Le note del traduttore Borìs Pasternàk

di Giulia Baselica

Pasternak traduttore«Trasmetta tutto il mio entusiasmo, le mie congratulazioni, la mia sconfinata gratitudine al caro Zveteremich, che nel suo lavoro si è dimostrato un incantatore, un mago, un trionfatore». Con queste parole, citate in Mancosu (2015, 315), il 12 gennaio 1958 Borìs Pasternàk concludeva una lunga lettera indirizzata a Giangiacomo Feltrinelli, nella quale il poeta e scrittore russo liberava una gioia ardente e incontenibile: la pubblicazione de Il dottor Živago – che si era rivelata una lunga e difficoltosa impresa, un’autentica missione felicemente compiuta il 15 novembre 1957 – era una realtà finalmente tangibile, sostanziata in un volume che conteneva una traduzione «dall’eccellente qualità» (Mancosu 2015, 314).

Per Pasternàk il tradurre rappresentava un atto connaturato a ogni espressione del suo universo letterario: la composizione poetica e la scrittura prosastica, che sono originate da un atto di traduzione mediante il quale un’immagine, magari evocata dalla memoria, un pensiero o una suggestione sonora si trasmutano in parola scritta, si affiancavano, infatti, a un’intensa attività propriamente traduttiva.

Nel 1914 Pasternàk tradusse la commedia Der zebrochene Krug di Heinrich von Kleist (La brocca spezzata); due anni dopo il dramma Chastelard di Swinburne, traduzione, quest’ultima, mai pubblicata in quanto andata perduta nella tipografia cui era stata affidata (Pasternàk E. 1990, 15).

Nell’inverno tra il 1919 e il 1920 realizzò la versione russa dei tre drammi in versi, ancora di Kleist, Prinz von Homburg, Die Familie Schroffenstein, Robert Guiskard.

La traduzione di queste opere gli era stata commissionata dalla redazione di Vsemirnaja literatura (una casa editrice fondata nel 1919 per iniziativa di Maksim Gor’kij e animata dall’intento di pubblicare le migliori opere della letteratura mondiale dei secoli XVIII-XX); tuttavia soltanto Semejstvo Šroffenštejn e Robert Giskar vennero date alle stampe nel 1923, in uno solo dei due volumi previsti per la raccolta di opere di Kleist. Il dramma Princ Gomburgskij vide la luce soltanto nel 1940, in un volume che includeva oltre alla commedia summenzionata di Kleist, Razbityj kuvšin, anche la versione russa di tre intermezzi di Hans Sachs, anch’essa firmata da Borìs Pasternàk (Pasternàk E. 1990, 15). In quello stesso periodo volse in russo ottanta ottave di Goethe: alcune liriche e il frammento del dramma incompiuto Die Geheimnisse (I misteri), quest’ultimo pubblicato nel 1922 con il titolo Tajny (Misteri, appunto); la commedia The Alchemist di Ben Jonson nella versione russa Alchimist, edita nel 1931, e alcune poesie del poeta belga Charles Van Lerberg.

A metà degli anni trenta Pasternàk tornò a occuparsi di traduzione, dedicandosi al lungo poema Zmeed del georgiano Važa Pšavela e alle poesie di Tabidze, Jašvili, Leonidze. Tali versioni furono raccolte in un volume intitolato Gruzinskie poety (Poeti georgiani), apparso nel 1947. In questi stessi anni si dedicò alla traduzione di liriche di Schiller, Verlaine, Byron, Keats, Rilke, Verhaeren, Rafael Alberti, Słovacki, Leśmian, Broniewski, Nezval, Sàndor. Ma la grande impresa, che lo scrittore russo portò a compimento sul finire degli anni trenta, fu la traduzione dell’Amleto. Inizialmente essa era destinata al teatro Mejerchol’d, poi, in seguito all’arresto del regista nel 1939, fu acquisita dal Teatro d’Arte di Mosca (MChAT) e pubblicata l’anno successivo sul periodico «Molodaja gvardija» (numeri 5 e 6), quindi in volume, nel 1941. Ogni nuova edizione dell’Amleto russo imponeva all’autore una nuova redazione rispettosa dei sempre nuovi requisiti imposti dalla casa editrice: è lo stesso Pasternàk a confessare in una lettera indirizzata a Michail Morozov – noto studioso del teatro shakespeariano e curatore di numerosi volumi dedicati al drammaturgo inglese – quanto lo opprimessero tali e tante invadenti intromissioni nel suo lavoro:

Javlenie objazatel’noj redaktury pri trude ljuboj stepeni zrelosti odno iz zol našego vremeni. Eto čerta našego obščestvennogo zastoja, lišennogo svobodnoj i raznomysljaščej kritiki, bystro i jarko rasvivajuščichsja sudeb, i, za nevozmožnost’ju istinnych novinok, zanjatogo čistkoj, perekraivaniem i perelicovyvaniem veščej, slučajno sdelannych v bolee sčastlivoe vremja (Pasternàk E. 1990, 17)

[Il fenomeno della revisione obbligatoria durante la stesura del lavoro e in ogni possibile fase del suo avanzamento è uno dei mali del nostro tempo. È un tratto distintivo della stagnazione della nostra società, privata della critica libera e del pensiero eterodosso proprio di quei destini luminosi che si compiono in fretta e, data l’impossibilità di produrre novità autentiche, tutta presa a ripulire, tagliare a nuovo, rivoltare come un cappotto le opere nate in un’epoca più felice ]

Nei venticinque anni trascorsi fra il 1938 e il 1954 le traduzioni delle opere di Shakespeare e di Goethe (Amleto, Romeo e Giulietta, Antonio e Cleopatra, Enrico IV, Re Lear, Macbeth, Faust I, Faust II) rappresentarono per Pasternàk un sostegno non soltanto materiale, bensì anche, e soprattutto, morale. E, infine, nel 1959 gli venne affidata la traduzione del dramma storico di Calderón de la Barca (El príncipe constante), Stojkij princ, pubblicata nel 1961.

Di notevole interesse sono le riflessioni di Pasternàk intorno alla traduzione. Costituiscono l’essenza delle sue Note del traduttore (Zametki perevodčika), redatte nel 1944 e premesse a una raccolta intitolata Antologija anglijskoj poezii (Antologia della poesia inglese), curata da Abel’ Starcev, critico e traduttore. Pasternàk approntò per l’occasione la traduzione di alcune liriche di Shelley e propose al curatore alcuni esempi della poesia di Swinburne, i quali, tuttavia, non ebbero seguito, così come non vide la luce l’antologia stessa, pubblicata soltanto nel 1989, nel quarto volume della raccolta di opere di Pasternàk in cinque volumi (Žatkin e Komarova 2014).

I Zametki perevodčika che introducono l’opera, presentando al lettore sia i criteri compositivi dell’antologia, sia l’approccio traduttivo che caratterizza le opere proposte, sono un autentico, se pur breve, trattato di teoria della traduzione, scritto con la concisione e la densità proprie del pensiero poetico fatto parola. In altri momenti della storia era accaduto che un testo introduttivo a una traduzione avesse in seguito acquisito lo status di scritto teorico fondante della riflessione sulla traduzione. Nel 1923 nel saggio Die Aufgabe des Űbersetzers (Il compito del traduttore), introduzione alla versione tedesca, da lui stesso approntata, dei Tableaux parisiens di Baudelaire, Benjamin aveva dato corpo all’idea della missione del traduttore: liberare la pura lingua, prigioniera nell’opera originale e nella traduzione stessa.

Pasternàk pone subito l’accento sull’inconsueto carattere del criterio selettivo adottato dal curatore della raccolta: se è consuetudine, nel comporre una raccolta poetica di autori stranieri, scegliere innanzitutto i testi originali ai quali far poi seguire le versioni ritenute più adeguate, Starcev compie il percorso inverso. L’antologia è infatti costituita da una selezione delle migliori traduzioni russe realizzate negli ultimi centocinquant’anni a cominciare da Žukovskij, senza alcun riguardo per l’effettiva corrispondenza tra le migliori espressioni del genio poetico inglese e le migliori testimonianze del genio russo (Pasternàk B. 1990). Nell’antologia, osserva l’autore del Dottor Živago, trova conferma un antico convincimento: le traduzioni non hanno alcun senso se non intrattengono con i testi originali una relazione più stretta di quanto sia convenzionalmente ammesso. La semplice corrispondenza fra l’opera originale e la relativa versione in un’altra lingua rappresenta un troppo debole legame per assicurare l’adeguatezza della traduzione che, dell’opera originale, in questo caso, è soltanto una sbiadita ridicitura, del tutto inadeguata a trasmettere quell’essenziale aspetto che essa si impegna a riverberare: la forza del testo. La traduzione raggiunge il suo scopo se stabilisce con l’originale un rapporto di effettiva dipendenza, del tutto analogo «a quello che lega la sostanza base a una sostanza derivata, il fusto alla margotta» ([otnošenie] osnovanija i proizvodnogo, stvola i otvodka: Pasternàk B. 1990, 546). Interessante, nella sua inedita e vivida immagine, la definizione del rapporto che lega l’originale alla sua traduzione: una dipendenza necessaria ed evidente, e tuttavia dinamica. Questa l’intuizione illuminante di Pasternak: la traduzione è sì dipendente dal testo originale che l’ha generata, ma, dotata di vita propria, è capace di agire a sua volta, in virtù delle specifiche proprietà che la caratterizzano. Se dunque il testo originale è il fusto, la traduzione è la margotta: un procedimento mediante il quale, scortecciando parte di un ramo cui viene applicato un manicotto di terriccio bagnato si ottengono nuove radici, con la conseguente possibilità di trapiantare il ramo dopo qualche tempo. La traduzione è allora una sorta di entità biologica, radicata in un terreno nuovo e capace di adattarsi al nuovo ambiente generando, a sua volta, nuove vite, ispirando, cioè, nuove opere e nuove ritraduzioni. Pasternàk precisa, inoltre, che la traduzione deve procedere dall’autore che abbia esperito l’effetto dell’originale molto tempo prima di cimentarsi nella sua traduzione, frutto nonché esito storico dell’opera originale.

Prossimo alle posizioni di Ortega y Gasset – che pochi anni prima, nel 1937, nel suo celebre scritto Miseria e splendore della traduzione (vedi Ortega y Gasset 1984) aveva colto nell’attività traduttiva un carattere utopistico – Pasternàk sostiene l’impossibilità della traduzione, poiché «il fascino dell’opera d’arte risiede nella sua irripetibilità» (glavnaja prelest’ chudožestvennogo proizvedenija v ego nepovtorimosti: Pasternàk B. 1990, 547) e la traduzione non può dunque, in alcun modo, riprodurla. E queste parole evocano immediatamente il pensiero espresso in merito da Benjamin, sempre in quegli anni, nel 1936: «proprio in questa irripetibile esistenza, e in nient’altro, si è compiuta la storia a cui essa è stata sottoposta nel corso del suo perdurare» (Benjamin 2011, 7). Tuttavia, continua Pasternàk, le traduzioni sono possibili, poiché in un modello ideale di traduzione devono essere opere d’arte anch’esse, così ponendosi allo stesso livello degli originali per mezzo della propria irripetibilità. Il già ricordato Ortega aveva abbastanza similmente affermato che la traduzione costituisce un genere letterario a sé stante, non assimilabile ad alcun altro. Le traduzioni, precisa a sua volta Pasternàk, non sono un mezzo per conoscere delle singole opere, bensì uno strumento di comunicazione del quale, da secoli, si servono popoli e culture e sono possibili in quanto per secoli si sono reciprocamente tradotte letterature intere.

Pasternak esprime questa visione del tradurre permeata dell’idea del rispetto del testo originale, fondata sul riconoscimento della sua forza e della necessità di una relazione con il testo originale a un tempo simbiotica e indipendente proprio quando la cultura letteraria sovietica aveva ormai acquisito i rigidi paradigmi del realismo socialista, definito e introdotto ufficialmente nel 1934, durante il primo congresso dell’Unione degli scrittori sovietici. Anche la traduzione doveva sottostare ai principi normativi di tale movimento: nel novembre del 1951, nel corso dei lavori preparatori all’imminente congresso pansovietico dei traduttori, ebbe luogo una riunione organizzata dalla sezione moscovita dei traduttori dell’Unione degli scrittori sovietici dedicata, secondo il programma ufficiale, «ai lavori del compagno Stalin sulle questioni linguistiche e sui compiti della traduzione letteraria» (rabotam tovarišča Stalina po voprosam jazykoznanija i zadačam chudožestvennogo perevoda; citato in Azov 2012, 135). Tra gli esiti delle discussioni svoltesi durante i lavori del congresso si distinse la seguente conclusione: «Resta da affrontare l’elaborazione dei principi e dei fondamenti della traduzione letteraria» (Razrabotka principov i osnov chudožestvennogo perevoda u nas otctaet: ibidem).

Sarebbe stato poi Ivan Kaškin a tentare di formulare il principio della traduzione del realismo socialista intitolato V bor’be za realističeskij perevod (Nella lotta per la traduzione realistica) e pubblicato nel 1955: se lo scrittore ha inteso rappresentare la realtà nella propria lingua. «Il traduttore sovietico cerca di cogliere al di là delle parole dell’originale fenomeni, pensieri, cose, azioni, condizioni, di esperirli e di riprodurli fedelmente, interamente e correttamente» (Sovetskij perevodčik staraetsja uvidet’ za slovami podlinnika javlenija, mysli, vešči, dejstvija i sostojanija, perežit’ ich i verno, celostno i konkretno vosproizvesti etu real’nost’ avtorskogo videnija: Kaškin 1955, 126). La traduzione, analogamente alle opere rispettose dei dettami del realismo socialista, deve possedere il carattere della semplicità della lingua, perché il testo tradotto deve arrivare al lettore e se quest’ultimo non è posto nella condizione di comprenderlo, l’atto del tradurre è svuotato di senso e dunque vanificato (Azov 2012).

È facile dunque individuare la netta contrapposizione fra il principio normativo derivato dalla formulazione del realismo socialista applicato alla traduzione e l’idea della traduzione non solo espressa, ma prima di tutto avverata nella produzione pasternakiana. Se il primo rinvia a una visione marcatamente naturalizzante della traduzione, a una sostanziale manipolazione del testo originale, trasformato in un oggetto passivamente funzionale alla rappresentazione di una realtà che si pretende oggettiva, la seconda evoca una prospettiva, almeno in parte, estraniante, rispettosa della personalità del testo, aperta alla germinazione. La traduzione doveva essere per Borìs Pasternàk ciò che per lui era la poesia. Nel discorso che egli tenne in quello stesso primo congresso dell’Unione degli scrittori in cui era stata ufficialmente presentata una prima formulazione del realismo socialista così la definì: «la poesia è prosa […], la prosa stessa, è la voce della prosa, la prosa in azione e non riportata» (Poezija est’ proza, sama proza, golos prozy […], proza dejstvii, a ne v pereskaze: Kolker 2004).

Bibliografia

Azov 2012: Andrej Azov, K istorii teorii perevoda v Sovetskom Sojuze. Problema realističeskogo perevoda, in «Logos», n. 3, [87] 2012, pp.131-152

Benjamin 1982: Walter Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino, 1982, pp.39-52 (traduzione di Renato Solmi da Walter Benjamin, Die Aufgabe des Űbersetzers (1936), in Gesammelte Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1972)

Benjamin 2011: Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino (1966) (traduzione di Enrico Filippini da Walter Benjamin, Das Kunstwerk in Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1955)

Kaškin 1955: Ivan Kaškin, V bor’be za realističeskij perevod, in Voprosy chudožestvennogo perevoda, Sovetskij pisatel’

Kolker 2004: Jurij Kolker, Čtob Kafku sdelat’ byl’ju. 70 let nazad sostojalsja pervyj s’ezd sovetskich pisatelej, in «Zvezda», 2004, n.10 (http://magazines.russ.ru/zvezda/2004/10/kol16.html)

Mancosu 2015: Paolo Mancosu, Živago nella tempesta, Feltrinelli, Milano (traduzione di Francesco Peri da Paolo Mancosu, Inside the Zhivago Storm. The Editorial Adventure of Pasternak’s Masterpiece, Feltrinelli, Milano, 2013)

Ortega y Gasset 1984: José Ortega y Gasset, Miseria e splendore della traduzione, in La missione del bibliotecario e miseria e splendore della traduzione, SugarCo, Milano, 1984 (traduzione di Amparo Lozano Maneiro e Claudio Rocco da Miseria y esplendor de la traducción, in Ideas y creencias, Espasa calpe, Buenos Aires, 1940)

Pasternak B. 1922: Borìs Pasternàk, Tajny, in Jogann V. Gëte, Tajny, Sovremennik, Moskva (traduzione da Johann Wolfgang Goethe, Die Geheimnisse, 1784-5)

– 1923: Borìs Pasternàk, Semejstvo Šroffenštejn; Robert Giskar, in Genrich fon Klejst, Sobranie sočinenij, Vsemirnaja literatura, Moskva-Leningrad (da Heinrich von Kleist, Die Familie Schroffenstein, 1803)

– 1923: Borìs Pasternàk, Robert Giskar, in Genrich fon Klejst, Sobranie sočinenij, Vsemirnaja literatura, Moskva-Leningrad (da Heinrich von Kleist, Robert Guiskard, 1803)

– 1932: Borìs Pasternàk, Alchimik, in Ben Džonson, Dramatičskie proizvedenija, Academia, Moskva-Leningrad, 1932, t. 2 (da Ben Jonson, The Alchemist, 1612)

– 1941: Borìs Pasternàk, Gamlet, in Uil’jam Šekspir, Gamlet, princ datskij, Goslitizdat, Moskva (da William Shakespeare, Hamlet, 1603)

– 1947: Borìs Pasternàk, Gruzinskie poety. Izbrannye perevody, Zarja vostoka, Tbilisi

– 1961: Borìs Pasternàk, Stojkij princ, in Pedro Kal’deron, P’esy, Iskusstvo, Moskva, (da Pedro Calderón de la Barca, El príncipe constante, 1629)

– 1961: Borìs Pasternàk, Razbityj kuvšin, Iskusstvo, Moskva-Leningrad (da Heinrich von Kleist, Der Zerbrochne Krug, 1802)

– 1989: Sobranie sočinenij, Chudožestvennaja literatura, Moskva, 1989

– 1990: Borìs Pasternàk, Zametki perevodčika, in Zarubežnaja poezija v perevodach B.L. Pasternaka, a cura di E. Pasternak e E. Nesterov, Raduga, Moskva, pp. 546-548

– 2003-2004: Borìs Pasternàk, Sobranie perevodov v 5 tomach, Terra, Moskva

Pasternak E. 1990: Evgenij Pasternàk, Ot sostavitelja, in Zarubežnaja poezija v perevodach B.L. Pasternaka, a cura di E. Pasternàk, E. Nesterov, Raduga, Moskva, (pp.15-18)

Žatkin e Komarova 2014: Dmitrij Žatkin ed Elena Komarova, Tradicii tvorčestva A.Č. Suinberna v russoj literature pervoj treti XX veka, in Chudožestvennyj perevod i sravnitel’noe literaturovedenie, Flinta, Moskva,