CHIACCHIERATA CON CRISTIANA MENNELLA
di Paola Mazzarelli
Cristiana Mennella lavora in una stanza che sembra la cella di un monaco: un piccolo studio rettangolare con le pareti bianche, una finestra da cui un bel quadro dello scarso verde di Bologna, un tavolino con il PC. Alle pareti, niente. Sul tavolo, quasi niente. Sopra il tavolo una bacheca di sughero con qualche foglietto. Forse una cartolina. Niente dizionari. Nessuno scaffale. Libri, solo quelli a cui sta lavorando.
Da questa stanza minimalista è uscita la voce italiana di autori americani contemporanei (o recenti) come Paul Auster, Breece D’J Pancake, Toni Cade Bambara, Philipp Meyer, George Saunders, di cui Cristiana ha tradotto tutte le opere finora pubblicate in Italia.
Cristiana, è uscito da poco Lincoln nel Bardo di George Saunders (Feltrinelli 2017, da Lincoln in the Bardo, Random House 2017), tradotto da te. Partiamo di qua. Saunders è venuto in Italia per il lancio de libro e so che si è parlato anche della tua traduzione.
Sì, Feltrinelli lo ha invitato al festival di Mantova, ma in quella occasione io non ero in Italia e non ho potuto partecipare. Dopo Mantova, c’è stata una presentazione a Milano. Là sono andata. Avevano organizzato una cosa fuori dagli schemi, una lettura itinerante al Cimitero Monumentale. Un posto bellissimo, tra l’altro, che non conoscevo, pieno di vere e proprie opere d’arte. Ci si spostava da una tomba all’altra, tutto il pubblico in gruppo, e a ogni tappa davanti alla tomba di una persona illustre ci si fermava ad ascoltare due attrici che leggevano brani del libro. Ci saranno state duecento persone, una piccola folla. Poi, c’è stata la presentazione vera e propria, di nuovo con un pubblico numeroso e un’atmosfera, come dire, quasi di esaltazione. E’ stato lì che a un certo punto Paolo Di Paolo, lo scrittore che presentava Saunders, ha lodato la traduzione. Come fanno, poi, a lodare la traduzione, non so. Secondo me, solo perché gli suona bene in italiano.
Dici poco! Magari invece in questo caso hanno guardato anche il testo inglese.
Mah, non saprei. Comunque, si sono soffermati sulla traduzione. Ne hanno parlato bene e sono stata molto contenta, è ovvio. È intervenuto anche Saunders e qualcuno ha detto che ero lì in prima fila. Allora la gente ha cominciato a dire: «Ah, è lei, la traduttrice» e ad applaudire. Tant’è che a un certo punto quelli di Feltrinelli mi hanno fatto segno di alzarmi in piedi perché io ero lì stupita e incollata alla sedia. Alla fine c’è stata addirittura gente che è venuta a complimentarsi. Io dicevo: «Vi ringrazio, ma lo scrittore è lui». E loro: «Sì, ma il libro io l’ho letto grazie a te». Bello questo, no? Mi ha fatto piacere, ma la cosa che mi ha sorpreso davvero è che quelle persone il libro lo avevano letto sul serio. Non è un romanzo canonico. E’ vero che c’era stata una grande campagna stampa già da prima del 31 agosto, giorno d’uscita del libro, ma continuano a parlarne ancora adesso e si sa che in Italia le novità in libreria hanno vita breve.
Comunque, è giusto che si sia parlato di questa traduzione. Era un libro difficile.
Sì, molto complicato. Devo dire che questi libri riesco a farli grazie a Saunders, che mi assiste e non mi lascia mai sola. Se non avessi lui, non so come farei.
Avevi già tradotto altri libri suoi, no?
Sì. Questo era il sesto, credo. E meno male, perché ormai lo conosco bene e so cosa mi aspetta. Anche se le sorprese non mancano mai.
Che vuol dire, che Saunders ti assiste?
Vuol dire che lo tempesto di domande. Che significa, questo? Che cosa volevi dire in questo punto? Cose così. Lui mi dà indicazioni importanti, decisive. In un racconto contenuto in Dieci dicembre (Minimum Fax 2017, da Tenth of December, Random House 2013) per esempio, c’è un ragazzino che a un certo punto dice mentalmente una sfilza di parolacce. Il brano è questo: Mom and Dad would be heartsick if they could hear the swearing he sometimes did in his head, such as crap-cunt shit-turd dick-in-the-ear butt-creamery. Alcune le avevo già sentite, altre no. Gli chiedo lumi facendo presente la mia conoscenza parziale di quel turpiloquio e lui risponde: «Ah, ma qui io sto inventando, pensa ai bambini quando dicono parolacce che neanche esistono. Tu inventa pure come ti pare. L’importante è l’effetto». Per me, sono cose illuminanti. Me lo ripete sempre: non importa la singola parolina, voglio che l’effetto sia questo.
E tu come hai tradotto?
«Mamma e papà si sarebbero disperati se avessero sentito le parolacce che a volte diceva nella sua testa: fica-merda stronzo-cacone cazzimbocca purè di chiappe». E’ chiaro che avere un rapporto di questo genere con l’autore che traduci è un privilegio. Quando hai il suo imprimatur ti senti molto più sicura. Ormai molti passaggi li salto, con lui, perché lo conosco bene e conosco bene la sua scrittura. Se penso alle cose che gli chiedevo all’inizio, mi vergogno da morire. Ho un pacco di corrispondenza così… Mi ha fatto anche i disegnini. Sai, quando devi spiegare le cose agli stupidi…
Ma perché è così difficile, Saunders? Usa lo slang?
Usa tutto. C’è lo slang, c’è una lingua letteraria, c’è il linguaggio aziendale, il parlato, monologhi interiori sgangherati. Se sei abituato a leggere la bella pagina, resti spiazzato. Ci sono passi dove all’inizio non si capisce proprio niente. La prova l’ho avuta quando sono stata in America. Dovevamo fare un’intervista alla radio e c’era una persona che avrebbe letto dei brani, un’americana, poetessa e giornalista. Avevano scelto questo brano, che è l’incipit di Victory Lap, un racconto di Tenth of December:
Three days shy of her fifteenth birthday, Alison Pope paused at the top of the stairs.
Say the staircase was marble. Say she descended and all heads turned. Where was {special one}? Approaching now, bowing slightly, he exclaimed, How can so much grace be contained in one small package? Oops. Had he said small package? And just stood there? Broad princelike face totally bland of expression? Poor thing! Sorry, no way, down he went, he was definitely not {special one}.
E quella mi fa: «Ma che roba è, qui non si capisce niente!»
E la tua traduzione?
A tre giorni dal suo quindicesimo compleanno Alison Pope sostò in cima alle scale.
Facciamo che le scale erano di marmo. Facciamo che le scendeva e tutte le teste si voltavano. Dov’era {il ragazzo dei suoi sogni}? Eccolo appropinquarsi con un lieve inchino, ed esclamare: Sei così graziosa! E’ vero, dunque, che nella botte piccola c’è il vino buono… Ops. Aveva detto botte? Standosene lì impalato? Senza mezza espressione sul largo volto principesco? Che pena! Scusa sai, non ci siamo, bocciato, non era certo lui {il ragazzo dei suoi sogni}.
Qui, in effetti, le difficoltà sono di vario genere, non solo linguistiche. Devi innanzitutto capire che cosa sta succedendo.
Sì. Ma in Saunders ci sono sempre diversi livelli di difficoltà. Non è un autore in cui puoi entrare facilmente, di quelli che puoi leggere senza fare nessuno sforzo. Lui ti chiede sempre uno sforzo. E’ un po’ come se avesse stima del lettore, se confidasse nella sua intelligenza. Questo non vuol dire che è volutamente difficile. E’ molto… molto realista, per certi versi. Un realista ventriloquo. Le voci che parlano sulla pagina sono tante e diverse. E il traduttore deve farle parlare come fa lui, inseguire la stessa varietà. Ma questo è un discorso anche più generale. Quando traduci, devi sempre essere un po’ ventriloquo, ti devi immedesimare.
Con l’autore?
Con la scrittura. Anzi, con la voce. E’ chiaro che se l’autore lo conosci da anni sei già un bel pezzo avanti. Però lo sforzo di immedesimazione c’è comunque. E’ una cosa strana, perché è istintiva ma anche premeditata. Si acquisisce con l’esercizio. Lo dico sempre anche agli studenti quando tengo un seminario di traduzione: ci vuole tantissimo esercizio. E’ un lavoro, una costruzione artificiale, che però poi deve dare un risultato naturale. Come quello dei ballerini in scena. Quando sono in sala prove fanno una gran fatica, si allenano otto ore al giorno, hanno i piedi distrutti e deformati, i crampi… però poi quando stanno sul palco tu la fatica non la vedi. Vedi solo la leggerezza, la scioltezza. Ecco, quando traduci dev’essere quello l’effetto… Ma sono tutti ragionamenti che faccio a posteriori. Tutte le metafore, le analogie che si usano per parlare di traduzione, sono ragionamenti a posteriori. Per certi versi è una cosa così aerea, inafferrabile, è come se tu gli girassi intorno, a questo concetto. Ma io sono convinta che dietro c’è un grandissimo lavoro. Un grandissimo lavoro materiale.
Un lavoro coi dizionari?
Sì, anche. Ma soprattutto io vado in internet con le stringhe di frasi. E poi ho imparato che bisogna anche nutrirlo l’inglese – l’americano nel mio caso – nel senso che devi ascoltarla, la lingua. Devi ascoltarla molto. Questa è un po’ la mia ansia. Io vivo in Italia, non sono immersa in quel mondo. Però con Saunders è come se avessi frequentato un corso intensivo. E ho imparato tantissimo. Questa “capacità”, chiamiamola così, l’ho sviluppata grazie a lui. E’ capitato un po’ per caso, ho cominciato a tradurre i suoi libri e sono andata avanti. Non lo so, quali neuroni si mettono in comunicazione, però è un fatto che adesso riesco a leggere cose difficili che prima non avrei capito. Perché il primo passaggio è capire quello che c’è scritto. Molta letteratura contemporanea è così. Se riesco a capire, cioè se riesco a stargli dietro, a sintonizzarmi subito, allora magari riesco anche a trovare la soluzione. Mi ricordo all’inizio… una disperazione. Saunders ha una capacità prensile incredibile, va a pescare da tutte le parti. Ripete sempre di non essere scrittore well read, colto. Forse quella sua freschezza e originalità gli vengono proprio dal fatto di non avere una formazione propriamente letteraria, cosa che potrebbe essere anche un handicap, certo. Ma quando funziona, invece, come in questo caso, può venire fuori uno stile inedito, diverso da tutti gli altri.
Però Saunders ha frequentato anche una scuola di scrittura.
Sì, lo racconta nell’introduzione a Bengodi e altri racconti (Minimum Fax 2015, da Civil War Land in Bad Decline, Random House 1996). A quei tempi pensava di dover scrivere al modo di Hemingway, Joyce, ecc. Finché, visti gli esiti disastrosi, si è stufato e si è messo a scrivere a modo suo. Lui proviene da una famiglia modesta. Ed è una persona modesta, anche se adesso insegna scrittura all’università ed è diventato famoso.
A proposito di Bengodi e altri racconti, quella stessa raccolta era già uscita con la tua traduzione da Einaudi «Stile Libero» nel 2005 col titolo Il declino delle guerre civili americane. Per la nuova edizione Minimum Fax hai rivisto e corretto la traduzione tu stessa. Come è stato, fare la revisione di te stessa a distanza di dieci anni?
Il declino/Bengodi era la seconda raccolta di racconti a cui lavoravo, ma in realtà la prima pubblicata da Saunders. E’ un concentrato del suo stile, soprattutto delle sue idiosincrasie di esordiente. Quando eravamo in contatto nel periodo in cui la traducevo, se ne è reso conto lui stesso, è come se avesse fatto autocoscienza a causa della traduzione. E’ stata una traduzione complessa, oltre che un allenamento bestiale, che avevo svolto tanti anni fa. Siccome ritengo che negli anni si possa migliorare, ho pensato che fosse il caso di perfezionare il lavoro con tutti gli strumenti che avevo acquisito nel frattempo. Ma, anche a distanza di anni, non è stata una passeggiata. Per esempio nella nuova edizione Saunders aveva aggiunto un racconto inedito in Italia, Mancanza d’ordine nella Sala dell’Oggetto Galleggiante che già dal titolo dà la misura di quello si prospetta sulla pagina.
Torniamo a Lincoln nel Bardo e alla difficoltà di Saunders. Qui c’è una miriade di voci diverse…
Sì, ci sono 162 voci diverse, oltre a brani presi dai testi di storia o da libri che parlano di Lincoln. C’è un personaggio che parla sboccato, c’è una specie di poeta modernista che si esprime solo a metafore arditissime, ci sono tre voci che sono un po’ come guide dantesche… e ci sono inserzioni di testi diversi, testi realmente esistenti e testi inventati dall’autore che fanno il verso ai documenti storici. Il libro poi è ambientato nell’Ottocento e ricorre alla Nineteenth century diction, cioè una lingua ottocentesca, o meglio, l’idea e la resa di Saunders di una lingua ottocentesca. Per lavorare a un testo come questo devi continuamente adattarti, cambiare voce, registro, angolazione. Mentre traducevo, giocavo a cercare di indovinare i brani trapiantati da altri testi e quelli che invece erano di pugno dell’autore, ma che facevano il verso ai testi dell’epoca.
E indovinavi?
Sì. Quanto meno, quando glielo chiedevo, lui confermava: sì, questo è finto, sì, questo è vero. Ma c’è stata un’altra cosa che mi è servita moltissimo. Gli ho chiesto di mandarmi l’audiolibro di Lincoln nel Bardo, costituito da 162 vive voci che leggono il libro. E’ come se mi si fosse spalancato un mondo. Sentire la parola detta – e detta come voleva sentirla dire l’autore, perché l’audiolibro è stato realizzato con la sua supervisione – è fantastico. Hanno partecipato star del cinema e gente comune, anche i familiari e i vicini di casa di Saunders. E quello ti dà il suono, il ritmo, il respiro di quella determinata voce. E’ questo che conta, che mi guida. La singola parola ha un’importanza relativa. Quello che devi rendere è il discorso globale. Il singolo mattoncino conta, ma fino a un certo punto. E’ chiaro che se vai a spostarlo, quel mattoncino, magari ti crolla tutto. Ma quando funziona lo senti con le tue orecchie. Lo leggo a voce alta e se mi va bene, vuol dire che sono sulla strada giusta.
Questo è anche mestiere.
Certo. Ripeto, è una cosa impalpabile, difficile da spiegare. L’unica certezza è che è frutto di un lavoro continuo, ininterrotto. Io poi ho sempre moltissimi dubbi. Sono anni che traduco, e faccio sempre una gran fatica, ho sempre tante insicurezze. Però so che è così: quando leggo e sento che funziona, vuol dire che sono sulla strada giusta.
A Saunders come sei arrivata?
Traducevo per Einaudi «Stile Libero». Quando hanno comprato Pastoralia (Einaudi 2001, da Pastoralia, New York, Riverhead Books 2000) me l’hanno proposto. L’ho letto, ho detto va bene, lo faccio. In questo senso sono sempre stata un po’ incosciente e spericolata. E poi volevo lavorare. Faccio sempre così, mi metto alla prova, magari soffro le pene dell’inferno, però mi dico: se non ci provo ora, magari in futuro lo rimpiango. L’ho visto, che era difficilissimo. Ma pensavo, se non capisco, chiamo l’autore, è agli esordi, mi darà retta…
E ti sei messa subito in contatto con l’autore?
Sì, subito. In Italia non lo conosceva nessuno e in America era noto negli ambienti editoriali ma a livello di grande pubblico, zero. Negli anni abbiamo continuato a scriverci, o meglio io ho continuato a rompergli le scatole con le mie domande mentre lui piano piano cominciava ad affermarsi. Mi scriveva raccontando che non attendeva più con sgomento l’arrivo delle bollette, oppure diceva dei lettori italiani che gli scrivevano perché il libro gli era piaciuto e parlavano bene anche della traduzione. Poi nel 2013 ha pubblicato Tenth of December ed è arrivato il successo di pubblico. E’ una raccolta di racconti uscita in Italia per minimum fax.
Perché? Einaudi lo aveva mollato?
Sì. Forse perché vendeva poco. Dieci dicembre è uscito per Minimum Fax nel 2017. E poi si è cominciato a sentir parlare di Lincoln nel Bardo, ma dicevano tutti che era una follia, un libro difficilissimo, assurdo. Invece, un giorno mi hanno chiamato dalla Feltrinelli. Lo avevano comprato loro e mi hanno proposto di tradurlo.
E meno male che sono venuti a cercare te, per tradurlo. Tu non avevi mai lavorato per Feltrinelli, no?
No. Però quel sant’uomo di Saunders ha letteralmente preteso che continuassi a tradurlo io.
Saunders non è l’unico autore “difficile” che traduci. Anzi, direi che gli americani contemporanei molto difficili li rifilano spesso a te. Quella meteora di Breece D’J Pancake, per esempio. Trilobiti (da The Stories of Breece D’J Pancake, Boston, Little, Brown,, 1983) l’hai tradotto tu, no? Mi sono piaciuti moltissimo quei racconti. Ma anche solo capire che cosa succede è difficile. Mi immagino tradurli…
Sì. Anche quello l’ho fatto per minimum fax. E’ uscito nel 2016. In effetti è difficile capire che cosa sta succedendo, sono testi ridotti all’osso, quasi criptici a una prima lettura.
Perché?
Perché Pancake usa una lingua molto connotata dal punto di vista regionale. E’ la lingua che si parla, o meglio si parlava – perché l’autore è morto a ventisette anni nel 1977 – nel West Virginia, una zona depressa degli Stati Uniti. C’erano cose che proprio non capivo: parole, espressioni, frasi intere. E io ovviamente, se non capisco, non riesco a tradurre. A questo proposito, posso raccontare un episodio carino. Nel racconto Fox Hunters (Cacciatori di volpi) c’era la parola cutter. L’unica cosa che si capiva vagamente era che quel termine alludeva ai cani da caccia. Caccia alla volpe, ma non quella dei gran signori in Inghilterra. I cacciatori di volpe del West Virginia di cui parla Pancake sono gente rozza, brutale, ignorante, dei trogloditi, insomma, con una parlata quasi incomprensibile. Fatto sta che non riuscivo a trovare cutter da nessuna parte. Non sapevo come fare, non potevo mica inventarmelo. Alla fine ho scritto al direttore del DARE – Dictionary of American Regional English (https://www.daredictionary), un dizionario che comprende l’inglese di tutte le regioni degli Stati Uniti e che viene aggiornato continuamente. Ci si può anche abbonare, ma siccome non costa poco, ho consultato una versione cartacea che era disponibile all’università di Bologna. Non ho trovato niente e alla fine ho deciso di chiedere lumi direttamente al gran capo. Ho pensato, al massimo mi mandano a quel paese. Tendenzialmente non andrei mai a scocciare nessuno. Però qui ero disperata. Mi sono detta, solo loro possono aiutarmi. E ho scritto al direttore. Il bello è che sono caduti dalle nuvole anche loro, non conoscevano quel termine e mi hanno risposto che avrebbero fatto le ricerche del caso. Insomma, alla fine si è capito che il termine indica il cane di una muta che invece di stare nel gruppo se ne va per conto suo, un cane un po’ individualista, che tende a staccarsi dagli altri e a fare di testa propria… E dopo essere giunti alla conclusione che quella parola ha quel significato preciso, l’hanno aggiunta al dizionario, con la citazione di Pancake che gli avevo mandato io per chiedere lumi. Il direttore mi ha anche scritto per ringraziarmi e comunicarmelo!
Queste istituzioni all’estero funzionano. E’ confortante sapere che rispondono sempre. Non si può dire lo stesso qui da noi…
In America ci tengono moltissimo. Sarà anche il fatto che hanno una storia così breve. Comunque, tradurre Pancake non è facile perché lui usa una lingua molto connotata geograficamente. Il problema è che non la puoi rendere con un dialetto dei nostri, farebbe ridere. E’ una lingua che è rimasta ferma, arretrata, per certi versi. E poi dentro ha un’infinità di linguaggi specifici, perché Pancake conosceva tutti i mestieri, sapeva esattamente quello che diceva: c’è la lingua dei minatori, quella dei meccanici, del pugilato, dei cacciatori, dei coltivatori di tabacco… Un incubo! Un libricino di poco più di 150 pagine, ma è come se ne avessi tradotte 400. Una fatica bestiale…
Il problema, però, una volta che sei approdata al significato, è anche renderlo in italiano. Perché al significato prima o poi ci arrivi. Ti aiuta l’autore, c’è il dizionario della lingua parlata, etc. Ma per l’italiano, chi ti aiuta?
Lì è come se avvenisse automaticamente. Non appena capisci, “sai” come tradurlo. Lo dico sempre agli studenti: se non capite, non riuscirete mai a renderlo bene in italiano, perché rimarrete troppo attaccati all’originale e non funziona, oppure inventate. Quelli bravi magari inventano, certo. Insomma, quello della comprensione è il passaggio cruciale. E nel momento stesso in cui capisco…
Nel momento in cui capisco, però, devo anche possedere la lingua per dire quello che ho capito. Se sono cose molto tecniche, o molto specifiche, come fai?
Per esempio, in Pancake c’è un racconto sulle macchine. E’ un meccanico che parla. Lì devo capire a tutti i costi quello che sta dicendo, poi vado a chiedere a chi se ne intende, rompo le scatole. E soprattutto chiedo che me lo dicano non come se fosse un libro stampato, ma come direbbero loro, parlando nella bottega, o con un amico. In quel caso ho consultato un meccanico di rara esperienza.
Però nel caso del dialogo, del linguaggio colloquiale, non si tratta di un discorso tecnico, che tu possa interpellare un esperto.
Vero. Ma lì è come se uno avesse una memoria storica. Io faccio spesso ricorso al mio lessico familiare, ai dialetti della mia famiglia. Mi ha sempre aiutato tantissimo.
Però hai detto che non puoi usare il dialetto.
No. Il dialetto vero e proprio, no. Ma posso prenderne a prestito l’impianto generale, le fratture, le costruzioni improprie… Magari riesco a invertire l’ordine di un fattore, oppure mi accorgo che se sposto il fulcro della frase da una parte, invece che da un’altra, la frase decolla. Sono cose che ho imparato anche grazie al dialetto. A casa, mia madre parla romano, mia nonna era napoletana. Mi sono rimaste dentro, quelle parlate. Una volta, a una presentazione milanese di Dieci dicembre di Saunders a cui io non sono andata, la persona che presentava ha citato una parola che gli era piaciuta moltissimo. C’è una bambina che deve restituire un fazzoletto imprestatole dalla maestra e dice al padre: «dobbiamo ricordarcelo, perché a casa nostra siamo un po’ scordarelli» (Well, Daddy, we are the careless kind). Mio fratello, che era presente, si è messo a ridere. E’ stato lui a raccontarmi l’episodio. Perché quella è una parola che fa parte del nostro lessico familiare. A casa nostra lo diciamo spesso, significa essere un po’ sbadati, un po’ distratti e superficiali. Ecco, cose del genere le uso, se vedo che funzionano. Non importa se non sono sul dizionario.
Certo, questo rende viva la lingua. Ma come la prendono i revisori?
In genere non ho trovato grandi difficoltà né con la redazione di minimum fax né con quella di Einaudi. Solo ultimamente mi è capitato che un collaboratore esterno alla casa editrice mi facesse una revisione di quelle dove poi devi rimettere tutto a posto. Perché se hai il parlato nel testo, bisogna fare attenzione. Io sto sempre ad ascoltare come parla la gente. Quando faccio la spesa, quando guardo la televisione, tutto fa brodo. E magari mi segno le cose. In fondo non smetto mai di lavorare, ma credo che la componente ossessiva sia una caratteristica di molti, se non di tutti i traduttori.
Sì, io credo che se non vai in quella direzione, non puoi tradurre testi del genere. Mica puoi usare la lingua standard. Devi per forza attingere altrove.
Magari con altri tipi di traduzioni è diverso. Io non ho mai tradotto classici né testi che avevano già una traduzione italiana.
In fondo coi classici devi fare lo stesso lavoro, però sul lessico della tradizione letteraria.
Ma a me, adesso, capitano sempre questi autori particolari. Sono sempre voci, raramente narrazioni in terza persona. Voci, alternanze di voci, voci incrociate. Ma non puoi fare ogni volta la stessa cosa, devi capire qual è la caratteristica di ogni voce e andarle dietro. Non è una cosa a cui pensi in astratto mentre stai lavorando. E’ quello che dicevo prima, a proposito dell’essere ventriloqui. Lo senti, lo capti e, detto brutalmente, gli fai il verso. Però, come dico sempre, lo senti perché hai un sacco di esperienza che hai accumulato lavorando. Non è che ci arrivi per magica ispirazione.
Mentre lavoravi all’ultimo Saunders, però, hai tradotto anche 4321 di Paul Auster. Sono molto diversi.
E’ stata una fatica improba. Quando da Einaudi mi hanno chiamato per Auster, e mi hanno detto che erano 900 pagine, avevo già l’impegno di Saunders. I tempi erano quelli che erano. Mi sono detta: come faccio, come faccio? Ci ho pensato due giorni, ho ipotizzato un piano di lavoro, sapendo che per oltre dieci mesi non avrei potuto fare altro. E così è stato. Ma per fortuna Auster non è difficile alla maniera di Saunders. Lì la difficoltà erano i periodi che vanno avanti per mezza pagina, gli incisi, le ripetizioni e tutto deve filare, tutta l’architettura della pagina deve reggere, pena il disastro, il crollo totale. C’erano frasi a specchio, ripetizioni ritmate, giochi di parole, un’infinità di giochi di parole. Mi è toccato fare le capriole. C’è per esempio un racconto nel racconto, che parla di due scarpe personificate, ed è tutto un gioco di parole… E poi ci sono i riferimenti alla storia, la letteratura, poesie in francese, sequenze di film da individuare e riprodurre in italiano, l’arte, di tutto… una specie di enciclopedia.
Il piano di lavoro voleva dire tot pagine al giorno?
Sì. Ma per fortuna con Auster andavo veloce, mi trovavo a mio agio, benché fosse il primo libro di quell’autore che traducevo. Ovviamente mi capitava di bloccarmi, però almeno capivo tutto. La difficoltà era tenere quello stile avvolgente, che ti risucchia in quattro storie uguali e diverse.
Strumenti per la lingua italiana li usi?
I dizionari, l’analogico. Ma uso molto la lingua viva. Provo delle frasi che mi vengono in mente. Provo le battute ad alta voce. Vedo se ci sono delle occorrenze, per trovare “conforto”. E poi leggo moltissimo gli autori contemporanei italiani. Seguo le novità. Perché lì magari trovo lo stile che mi serve.
Ed è utile?
Per me è indispensabile. Io non mi sento mai sicura. Ho sempre il dubbio che esista un modo migliore di dire una cosa, e quindi più accumulo informazioni meglio mi sento. A volte cerco di immaginare quale autore italiano mi potrebbe aiutare a tradurre il testo che ho davanti. E’ un po’ utilitaristico, come approccio, ma per me funziona. Apro anche una pagina a caso, leggo qualche riga, spero che mi faccia venire un’idea. Io non penso di avere la scienza infusa, quindi quello che mi serve devo andare a cercarmelo. E soprattutto penso che bisogna alimentarle le cose, se no muoiono. Vado a pescare dove mi conviene. Anche tra gli autori che non mi entusiasmano, se possono servire.
Quindi ti prendi qualche libertà?
Per forza. Sono costretta a essere libera. Del resto, sono due mondi linguistici oggettivamente diversi, il mondo anglosassone e il nostro. Non è che coincidono. Certo ci sono i momenti felici in cui questa coincidenza si realizza, ed è vero che ormai la contemporaneità spinge in questo senso. Ma come posso pretendere di stare nella morfologia della frase inglese, quando in italiano… come dire… c’è una sorgente diversa? Perché quando c’è un modo di dirlo bene in italiano, magari basta spostare una parolina e si sprigiona tutta l’energia della frase. Non voglio che le frasi sembrino blocchi di cemento…
Già. Una forma di aderenza che uccide il testo.
Può capitare a un traduttore giovane, che ha poca esperienza. Perché il mestiere vorrà pure dire qualcosa. Si impara continuamente. Io ho sempre la sensazione di non saperne abbastanza, di non essere ancora abbastanza capace. E immagino che se rileggessi le mie prime traduzioni mi verrebbero i capelli dritti. All’inizio stavo anch’io molto più attaccata al testo, era più tranquillizzante, stavo sempre a badare alla singola parolina… Poi vai a rileggere e, orrore! Non funziona per niente. E’ un lavoro che faccio sempre anche con gli studenti: torniamo indietro, cerchiamo di vedere se è in armonia con il resto della pagina, con quello che c’è prima e con quello che viene dopo. Quando traduco, a volte provo a dire la frase a voce alta. La leggo in inglese, la dico a voce alta in italiano, la scrivo e vedo se funziona. Certo, può capitarmi di distanziarmi troppo dal testo. Ho il viziaccio di complicare, di staccarmi troppo, ma siccome lo so, prendo e torno indietro. Va molto bene quando le revisioni me le fa Norman Gobetti, perché quando sono troppo libera, lui mi riporta all’ordine. Insomma, bisogna trovare un po’ una via di mezzo.
Sì, un buon revisore è in grado di valutare davvero una traduzione. Ma non è sempre così, all’interno delle case editrici. Ma stavi dicendo che all’inizio lavoravi per «Stile Libero». Adesso però sei passata anche alle altre collane di Einaudi.
Sì. Adesso raccolgo un po’ i frutti del lavoro passato. Posso dire che nel mio caso la fortuna non c’entra niente, tutto quello che ho realizzato nel bene e nel male viene esclusivamente dal lavoro e dall’esperienza che ho accumulato negli anni. Ho tradotto parecchi libri ormai, sono piaciuti, quindi bene così.
Dato che siamo partiti da Lincoln nel Bardo, cioè dal punto dove sei oggi, andiamo a ritroso. Torniamo agli inizi. Come hai cominciato?
Ho fatto la scuola di Magda Olivetti, a Torino. Ero già grande. Avevo trent’anni, e avevo un lavoro. Sono laureata in lingue e letterature straniere, letteratura americana in verità, e per un tempo brevissimo ho coltivato l’illusione di poter restare a lavorare in ambito universitario. Ma quando ho capito come andavano le cose, e a casa mia non è che potessero mantenermi all’infinito, ho preso e mi sono trovata un lavoro. Ho lavorato per diverse aziende, per esempio per un’agenzia svizzera che curava i diritti commerciali di tutti gli eventi sportivi più importanti, i mondiali di calcio, di atletica, le Olimpiadi. Là giravano i miliardi. Sono arrivata in fretta a livelli piuttosto alti. Guadagnavo bene. Ma soffrivo. E poi mi piaceva leggere e mi piaceva molto tradurre. Siccome sapevo l’inglese, capitava che mi facessero tradurre, che dovessi occuparmi della rassegna stampa in inglese. Non è che avessi il sacro fuoco della letteratura, ma non sopportavo la vita in ufficio, volevo autonomia, spazi da gestire da sola. Ho scoperto che c’era la scuola di Magda Olivetti leggendo il Venerdì di «Repubblica». Allora le ho scritto. Non ricordo come ho trovato il suo indirizzo. Lei mi ha risposto subito, mi ha spiegato che c’erano delle selezioni. Sono andata a Torino a farle. Ricordo che c’erano Ottavio Fatica, Susanna Basso e Rossella Bernascone che leggevano le prove. Chissà che schifezza avrò fatto. Avevo anche comperato dei libri sulla traduzione, tanto per capire un po’ da che parte cominciare. Non che avessi come obiettivo di tradurre Joyce o i grandi capolavori della letteratura, volevo tradurre libri (e infatti ho tradotto anche gli Harmony e li ringrazio), ma ora che ci penso è stato perché all’inizio pensavo che per una come me, che non aveva nessun aggancio in ambito editoriale, riuscire a entrare in quella scuola fosse l’unica via d’accesso.
Ti hanno presa. E dopo che è successo?
E’ successo che ero molto motivata. Avevo lasciato un lavoro ben pagato e non potevo certo gingillarmi o fallire. Lavoravo tantissimo e quando mi illudevo di aver fatto una bella traduzione arrivava Ottavio Fatica e me la distruggeva. Non ero particolarmente dotata né la prima della classe. Sì, ero un po’ più portata per i testi moderni, colloquiali, ma non è che brillassi… Forse brillavo per determinazione, questo sì. E poi ero contenta, mi sentivo privilegiata. Invece di essere costretta a osservare orari da ufficio in compagnia di persone che non stimavo o non mi interessavano, andavo a lezione da Fatica, Ceronetti, Magrelli… Finita la scuola, Fatica mi ha fatto tradurre il primo libro, i Marginalia di Edgar Allan Poe. Subito dopo ho tradotto Anthony Trollope per la casa editrice Sellerio. Due autori dell’Ottocento. Ma poi prendevo quello che arrivava. E’ vero, certi testi mi sono più congeniali, ma mi sono più congeniali perché ne ho tradotti tanti. “Congeniale” è frutto del lavoro. Se avessi fatto solo l’Ottocento, probabilmente sarei diventata esperta nel tradurre classici. Conta anche la formazione che hai. Io mi trovo bene con i testi americani, conosco meglio la cultura da cui escono. Quella inglese invece non mi entusiasma. Ma comunque si impara lavorando. Anche per questo non mi sento di essere normativa in fatto di traduzione. Non si possono dare delle ricette, perché ogni scrittore è un mondo a sé. Un mondo a sé che appartiene a un altro mondo rispetto al tuo. E tu, quando traduci, ti devi sintonizzare su livelli diversi. Livelli che cambiano sempre. L’unica cosa è sviluppare le antenne. E quelle le sviluppi solo lavorando. Lavorando moltissimo. Devi imparare a sentire la singolarità dello scrittore che hai davanti. Singolarità vuol dire che ognuno è diverso dall’altro. E che non c’è una ricetta che vale per tutti.
Forse questo vale a maggior ragione per gli autori nuovi, i contemporanei…
Sì, perché spesso hai per le mani autori sconosciuti, magari al loro primo libro. Lì, quello che ti hanno insegnato vale fino a un certo punto. Contano più le eccezioni che la regola. Bisogna essere molto duttili, elastici. In pratica devi essere in grado di costruire da solo l’apparato critico che ti serve per affrontare un autore. Perché non c’è niente di codificato, nessuno ha scritto ancora niente. L’unica cosa di cui disponi è il suo stile: devi individuare e mettere a fuoco le caratteristiche di quello stile, e puoi riuscirci grazie alle capacità e alle competenze che hai sviluppato negli anni e affinato con l’esperienza. Purtroppo però, quello che vale per un autore, magari non vale per l’altro. Non esiste un modo astratto di tradurre. Non ci sono regole applicabili sempre e comunque. Quanto meno, io non mi sento di darne. Soprattutto quando lavori sulla contemporaneità. Perché se per esempio lavori su Dickens, c’è tutta una bibliografia, ci sono le traduzioni precedenti, magari non le vai a guardare, ma comunque esistono, ed è un po’ come se ti avessero già indicato la strada. Ma quando devi affrontare un esordiente, una cosiddetta scommessa editoriale, di fatto ti ritrovi nella giungla. La strada devi aprirtela da sola, con il machete.