Il più longevo, prolifico e poliedrico traduttore dell’Einaudi

di Ernesto Ferrero

Ernesto Ferrero e Daniele Ponchiroli alla Einaudi negli anni 60 (foto Giulio Bollati)

Ernesto Ferrero e Daniele Ponchiroli alla Einaudi negli anni 60 (foto Giulio Bollati)

La figura vicaria del traduttore, costretto dal gioco delle parti a restarsene in ombra, tra le fila della servitù, anche se è co-autore a pieno titolo dell’opera tradotta, si può arricchire di un’ulteriore specificazione. Può diventare un Autore Invisibile 2.0, in cui sparisce anche l’identità personale perché occultata da uno pseudonimo redazionale. È questo il destino del revisore, anche quando il suo lavoro si configura come qualcosa di sostanzialmente diverso rispetto al testo iniziale su cui ha lavorato. Solo di recente, nei titoli di coda dei volumi di alcuni editori (come ad esempio minimum fax) la figura del redattore-restauratore compare con un nome e cognome precisi.

Era pratica diffusa, nella redazione Einaudi dell’epoca d’oro, che traduzioni o cure sottoposte a rifacimenti radicali apparissero a stampa non sotto il nome del traduttore incaricato, che poi non si era rivelato all’altezza delle aspettative, ma sotto il nom-de-plume di un cireneo redazionale, quale che fosse.

In Via Biancamano, il primo e più famoso degli pseudonimi redazionali è stato quello di Luca Lamberti, peraltro tuttora attivo e felicemente operante. Il salvifico Lamberti è creatura di Daniele Ponchiroli, classe 1924, indimenticabile redattore capo dello Struzzo dagli anni cinquanta a metà degli anni settanta, quando logorato dal gravoso incarico aveva deciso di ritornarsene nella natia Viadana, pur continuando a collaborare di là con la casa cui tanto aveva dato. Con grande dolore di tutti è poi scomparso prematuramente nel 1979.

Dire redattore capo è tuttavia riduttivo: meglio sarebbe pilastro fondativo, figura chiave, una delle due o tre senza le quali la casa non sarebbe semplicemente esistita. A lui si è ispirato Italo Calvino, che ne aveva come tanti immensa stima, per tratteggiare la figura del tenero dottor Cavedagna di Se una notte d’inverno un viaggiatore. In quelle pagine figura come umanissimo maieuta e come samaritano che si fa carico anche dei tanti libri che non sono mai nati, e di tanti aspiranti scrittori restati malinconicamente alle soglie della pubblicazione, perché l’editoria si fa soprattutto con i no.

Brillante «normalista», a Pisa Ponchiroli aveva conosciuto Giulio Bollati, divenuto numero due della Einaudi. Iniziando a lavorare a Torino, e dovendo rilanciare la casa, ancora scossa dal suicidio di Pavese, Bollati si ricorda di lui e lo chiama in Via Biancamano a governare la redazione. Con il direttore commerciale Roberto Cerati, Daniele appartiene all’ala francescana dello Struzzo: servire gli altri in umiltà e letizia; predicare la buona novella del libro che ti cambia la vita; ammansire se necessario fratello lupo; edificare i conventi del sapere. Veste giacche e pullover di lana un po’ grossa, quasi pungente, dai colori austeri; pantaloni di fustagno. Recita la parte dello zio di campagna che non sacrificherà mai ai consumi effimeri degli anni del boom, ma non per questo si abbandona a sterili polemiche contro la superficialità dei nuovi edonisti. Va per antiquari e rigattieri a cercare oggetti dell’uso quotidiano, portatori delle storie minime e sublimi di una civiltà che si va perdendo.

Con lui, la redazione è un laboratorio tirato a cera: non un filtro, una boccetta, un’ampolla fuori posto. Redattori e correttori educati nel segno di uno scrupolo maniacale, tale da oscurare i più rigorosi filologi tedeschi, rifiniscono ogni minimo componente della gran macchina, affinché scintilli della luce della perfezione. Di ogni libro si tirano tre giri di bozze. Negli anni settanta Einaudi ha più correttori di «The Times».

Gianfranco Contini, il geniale, aristocratico, sdegnoso Contini a cui non va mai bene niente, dialoga solo con lui, da pari a pari, di lui si fida ciecamente, a lui indirizza lettere amicali dai congedi pirotecnici: «Zampillo saluti a tutti i degni». Ponchiroli firma edizioni importanti: Marco Polo, i poeti del Quattro e Cinquecento, le Rime di Della Casa, Petrarca. In perfetta osservanza della sua etica di servizio e sacrificio, non disdegna nascondersi sotto lo pseudonimo lambertiano quando nel 1962 firma con Carlo Muscetta l’edizione dell’Orlando furioso con scelta di Opere minori per la serie del «Parnaso italiano».

Nell’occasione, Lamberti si distingue per lavori d’alta filologia, ma è già attivo come traduttore da almeno tre anni. Nel 1959 traduce nientemeno che dal giapponese (in realtà dall’inglese, temo) Il paese delle nevi di Yasunari Kawabata, e nello stesso anno passa al reportage–indagine del giornalista tedesco Erich Kuby, che ricostruisce lo scandalo di escort che scuote la società tedesca (Rosemarie). L’anno dopo affronta senza tremare le dotte indagini storiografiche di Frederick Antal su La pittura fiorentina nel suo ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento. Lamberti padroneggia dunque le lingue più diverse e gli ambiti più svariati, dalla letteratura alla storia e alle scienze, come presto si vedrà. Forse nemmeno un poligrafo erudito come Franco Lucentini, che praticava almeno una dozzina di lingue, avrebbe potuto fare altrettanto.

Dopo qualche anno di quiescenza, nel 1969 Lamberti ci consegna il Saggio sulla liberazione di Herbert Marcuse, guru francofortese-americano della giovane sinistra ribelle e contestataria. Alla fine degli anni settanta viene promosso ad autore e firma l’impegnativa voce Controllo sociale per l’innovativa, audacissima Enciclopedia Einaudi di Ruggiero Romano, pur continuando a curare la traduzione di altre voci non meno complesse della medesima Enciclopedia, quali Demagogia, Litosfera, Regione. Enciclopedista egli stesso, per distrarsi si concede un altro romanzo giapponese (Mediocrità di Futabatei Shimei), una Storia del pensiero matematico di Morris Kline, ma anche le memorie di Pablo Neruda, Confesso che ho vissuto. Per arrivare alle vette di una curatela del Viaggio di un naturalista intorno al mondo di Charles Darwin, nientemeno che nella collezione dei «Millenni» (1989).

La sua attività si fa ancora più intensa nel nuovo millennio. A parte il saggio di Theodor W. Adorno su Beethoven, sembra concentrarsi sull’inglese: un romanzo di Michael Faber, Sotto la pelle; I quattro libri delle piccole donne della Alcott, e una nutrita serie di classici: La freccia nera di Stevenson, Canti di Natale di Dickens, Jane Eyre di Charlotte Brontë, tutti gli Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle, Ragione e sentimento di Jane Austen, racconti di Mary Shelley, Bram Stoker e Stevenson, un altro Conan Doyle (Il mastino di Baskerville), Il mago di Oz di Frank Baum, per arrivare trionfalmente al 2013 con Mansfield Park di Jane Austen. Nel frattempo si cimenta anche con poderose opere storiografiche dedicate alla Cina: una Storia politica e istituzionale della Cina del 150 al 1850 di John W. Dardess, una Storia economica della Cina imperiale di Richard von Glahn.

Ogni volta che compare il suo nome, Luca Lamberti segnala implicitamente un’anomalia, un incidente di percorso, un intoppo: è la spia rossa che si accende sul quadro comandi della redazione. Temo, così a occhio, e senza poter addurre prove, che l’iperattivismo lambertiano, particolarmente sensibile nel nuovo millennio, nasconda una prassi largamente nota, in editoria, e sempre più comune e diffusa, in specie nei grossi gruppi, dove i manager hanno sostituito la tradizionale figura dell’editore che fa libri per passione. Si affidano traduzioni badando non tanto alla professionalità del traduttore, quanto all’imperativo di contenere i costi, su cui insistono sino allo sfinimento i mastini del controllo di gestione. Vagli a spiegare che traduzioni scarsamente retribuite raramente corrispondono agli standard richiesti; e che di conseguenza versioni insoddisfacenti comportano di necessità costosi rifacimenti redazionali, il cui risultato finale è pur sempre qualcosa di rimediato alla meno peggio.

I cataloghi, come peraltro i dizionari, sono tra le letture più eccitanti che si possano fare di questi tempi. Anche il catalogo storico Einaudi 2013 può esser letto come un capitolo dell’autobiografia della nazione, o almeno della sua parte più decente. Complessivamente, l’opera oscura e rivelatrice di Luca Lamberti occupa quasi una colonna e mezza del medesimo. Santificato da un così strabiliante curriculum, il nostro invisibile autore-curatore-revisore-traduttore può aspirare direttamente a uno status di immortalità, quantomeno editoriale.

Tengo a precisare che le due altre Lamberti che figurano nel catalogo Einaudi, Asia (traduttrice di Ayaan Hirsi Ali) e Maria Mimita, eccellente critica e storica dell’arte, non sono parenti del prolifico Luca.