di Marco Ravaioli
A proposito di: Francesca Terranova e Maria Ludovica Trombetta, Tanto per intenderci. Conversazione sul buon tradurre, Guida, Napoli, 2016, pp. 76, € 9.00
In quarta di copertina viene definito “volumetto”, forse perché gli argomenti presentati non vengono fatti apparire più grandi di quello che sono. In questo modo concetti spesso trattati in modo oscuro vengono tradotti, è il caso di dire, in concetti chiari.
Perché di traduzione, di buon tradurre, stiamo parlando, o meglio stanno parlando Francesca Terranova e Maria Ludovica Trombetta.
Le due interlocutrici si propongono, riuscendoci, di offrire degli spunti che permettano di tradurre con maggiore facilità le lingue indoeuropee, mettendole a confronto tra loro, quando e qualora risulti più utile e integrando concetti classici: perché strutture simili del linguaggio attraversano lingue diverse, nella morfologia e nella sintassi.
Nei nove capitoli, scritti in forma di dialogo, con esempi tratti soprattutto da tedesco e inglese, in parallelo con latino e greco, vengono commentate soluzioni traduttive diverse. Sullo sfondo una domanda: perché le conoscenze acquisite nello studio di una lingua quasi mai si utilizzano nello studio di un’altra lingua? Le competenze di chi esce dal liceo classico, ad esempio, non possono essere utili per lo studio di altre lingue flessive? Il pronome relativo “che” in tedesco viene declinato? Si? Ma allora la struttura risulta identica a quella del latino e del greco.
Si parla di morfologia, non necessariamente arida nel suo far capire come le regole agiscono a formare nuove parole. Si parla di sintassi, per evidenziare i nessi testuali, la combinatoria infinita e perfetta del sistema dei verbi, in tedesco e in greco antico.
Semplicemente parlando e parlando semplicemente si analizzano forme e principi che regolano il farsi, disfarsi e rifarsi della traduzione. Quanto spesso invece si scrivono libri che non badano ai lettori, fatti di discorsi allusivi, ermetici, tra colleghi, con l’eterna dimenticanza di chi ascolta da parte di chi parla o insegna e di chi legge da parte di chi scrive. Qui nessuna retorica dell’astrazione.
Resta da dire che anche la chiarezza può non essere di per sé positiva ma fittizia, compiacente, semplificatoria, paternalistica, ingannevole, insufficiente, vaga, ambigua. Oscura. E il “volumetto”, che si legge con piacere e interesse, richiede una lettura fortemente collaborativa. Perché l’oscurità può provenire anche dal lettore, oltre che dalla complessità della materia trattata.
Francesca Terranova, in particolare, è una traduttrice e, si sa, i traduttori tendono a farcire il linguaggio: qui ha il merito di aver violato le regole d’uso di una categoria che, paradossalmente, specie quando ragiona su sé stessa, primeggia nel rendere incerto il significato delle parole, nel sollevare nebbie linguistiche.
La volontà di essere profondi per molti consiste nel forzare il linguaggio evitando l’espressione corrente. In Tanto per intenderci invece non abbiamo elementi prototestuali privi di corrispondenze biunivoche nella lingua ricevente o leggi di combinabilità logico-esperienziali. Si parla di ermeneutica senza tirare in ballo la Sprachbewegung di Apel, ermeneuticamente indigeribile, e il linguaggio si muove molto meglio. Si parla di improprietà morfologiche, sintattiche e lessicali e non di solecismi.
Strategie traduttive suggerite? La traduzione si sottrae ad ogni forma di predicibilità e non esiste teoria che assicuri il felice esito dell’operazione. Operazione che può riguardare perfino la comunicazione informativa delle targhette interne degli ascensori. Che sembrano uguali, mentre sono differenti l’una dall’altra. Ce ne sono di classiche, confidenziali, ansiogene: «Le persone rimaste intrappolate nell’ascensore possono chiamare il numero…». Tradurre in modo neutro? O minare la tranquillità di chi prende quell’ascensore?