La recensione / 2 – Quando un grande italianista si occupa di traduzione

di Piernicola D’Ortona

A proposito di: Pier Vincenzo Mengaldo, Traduzioni moderne in italiano: qualche aspetto, in La tradizione del Novecento. Quinta serie, Roma, Carocci, 2017, pp. 440, € 43

Pier Vincenzo Mengaldo è giunto alla quinta della serie di miscellanee dedicate al Novecento letterario italiano. Il saggio d’apertura (pp. 11-33) questa volta ci tocca da vicino perché ha per tema la traduzione ed è bene rendere conto di ciò che ne pensa uno dei massimi studiosi della letteratura italiana contemporanea. Innanzitutto Mengaldo espone alcuni problemi generali relativi al tradurre, e poi – la parte più interessante del contributo – i rapporti fra lingua della traduzione, storia della lingua e tradizione letteraria, in riferimento alla produzione di «versioni poetiche italiane, nella storia moderna e nel presente».

La prima parte del saggio offre una panoramica molto ampia di come si sono evolute le pratiche traduttive in merito a certe questioni che l’autore definisce gli «universali» della traduzione: resa delle parole-testimone di civiltà diverse (quelle che altri chiamerebbero «culturemi»), nomi propri (di luogo, di persona ecc.), adattamento di titoli (anche di film), pronomi allocutivi e reverenziali. Soluzioni che oggi farebbero sorridere – come le chiese di Sant’Eustachio e di San Sulpizio, che popolano le versioni di romanzi francesi dell’Ottocento, oppure l’imbranato «Franco» Kennedy del film Via col vento (1950 nella versione doppiata in italiano) – si fanno via via più rare con l’avanzare del secolo, in particolar modo dopo la seconda guerra mondiale. Al progressivo emanciparsi dalle goffe maglie dell’addomesticamento, si accompagna un’altra evoluzione fondamentale, che è quella della perdita di prestigio del toscano letterario, il quale arriva ad assumere «sapori fra dialettali, letterario-preziosi e arcaici».

Fin qui, dunque, una chiara e utilissima sintesi (aggiungo solo, per completezza, la questione degli allocutivi, che Mengaldo espone in riferimento allo spinoso caso del russo), da cui emerge la lucidità di chi certi fenomeni sa collocarli in una precisa cornice storica. L’autore va molto più in profondità quando passa alla traduzione poetica. Anzitutto ha il merito di includere nella casistica un esempio particolare, che è quello delle traduzioni “di servizio” per il teatro musicale: le versioni “ritmiche” di libretti d’opera stranieri, risalenti a un’epoca (finita anch’essa nel secondo dopoguerra) in cui le opere si rappresentavano quasi esclusivamente in italiano. Un caso interessante, perché indice di quanto pesassero – oltre alle contraintes musicali – anche le consuetudini linguistiche della tradizione poetica italiana (un esempio per tutti è quello dell’oiseau rebelle, / que nul ne peut apprivoiser – nel francese pianissimo della Carmen – che diventava «uno strano augello / che niun puote addomesticar»). Sono quindi versioni che si destreggiano fra arcaismi linguistici, consuetudini metriche e restrizioni musicali.

Ma il cuore del saggio sta nell’individuazione di certe costanti nelle versioni che «possono porsi spesso come sostitutive dell’originale, senza accompagnarsi con un testo a fronte» (si pensi all’Eneide di Annibal Caro o all’Iliade di Vincenzo Monti). Costanti che originano nella tradizione e che si possono riassumere in tre punti: consuetudini metriche (assoluta preponderanza dell’endecasillabo, verso incredibilmente duttile); orrore per la ripetizione e tendenza ineludibile alla variazione; scarsa propensione per il verso-frase (con conseguente dilagare di inarcature del verso). Sulla scorta di una notevole varietà di esempi, che arrivano fino ai sonetti shakespeariani volti in italiano da Montale e al Goethe di Giorgio Orelli, Mengaldo delinea il quadro di una lingua che tende a conformarsi a questi principi-guida, a questi fari della tradizione italiana, nonostante certi tentativi di affrancarsene. Più che al bivio fra l’originale e il traducente, quindi, secondo Mengaldo l’ottimo traduttore è quello che si trova a un trivio, «fra linguaggio del tradotto, il proprio e le convenzioni o costrizioni della propria tradizione poetica, antica e nuova».