della più generale contesa fra Arnoldo Mondadori e l’editore Enrico Dall’Oglio per i diritti sulle opere di Thomas Mann. L’edizione mondadoriana de La montagna incantata, tradotta da Ervino Pocar e curata da Lavinia Mazzucchetti, uscì nel 1965 nella collana «I classici contemporanei stranieri». Come è noto, recentemente Der Zauberberg ha visto una nuova versione in lingua italiana curata da Renata Colorni, che ha ritradotto per «I meridiani» il celebre romanzo di Mann. Il nuovo titolo proposto recentemente da Colorni, La montagna magica (2010), ha certamente avvicinato il lettore al significato che l’originale aveva per l’autore, pur accendendo un interessante dibattito sulle difficoltà che nascono nel cambiare titolo a un classico della letteratura del Novecento.

Tornando ad Alberto Mondadori, dalle lettere citate sopra emerge all’indomani della seconda guerra mondiale una chiara inversione di rotta della casa editrice in materia di traduzioni, in favore di testi più fedeli agli originali.

Oltre alle evidenti ragioni determinate dall’assenza, ormai, di quelle restrizioni imposte dalla censura che avevano condizionato il lavoro editoriale sotto il fascismo, al più ortodosso atteggiamento editoriale di Mondadori deve aver contribuito anche la più generale tendenza, destinata ad affermarsi nei decenni successivi, a privilegiare l’integralità di una traduzione. Al fianco delle nuove condizioni politiche e delle nuove “tendenze” letterarie, tra le cause che concorrono a motivare il cambiamento nella linea di condotta della casa editrice Mondadori potrebbe aver influito, non ultima, l’ambizione di Alberto a rinnegare la linea paterna, che privilegiava la leggibilità – e quindi la vendibilità –, e a concorrere con la rivale casa editrice Einaudi e con l’elogiata accuratezza delle sue traduzioni.

2.3. Apertura dei lavori e prime interruzioni (1945-1947)

La vicenda iniziò il 2 novembre 1945 con un telegramma in cui Alberto Mondadori chiedeva a Enrico Burich di inviare «urgentemente» la revisione della traduzione del Grischa. La richiesta dovette cogliere di sorpresa Burich che, oltre e precisare che negli accordi precedenti non se ne era parlato, nella sua risposta aggiunse un consiglio all’editore: «Nella vostra lettera del 13 agosto, si fa parola soltanto degli altri due libri. Né consiglierei la revisione del – Sergente Grischa – che è uscito in epoca in cui non c’erano restrizioni».

Se si pensa alla grande quantità di traduzioni manomesse, censurate o sequestrate in quegli anni, questa frase di Burich, che qualifica i primi anni Trenta come un’epoca in cui non c’erano restrizioni, suona a dir poco inappropriata. Forte degli elogi di Leonardo Kociemski, Burich sconsigliò dunque di rivedere il romanzo, ricordando a Mondadori che era stata la casa editrice stessa, quindici anni prima, a volerne ridurre le dimensioni.

Da quel momento in poi, il traduttore cominciò ad assumere una posizione sempre più netta nei confronti di un lavoro che più avanti giudicherà del tutto inutile.

Breve e concisa la risposta di Alberto il 5 gennaio 1946: «È appunto per il desiderio che il volume esca in edizione integrale che Le ho chiesto di rivedere la traduzione pubblicata tanti anni fa».

Le prime, più serie, perplessità di Burich non tardarono però ad arrivare. Già nella primavera del 1946, il 4 aprile, il traduttore scriveva: «Sto confrontando l’originale del “Sergente Grischa” colla traduzione. Non è un lavoro semplice perché a volte ci sono dei tagli addirittura nel mezzo della proposizione. E ciò richiede un vero e proprio rifacimento della traduzione».

Sebbene due settimane dopo Mondadori si dicesse già in attesa del Grischa, Burich era restio a ritradurre da cima a fondo il libro e non intendeva cominciare il lavoro senza che gli si garantisse una certa sicurezza: «Ci sono da aggiungere – scrisse il 20 agosto – circa 150 pagine e io desidererei che ne facessimo un contratto a parte». Tra i tentennamenti di Burich e l’insistenza di Mondadori, si giunse finalmente a un accordo che prevedeva, considerata la mole di lavoro, la stipula di un contratto a parte.

Nonostante le pressioni iniziali di Mondadori, il progetto del nuovo Grischa subì però immediatamente una battuta d’arresto. Dall’estate del 1946 all’estate dell’anno successivo, nelle numerose lettere in cui Burich e Mondadori discussero di vari progetti editoriali – tra cui le traduzioni di altri due romanzi di Arnold Zweig, Einsetzung eines Königs e Das Beil von Wandsbek – la nuova versione del Grischa non fu più al centro della loro attenzione.

Sebbene la traduzione integrale fosse da considerarsi già in cantiere e la trattativa con Burich chiaramente avviata, Mondadori decise di ripubblicare nel frattempo il romanzo come quarto numero de «I libri della ricostruzione», una collana a basso costo (Burich 1946). Il volume, uscito nel giugno del 1946 nel formato 11 x 16, presentava ancora la vecchia traduzione incompleta. Venuto a conoscenza dell’edizione «popolare», Burich – che mai aveva fatto mistero delle sue riserve nei confronti di una traduzione integrale – chiese speranzoso se non si trattasse forse di un indizio del cambio di intenzioni dell’editore e della rinuncia al proposito, da lui per nulla condiviso, di pubblicarne un’edizione integrale.

L’inequivocabile annotazione in calce alla lettera non lasciava scampo al povero Burich. Suonava piuttosto come una minaccia: «No, lo faremo a suo tempo». Si deve forse a quest’edizione “provvisoria” se nelle lettere successive, per oltre un anno, il caso Grischa non fu più menzionato.

Nel frattempo, cogliendo l’occasione per assicurare alla figlia un impiego come traduttrice – richiesta che Mondadori non poté accontentare per via della «fortissima contrazione che si è verificata soprattutto nei lavori di traduzione» -, il 17 ottobre 1946 Burich propose all’editore di tradurre Der Grosstyrann und das Gericht di Werner Bergengruen. Ricevette però una risposta negativa che Alberto motivò col veto di Lavinia Mazzucchetti, la quale si era già espressa a riguardo.

Di fronte al rifiuto dell’editore di lasciargli tradurre sia il romanzo di Bergengruen che Das Beil von Wandsbek, il 30 luglio del 1947 – a un anno dall’ultima volta in cui si era parlato del Grischa – Burich compì un passo di cui avrebbe dovuto pentirsi: in assenza di alternative, si offrì spontaneamente di rimettere mano al vecchio lavoro, la revisione del Grischa.

Bastarono un paio di mesi perché Burich tornasse però a esprimere perplessità: come aveva già scritto nell’aprile del 1946, il 9 ottobre dell’anno successivo il traduttore ribadì che non si sarebbe trattato di una semplice revisione.

Rivedere il “Sergente Grischa” non vuol dire soltanto tradurre le 150 pagine che mancano, ma controllare quasi periodo per periodo tutto il romanzo e fare le aggiunte necessarie. A suo tempo, la necessità di ridurre la mole del libro (che doveva uscire tra i “romanzi della guerra”) aveva portato a questa conseguenza: togliere dal resto del testo ogni accenno (e addirittura dei personaggi) a quanto era stato omesso. Non solo mancano dunque due capitoli interi, ma anche i riferimenti a questi capitoli nella trama […] Verrà fuori un nuovo libro.

Nonostante le riserve, Burich promise di consegnare il lavoro nel mese di aprile dell’anno successivo e chiese un compenso di trentamila lire. In un primo momento Alberto Mondadori sembrò accettare il prezzo proposto da Burich, ma dopo poche settimane fece un passo indietro. Fu qui che la traduzione del Grischa si arrestò di nuovo: l’edizione integrale avrebbe dovuto attendere ancora. Nel novembre del 1947 Mondadori comunicò brevemente a Burich che, per via della difficile situazione editoriale, era costretto a rivedere i piani di pubblicazione e a rimandare quindi sia il progetto di ritraduzione del Grischa che le altre traduzioni in corso.

Soltanto due anni dopo, in occasione delle ristampe dei romanzi di Zweig, Mondadori tornò alla carica, intenzionato nuovamente a pubblicare in gran fretta l’edizione integrale del Grischa.

 2.4. Due anni di tregua (1947-1949)

Nel frattempo, malgrado il tono pur sempre cordiale delle lettere intercorse tra i due, i commenti apportati Mondadori in calce alle lettere di Burich lasciano trapelare qualche punta di fastidio, provocato forse dalla tendenza di Burich a intervenire nelle decisioni dell’editore, o a “consigliare caldamente” questa o quella traduzione. Nel corso dei due anni di tregua in cui il Grischa non sembrava essere più così urgente, Mondadori infatti aveva proposto a Burich la traduzione di alcuni volumi del «grande storico e pensatore» György Lukács, tra cui Goethe und seine Zeit. Il tono della risposta di Burich – a tratti saccente – irritò decisamente l’editore, tanto che, al fianco della lunga descrizione del pensiero di Lukács, Mondadori annotò a margine: «Conosco Lukacs!!!».

Burich sconsigliava di tradurre Lukács, il quale aveva certamente «ottime doti di avvocato», ma abusava di quella «abilità dialettica» che rendeva il testo «diluito e senza sfumature». Tradurre tutti questi suoi saggi, concludeva Burich nella lettera del 9 ottobre 1947 che abbiamo già citata, «sarebbe un po’ troppo».

Anche questa volta il commento a margine di Mondadori fu inequivocabile: «Non si impicci! Mi dica quanto vuole per il Goethe!». E rispose, garbatamente: «La ringrazio della Sua lunga lettera e delle informazioni che mi dà intorno al libro del Prof. Lukacs, che del resto io conoscevo già. […] La mia intenzione è di pubblicare senz’altro il volume».

Burich compì subito un diligente passo indietro. Il 27 ottobre rispose di aver riletto Lukács e di essere a ben vedere d’accordo con Alberto, dicendosi infine lieto di tradurre il volume. Alla richiesta, avanzata dal traduttore, di sessantacinquemila lire e «parecchi mesi» di tempo («perché sono 215 pagine di 3300 lettere, piene di citazioni a opere di Goethe prive di riferimenti bibliografici»), Mondadori pose le sue condizioni: la traduzione avrebbe dovuto essere pronta entro due mesi e il compenso, vista la crisi dell’industria editoriale, sarebbe stato di cinquantamila lire.

La traduzione di Goethe e il suo tempo fu pronta soltanto nell’estate del 1948 e, quando Burich la spedì, il 31 luglio 1948, per giustificare il ritardo continuò a lamentare la difficoltà dell’impresa e a ribadire le sue riserve su Lukács:

È stata una fatica improba: il Lukács è un grande pensatore, ma non sa scrivere ed è grigio e plumbeo come le pareti di un carcere. […] Il marxismo, letterariamente, ha un suo stile disgraziato che si ripete da Marx e che tende a complicare ciò che potrebbe essere abbastanza chiaro. Viene voglia di essere un borghese e di gridargli in faccia: parvenu! Come forse avrebbe fatto Goethe.

Oltre a esibire con enfasi le sue posizioni conservatrici – si sarebbe detto una volta – da “anticomunismo viscerale”, il traduttore incorse anche in una defaillance: era chiaramente convinto che il testo da cui aveva appena tradotto fosse una versione tedesca, perfino di cattiva qualità, di un presunto originale ungherese. Nel consegnare il lavoro, Burich scrisse perfino all’editore: «Le accludo anche il breve cenno di presentazione, insieme al poco corretto testo tedesco (per fortuna ho potuto consultare anche l’edizione ungherese)».

Evidentemente Burich non aveva idea del fatto che Lukács, nonostante la nazionalità ungherese, avesse scritto in tedesco l’opera in questione. Già qualche mese prima, quando Burich aveva accennato a un’ipotetica traduzione tedesca, il 25 febbraio, Alberto Mondadori sembrava aver perso la pazienza e aveva aggiunto in calce: «Ma deve tradurre tutto dal tedesco, perché Lukács ha scritto in tedesco!».

Questa digressione potrebbe fornire qualche indizio sull’incrinarsi dei rapporti fra Mondadori e Burich, motivando forse il fatto che, come si vedrà tra breve, dall’estate del 1950 Alberto Mondadori non curerà più personalmente i rapporti con Burich e delegherà Ervino Pocar a gestire la corrispondenza col traduttore.

 2.5. Il bluff di Burich (1949-1950)

Ma facciamo un passo indietro, tornando al Grischa e alle ultime occasioni di contatto fra l’editore e Burich. Il 15 aprile del 1949 Alberto Mondadori chiese al traduttore se il lavoro fosse ultimato. Burich rispose con tono risentito e rilanciò sia nei tempi che nel compenso: cinquantamila lire, ma non prima dell’autunno. L’editore accettò le condizioni dettate dal traduttore, che nei due mesi successivi all’accordo continuò a ripetere quanto grande fosse il carico di lavoro: «Il povero “sergente” – scriveva il 21 giugno 1949 – è stato mutilato nel modo più impensato, prima da me e poi in redazione e infine nelle bozze. Bisogna quasi rifarlo».

Sebbene alla fine dell’anno Burich si dicesse alle prese con la traduzione, l’edizione integrale del Grischa subì un’altra battuta d’arresto, la terza in meno di quattro anni. Dalla fine del 1949 e per un anno intero, un inspiegabile silenzio cadde sul caso Grischa: dal carteggio non emergono più indizi sulla ritraduzione e non è più chiaro se Mondadori fosse ancora interessato al vecchio progetto editoriale, né se Burich vi stesse ancora lavorando.

La “questione” del Grischa si riaccese nel settembre del 1950. Fino a quel momento, quando Alberto Mondadori non era in sede, Ervino Pocar aveva talvolta scritto al traduttore, sostituendo l’editore. Dal settembre del 1950 venne meno l’alternanza Mondadori/Pocar e quest’ultimo, probabilmente su richiesta di Mondadori stesso, diventò l’unico interlocutore di Burich per conto della casa editrice. I toni un po’ più partecipati anticipano la vivacità delle discussioni che si svolsero a partire dall’anno successivo.

Il 7 settembre 1950 Pocar scrisse a Burich deciso e risoluto: niente più rinvii, il Grischa sarebbe andato in stampa prima del Natale di quell’anno. La casa editrice era tornata evidentemente alla carica, Pocar si rivelò un intermediario convincente e Burich sembrò impegnarsi a portare a termine il lavoro. Pur cominciando a chiamare in causa ragioni di salute per contrastare l’incalzare di Pocar, il 12 settembre del 1950 il traduttore promise di consegnare il lavoro addirittura entro il mese di ottobre:

La revisione del “Sergente Grischa” è a buon punto; l’avrei terminata da tempo se, in maggio, per un malanno al cuore, non avessi dovuto sospendere anche questo lavoro. […] In ottobre ripasserò e completerò la revisione che – come vedrai – non è cosa da poco, specie nella prima metà del libro.

Si potrebbe dire che Burich abbia mantenuto la promessa: comunicando a Pocar di aver inserito le aggiunte più brevi in calce e di aver tradotto i brani più lunghi a parte contrassegnando il testo con dei richiami, nel novembre del 1950 il traduttore spedì alla casa editrice ciò che a prima vista sembrava essere un’edizione integrale. Le parole di ringraziamento di Pocar, del 21 novembre 1950, suonano come un lieto fine: «Aggiungiamo i nostri ringraziamenti per l’accurato lavoro che hai fatto e per la possibilità che ci hai dato di offrire al pubblico il volume completo che finora nessuno conosceva».

Ma la storia del sergente Grischa non era ancora conclusa. La presunta edizione integrale non era che una versione riveduta qua e là, leggermente integrata, ma ben lontana dalla completezza promessa dal traduttore.

 2.6. «A parte l’integrità» (1951)

E fu già nei primi giorni del 1951 che le cose cominciarono a complicarsi. A pochi giorni dai ringraziamenti di Pocar, tra quest’ultimo e Burich cominciò un pacato scambio di opinioni che portò alla decisione unanime di sostituire, dietro suggerimento di Pocar, “Grischa” con “Griscia” e di uniformare la nuova grafia anche per tutti gli altri nomi del romanzo.

A febbraio Pocar chiese però a Burich di spedirgli l’originale per il riscontro di alcuni nomi propri. La richiesta di Pocar di rivedere il testo tedesco lascia già intravedere il possibile sospetto del germanista circa la completezza del lavoro di Burich. Intendendo cambiare la traslitterazione, e avendo Burich mantenuto i nomi alla tedesca, perché mai Pocar avrebbe avuto bisogno di visionare il testo originale?

Prima di passarla in tipografia per la ristampa, infatti, Pocar aveva pensato bene di far rivedere la traduzione per uniformare i nomi propri. Il confronto col testo originale gli aveva riservato però «una non bella sorpresa», come scrisse lui stesso a Burich il 7 maggio 1951, data di svolta dell’intera vicenda. Forse per caso, o forse per un sospetto – fondato – di Pocar, saltò così a galla che la traduzione, ahimè, non era affatto integrale. Il 7 maggio 1951 Pocar restituì a Burich l’originale, gli inviò una copia della traduzione e aggiunse alcuni fogli dattiloscritti, in cui si legge:

Da questa revisione è risultato che numerosi passi e fin pagine intere non sono tradotti! Ora, ti abbiamo detto ripetutamente che questa doveva essere la ristampa integrale, cioè senza omissione di sorta; altrimenti faremmo anche questa volta una cosa monca [la sottolineatura è nel testo].

Non gli restava quindi che rispedirgli tutto, «con la viva preghiera di aggiornare il lavoro» e consentire alla casa editrice «di annunciare al pubblico la nuova edizione veramente integrale e completa del libro che a suo tempo uscì notevolmente mutilato» [la sottolineatura è nel testo].

Si innescò così un avvincente botta e risposta articolato in cinque lettere dai toni sempre più accesi, dal maggio al giugno del 1951: Pocar era irremovibile nel proposito di pubblicare un’edizione davvero integrale, e Burich retrocedeva, dicendosi via via meno disponibile a portare a termine l’impresa. Pocar rimproverava e faceva pressioni, Burich non ne voleva sapere e si giustificava. Così scriveva il 15 maggio:

Nell’inviarti le aggiunte del “sergente Grischa” – si tratta di un lavoro terribile che mi è costato un’enorme fatica, tanto più che c’era stata di mezzo la mia malattia – dimenticai (ed è colpa grave) di avvertirti che il restauro non era riuscito al cento per cento. Ossia, per quanto riguarda la trama vera e propria il testo è completo. Il libro però, è pieno di passi superflui, tolti probabilmente da un diario.

Ma non si trattava di un danno grave, a suo parere. Probabilmente – aggiungeva – l’autore stesso, se interpellato, sarebbe stato perfino d’accordo: «Credo che Zweig oggi li eliminerebbe, appunto per alleggerire il testo, come ha fatto nei suoi romanzi successivi. Ho discusso molto tra me e me per vedere se valeva la pena di riportare questo o quel brano».

In linea generale, il comportamento di Burich può risultare forse più giustificabile se osservato dal punto di vista umano: invitato nel 1930 a ridurre il libro di un terzo, al povero traduttore veniva adesso chiesto di rimediare, di tradurre e ricucire le centoquaranta pagine mancanti. Una reticenza ben comprensibile, quella manifestata da Burich nel rimettere mano a un lavoro della cui imperfezione non si riteneva responsabile. Ciò che sorprende è però il fatto che Burich utilizzasse a suo favore argomentazioni del tutto inadeguate, sentenziando la superfluità di alcuni brani e dimostrando di non aver affatto a cuore l’integrità della traduzione. È legittimo il sospetto che le argomentazioni di Burich riguardo alla scarsa importanza dell’integrità del testo fossero solo delle scuse per respingere un lavoro gravoso. Quest’ipotesi è rafforzata dal fatto che già in passato Burich si era lasciato pregare per rivedere Davanti a Verdun.

Se facciamo un piccolo passo indietro, torna utile riportare qui un brano di una lettera del 1946, in tempi – questa volta sì – in cui non c’erano restrizioni. Interpellato per la traduzione di Das Beil von Wandsbek, il 20 agosto 1946 il traduttore propose con una certa disinvoltura di accorciare il testo:

È un romanzo meno pesante di quanto credessi, e di vivo interesse. Forse, nella traduzione, andrebbe alleggerito di parecchie pagine, soprattutto di quelle troppo tedesche e poco accessibili ai nostri lettori comuni. Altrimenti sarebbe difficile farlo entrare tra i volumi della «Medusa»: ha ben 1.325.000 lettere!

Mondadori, con l’epigrammaticità dei suoi commenti, annotò a margine: «NO, se mai faremo due volumi», e gli rispose il 17 ottobre: «Desideroso come sono sempre, di dare le opere nella loro interezza, quanto più possibilmente, penso che invece di ridurre con tagli la mole del romanzo, se ne potrebbero fare due volumi». Il romanzo non fu mai pubblicato da Mondadori. L’editore temporeggiò e rimandò poi il progetto nell’attesa di riprendere «il normale ritmo delle traduzioni». La scure di Wandsbek fu tradotto da Francesco Saba Sardi per Feltrinelli e pubblicato nel 1956, in un unico volume di quasi 700 pagine.

Anche alla richiesta di rivedere Claudia, fatta da Alberto nella primavera del 1949, Burich rispose che la traduzione non necessitava di revisione e, a scanso di equivoci, specificò che Claudia già allora era «proprio integrale».

Tornando al Grischa e al 1951, non avendo alcuna intenzione di ritradurre da cima a fondo il romanzo, nella lettera del 15 maggio Burich cercò di rafforzare la sua posizione con argomentazioni contraddittorie. Dapprima minimizzò l’entità del danno:

C’è p.e. il capitolo su Lychow (credo il secondo del secondo libro) con un’ispezione descritta per quattro pagine che non aggiunge proprio niente. È vero, voglio tanto bene a questo libro che mi sono comportato come se ne fossi l’autore, senza accorgermi che agivo arbitrariamente. Del resto si tratta di una quindicina di pagine tutto assieme, e, se proprio è necessario sono pronto a tradurle.

Ma nella stessa lettera drammatizzò invece sulla quantità del lavoro. A prescindere dal suo gusto personale, secondo cui il romanzo andrebbe decisamente accorciato di questi passi superflui, il lavoro sarebbe di per sé impossibile per un’altra ragione, un «guaio» a cui aveva già accennato in passato:

La traduzione italiana a suo tempo è nata male. Mi fu detto allora che il libro doveva essere ridotto di un terzo, come era stato fatto nella traduzione inglese e in quella francese. Io feci dei tagli netti e il libro infatti non ne soffrì. Però qualcuno in redazione per alleggerire il testo ancor di più si prese il gusto di fare dei tagli di poche righe anche in mezzo a un periodo, di sopprimere aggettivi o qualche inciso. Mi sono trovato così a mia insaputa di fronte ad un pasticcio, perché tu sai che è impossibile drizzare le gambe ai cani.

Il traduttore non aveva certo tutti i torti a lamentare la difficoltà dell’impresa. La responsabilità della redazione oggi non è certa, ma confrontando la traduzione con il testo di partenza ci si rende conto della capillarità dell’intervento subìto dal romanzo e dell’evidente problematicità di un’opera di ricucimento dei passi mancanti.

Per essere più convincente, Burich tirò in ballo un secondo esempio, non facendo mistero, ancora una volta, della sua scarsa considerazione per la fedeltà all’originale: «C’è per esempio (ricordo bene) il capitolo “Ufficiali a banchetto”, che non è possibile aggiustare, tanto è pieno di piccoli tagli e di cancellature. Volevo ritradurlo tutto, ma decisi di lasciarlo così perché in fondo – a parte l’integrità – va benissimo».

Integrità a parte, caratteristica tutto sommato trascurabile, la traduzione insomma è, per Burich,  perfetta così com’è. Con un certo risentimento, il traduttore arrivò a dirsi disposto a restituire il pagamento ricevuto:

Conclusione: per avere un’edizione veramente integrale e completa bisognerebbe tradurre di sana pianta dei capitoli interi. Ora, io posso fare le aggiunte che ti ho detto prima, ma non posso assolutamente prendermi l’incarico di ritradurre i capitoli che sono stati a suo tempo ritoccati senza tenere presente l’originale. (Naturalmente restituirò le 50 mila lire che ho avuto per un lavoro eseguito con criteri troppo soggettivi).

In chiusura, come ultimo tentativo, il traduttore rincarò la dose e lanciò una proposta in extremis che non piacque affatto al destinatario della lettera: «Ti assicuro che non si tratta di un capriccio: sono proprio convinto che si fa un buon servizio al libro lasciandolo così com’è. Si può annunziare che è stato ampliato di un quarto di fronte alle edizioni precedenti, senza parlare di integrità. Vedi tu».

Se davvero la casa editrice intendeva investire sul lancio della prima vera traduzione integrale, sarebbe bastato, secondo Burich, rimpolpare un po’ il testo senza per questo dover parlare a tutti i costi di integrità. L’immediata risposta di Pocar, il 21 maggio, fu, come ci si aspetterebbe da ogni buon redattore, inequivocabile:

Non possiamo dire che questa volta l’opera è completa e senza tagli se questi tagli ci sono, sia pure in piccola parte. […] Non si può certo dire che questa volta l’edizione è aumentata di un quarto o di un terzo! […] Non si tratta di fare o non fare un buon servizio al libro e all’autore, ma di pubblicare il volume nella sua integrità.

2.7. Gli ultimi tentativi e la resa finale (1951-1952)

È strano a credersi, ma Burich non intendeva arrendersi. Accennando en passant alle sue condizioni di salute (stavolta un rischio di esaurimento nervoso), si lasciò andare a qualche punta di vittimismo e approdò al tentativo di convincere Pocar della scarsa qualità dell’originale:

Vedo che persisti nell’idea dell’edizione integrale e che i miei argomenti non ti hanno commosso. Eppure – il giudizio non è soltanto mio – il “Sergente Grischa” integrale è pesante e confuso e il lettore ne resta disorientato. Non sono così gli altri romanzi del ciclo che io infatti tradussi fedelissimamente senza tagli di sorta (eccetto quelli fatti in redazione per ragioni politiche).

Non voleva proprio saperne, insomma, di collaborare all’edizione integrale e, in cerca di un sostegno, si offrì addirittura di scrivere a Zweig stesso per ottenere il suo consenso a pubblicare un’edizione ridotta:

Avrei voglia di scrivere a Zweig e interpellarlo in proposito. […] Eravamo in ottimi rapporti, ma dopo il suo ritorno a Berlino, coi rossi, non gli ho più scritto. […] Se Zweig non dovesse essere d’accordo, vuol dire che provvederò ad aggiungere quei due tre passi più lunghi che mancano e qualche altro saltuario. […] Credimi, mi ci sobbarco proprio per punto d’onore e perché ci tengo a mantenere con voi i buoni rapporti che ci legano quasi da venticinque anni.

Ancora una volta Pocar rispose in modo conciso ma efficace: «È proprio necessario dare il volume integralmente. Altrimenti non varrebbe la pena ristamparlo.È inutile che tu scriva a Zweig. Se Zweig ha fatto il libro così, così va pubblicato».

A questo punto il povero Burich aveva davvero usato tutte le armi a sua disposizione. E fu in una lettera del 22 giugno 1951 che – non senza lamentare ancora una volta l’inutilità del lavoro a cui si stava piegando – sembrò finalmente cedere. Con una certa audacia, colse comunque l’occasione per lanciare un’accusa – non del tutto infondata – contro la casa editrice:

Lavoro ingratissimo, perché proprio non ne vedo l’utilità (se non quella di fare colpo annunziando la traduzione integrale, come se i tagli della prima edizione fossero stati fatti per ragioni politiche o morali), e poi perché, pur con l’aggiunta dei pochi passi che mancano e con qualche rabberciamento di quelli logorati, non arriveremo mai alla perfezione (e questo bisogna che io ti dica, non per mettere le mani avanti, ma proprio perché è impossibile drizzare le gambe ai cani) […] Ti assicuro che, per non farlo, darei le cinquanta mila lire che ho avuto.

Nell’ottobre dello stesso 1951, finalmente, Burich spedì la ritraduzione del Grischa, commentando:

Non ti dico la fatica che mi è costata questa rielaborazione del “Grischa”, che ora è integrale sì, ma anche appesantito inutilmente. […] Ti prego di dare un’occhiata alle aggiunte che ci sono quasi ad ogni pagina e di renderti conto della fatica che tutto ciò m’è costato. Quando si potrà fare il calcolo, risulterà certo che il libro è stato aumentato di 1/3 per lo meno.

Le tracce del Grischa nella corrispondenza tra Burich e la casa editrice si diradano. L’ultima circostanza in cui il romanzo viene citato è una lettera manoscritta del marzo 1952, con cui Burich avvertiva Pocar dell’esistenza di una nuova edizione di Der Streit um den Sergeanten Grischa, pubblicata in Germania nel 1949. Sebbene ormai il lavoro fosse stato ultimato e consegnato, il traduttore continuava a tentare di difendere la sua posizione: chissà che lo stesso Zweig non avesse deciso di accorciare il testo?

Apprendo da un catalogo – scrisse Burich a Pocar il 3 marzo 1952 – che già nel 1949 è uscita […] una nuova edizione di Der Streit um den Sergeanten Grischa, di A. Zweig. Dovrebbe essere l’ultima edizione e quindi forse interessante anche ai fini della traduzione. Si capisce, nel caso che contenga delle aggiunte o eventualmente vi siano stati apportati dei tagli.

La corrispondenza tra Burich e Pocar continuò fino al 1954, ma i due non menzionarono più il Grischa. Restano quindi purtroppo sconosciute le ragioni per cui, nonostante il lungo travaglio, l’edizione integrale non apparve di lì a breve, come ci si sarebbe aspettato, ma ben dieci anni dopo, nel 1961, quattro anni prima dalla morte di Burich, quando Alberto Mondadori aveva lasciato l’azienda paterna già da qualche anno per fondare la casa editrice Il Saggiatore.

3. La questione del sergente Griscia (1961). L’edizione (quasi) integrale

La nuova edizione del Grischa conta cinquecentocinquantasette pagine ed è datata 1961, n. 7 bis della collana «Medusa – I grandi narratori d’ogni paese» (Burich 1961).

Il testo appare innanzitutto reintegrato dei capitoli mancanti, qua e là rimodernato nel linguaggio e corretto in alcuni errori di traduzione. I nomi russi sono stati tutti rivisti, quasi sempre sostituiti con trascrizioni che facilitano la corretta pronuncia, talvolta annullando anche il processo di italianizzazione in voga durante il Ventennio, privilegiando la traslitterazione del testo originale o aggiungendo segni diacritici.

«Un classico dell’antimilitarismo finalmente in edizione integrale», recita la fascetta editoriale della nuova edizione. Il risvolto di copertina presenta così il libro ai suoi lettori:

Vari motivi di forza maggiore hanno fatto sì che di quest’opera, uscita alla fine del 1927 e subito apparsa in traduzione italiana presso la nostra Casa, il nostro pubblico conoscesse sino ad oggi una versione parzialmente ridotta rispetto all’originale tedesco. Quella che oggi ripresentiamo – dopo molti anni in cui il libro era diventato praticamente introvabile – non è quindi una comune ristampa: è una nuova edizione interamente riveduta e accresciuta di oltre 150 pagine rispetto alle precedenti. È finalmente la prima edizione integrale di un’opera ormai famosa che, a un decennio dalla fine del primo conflitto mondiale, aperse la strada a tutto un nuovo genere fortunatissimo di letteratura (Remarque, Gläser, ecc.) e che ancor oggi è letta e riletta come al suo primo apparire (Burich 1961, peritesto).

I motivi di forza maggiore chiamati in causa sembrerebbero alludere a restrizioni dovute al regime fascista. La storia delle traduzioni durante il fascismo in effetti brulica di romanzi censurati, accorciati, manomessi o edulcorati. Libri che godono oggi forse di quell’aura di superstiti, di quel fascino di sopravvissuti alla censura, malgrado le ferite. Ma La questione del sergente Grischa, è il caso di dirlo, non è tra quelli. Una volta trascorsi i decenni necessari a metabolizzare l’esperienza di un regime totalitario, si è in grado oggi di distinguere tra ciò che fu proibito e ciò che censura non fu.

Considerati i retroscena della nascita della traduzione pubblicata nel 1961, non stupisce che oggi, sottoponendo la traduzione “integrale” a un confronto con il testo di partenza, siamo in grado di individuare diversi brevi passaggi che devono essere probabilmente sfuggiti al lavoro svogliato di Burich, restando non tradotti. Eccetto un paio di casi in cui i tagli ammontano a circa mezza pagina dell’originale, si tratta poi soltanto di sporadiche occorrenze, una ventina in tutto, per un totale approssimativo di poco meno di due pagine. Vista la mole del romanzo, si potrebbe dire che non si tratta di un fatto allarmante. Ma è stata proprio la constatazione di queste leggere incongruenze fra l’edizione originale e la traduzione “integrale ma non troppo” a rappresentare l’input per la ricostruzione di questa vicenda, portando poi alla necessità di consultare, e con buoni frutti, l’Archivio della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori.

L’intricata vicenda della traduzione del Grischa e della sua ritraduzione, svoltasi per tappe e in più episodi, si conclude nel 1961. Da allora il romanzo non fu più ristampato né ritradotto, quasi a conferma della cattiva stella che, dapprima per ragioni editoriali e in seguito per i poco convinti tentativi di perfezionarla, ha sempre accompagnato la versione italiana di quest’opera di Arnold Zweig.

Fonti

Archivi

Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Archivio storico Il Saggiatore e altre società del Gruppo il Saggiatore; Sezione Il Saggiatore – carteggio 1934-1976; fascicolo Burich Enrico.

Ringrazio il personale della Fondazione, in particolare la direttrice Luisa Finocchi e il responsabile dell’archivio Tiziano Chiesa, che hanno agevolato l’accesso alle carte consultate con grande disponibilità e con la cordialità di sempre.

Bibliografia

Albonetti 1994: Pietro Albonetti, Introduzione. Trafile di romanzi, in Non c’è tutto nei romanzi. Leggere romanzi stranieri in una casa editrice negli anni ’30, a cura di Pietro Albonetti, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, pp. 7-117

Antonello 2012: Anna Antonello, Una vita fra le righe, in Protagonisti nell’ombra. Bonchio Brega Ferrata Gallo Garboli Ginzburg Mauri Pocar Porzio, a cura di Gian Carlo Ferretti, Unicopli – Fondazione Alberto e Arnoldo Mondadori, Milano, pp. 151-180

Barrale 2011: Natascia Barrale, Non solo censura. Tre esempi di traduzione dalla narrativa tedesca sotto il fascismo, in «InTRAlinea. Online Translation journal», vol. 13, 2011 (per accedere direttamente all’articolo: http://www.intralinea.org/archive/article/Non_solo_censura)

― 2012: Natascia Barrale, Le traduzioni di narrativa tedesca durante il fascismo, Carocci, Roma

Burich 1930: Enrico Burich, La questione del sergente Grischa, collana «I romanzi della guerra», n. 1, Mondadori, Milano (traduzione da Arnold Zweig, Der Streit um den Sergeanten Grischa, Kiepenheuer, Potsdam, 1927)

― 1946: Enrico Burich, La questione del sergente Grischa, collana «I libri della ricostruzione», n. 4, Mondadori, Milano (traduzione da Zweig 1927)

― 1961: Enrico Burich, La questione del sergente Griscia, edizione integrale, collana «Medusa», n. 7 bis (traduzione da Zweig 1927)

Dacrema 1989: Nicoletta Dacrema, Ervino Pocar. Ritratto di un germanista, Tipografia sociale, Gorizia

Decleva 2007: Enrico Decleva, Arnoldo Mondadori, Utet, Torino (prima edizione: Utet, Torino, 1993)

Giusti 2000: Lucia Giusti, Aspetti della ricezione della letteratura tedesca moderna in Italia negli anni Venti-Trenta, in Editori e lettori. La produzione libraria in Italia nella prima metà del Novecento, a cura di Luisa Finocchi e Ada Gigli Marchetti, Franco Angeli, Milano, pp. 226-259

Kociemski 1930: Leonardo Kociemski, Arnold Zweig, La questione del sergente Grischa, in «L’Italia che scrive», a. XIII, n. 11, 1930, p. 357

Mittner 1975: Ladislao Mittner, Appunti biografici, in «Belfagor», a. XXX, 1975, pp. 389-394

Mittner e Tecchi 1966: Ladislao Mittner e Bonaventura Tecchi, In memoria di Enrico Burich, in «Studi germanici», nuova serie, a. IV, n. 3, 1966, pp. 119-124

Mondadori 1996: Alberto Mondadori, Lettere di una vita. 1922-1975, a cura e con un saggio introduttivo di Gian Carlo Ferretti, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori , Milano

Pavolini 1930: Paolo Emilio Pavolini, Letterature straniere in Italia. Provenza e Italia, in «L’Italia che scrive», a. XIII, n. 11, 1930, p. 356

Radetti 1965: Giorgio Radetti, Ricordo di Enrico Burich, in «Fiume», a. XII, n. 3-4, 1965, pp. 97-114

― 1972: Giorgio Radetti, Enrico Burich, voce in Dizionario biografico degli italiani, Istituto della enciclopedia italiana, Treccani, Roma, vol. 15, pp. 428-429

Renzi 2007: Emilio Renzi, Il grande amico. Alberto Mondadori, Remo Cantoni e l’editoria culturale milanese tra gli anni Trenta e il 1976, in Remo Cantoni, a cura di Massimiliano Cappuccio e Alessandro Sardi, CUEM, Milano, pp. 149-166

Rocchi-Rukavina 1998: Ilaria Rocchi-Rukavina, Un modello di istruzione in lingua italiana: la scuola di via Ciotta dal 1888 al 1945, in Tra storia e ricordi – 110 anni di vita scolastica, a cura di Gianna Mazzieri Sanković et al., Rijeka, Scuola media superiore italiana, Tisak Zambelli (ora consultabile a questo indirizzo: http://www.ss-talijanska-ri.skole.hr/scuola/storia/storia2)

Samani 1975: Salvatore Samani, Enrico Burich, in Salvatore Samani, Dizionario biografico fiumano, Istituto tipografico editoriale, Venezia, pp. 43-46