Il vecchio lettore
Una delle più grottesche scimmiottature a ricalco dell’americano che ormai dilaga, divenendo irreparabile, è l’abolizione dell’articolo determinativo davanti alle denominazioni delle imprese e delle fondazioni, come se si trattasse di nomi di persona.
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Il problema della traduzione è, per parafrasare Clemenceau, cosa troppo seria per lasciarlo gestire solo ai linguisti e ai critici letterari. Se si accoglie l’idea che di traduzione vive ogni civiltà, ritenere che si tratti di un’operazione specialistica, risolvibile nell’ambito ristretto delle competenze puramente linguistiche e/o letterarie, è un’illusione che porta inevitabilmente, a prescindere dai frutti “tecnici”, all’incomprensione, alla sostanziale non-traduzione. Ma, innanzitutto, è vero, quel postulato? Lo si può provare a contrario: che ne sarebbe di tutta la civiltà latina, se non ci si fosse messi di buzzo buono a tradurre dal greco? Sono pensabili la filosofia e la scienza moderne senza le traduzioni arabe di autori greci e latine di autori arabi nel Medioevo? Per venire a noi: esisterebbero l’economia, la sociologia, la psicologia ecc. moderne senza traduzioni? Tema vastissimo, che occorrerebbe scavare in profondità. Ma per il momento, fermiamoci qui. Il postulato appare avere fondamento. Sicché l’opera di traduzione mette in movimento, sia a monte sia nel suo corso che a valle, conoscenze e temi praticamente in ogni direzione dello scibile ovvero, per dir meglio, in ogni ambito della vita umana.
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Si incontrano talvolta, fra i traduttori del passato, figure straordinarie. Una di queste è Giovanni La Cecilia (Napoli 1801-1880). Giuseppe Monsagrati ne ha scritto il ritratto spassionato per il Dizionario biografico degli italiani della Fondazione Treccani (vol. LXIII, 2004): carbonaro, mazziniano, perseguitato, a più riprese esule in Francia, partecipò a diverse sommosse e congiure negli anni trenta, nel 1848, nel 1860, a Napoli, a Roma, a Livorno, in Corsica e nella stessa Francia continentale, guadagnandosi simpatie e antipatie, entusiasmi e diffidenze, alte protezioni e forti sospetti di doppiezza. Poligrafo, collaborò a diversi giornali, taluni fondati e diretti da lui stesso, scrisse romanzi, pamphlet polemici, saggi storici strampalati e non documentati, memorie preziose sia per quanto di vero sia per quanto di falso vi si trova. Insomma un personaggio rocambolesco che sembra uscito dalla penna di Stendhal. Ciò che non compare nella biografia stesa da Monsagrati è che La Cecilia è stato anche traduttore. Gli editori Pomba di Torino, dove si trovò esule e male in arnese nel periodo cavouriano, avevano da poco costituito la UTET quando gli affidarono la «versione italiana» del Teatro scelto spagnuolo antico e moderno. Raccolta dei migliori drammi, commedie e tragedie, «con discorsi preliminari di Angelo Brofferio, Stefano Arago e Leandro Moratin», in otto volumi. Non c’è bisogno di verificare sui testi per affermare che la traduzione fu condotta certamente su quelle francesi, data l’accertata ignoranza del castigliano da parte dell’avventuroso napoletano. Il quale dal francese aveva già tradotto nel 1830, durante il suo primo esilio livornese, per Bertani, Antonelli & C., la Vie politique et militaire de Napoléon, racontée par lui-même au tribunal de César, d’Alexandre et de Frédéric, del generale Antoine-Henri de Jomini, uscita appena tre anni prima, nella Vita politica e militare di Napoleone narrata da lui medesimo al tribunale di Cesare, di Alessandro, e di Federico II, in dodici volumetti. E sarebbe tornato al mestiere di traduttore ancora nelle angustie torinesi, dando la versione della solleticante Histoire de la prostitution chez tous les peuples du monde depuis l’antiquité jusqu’à nos jours, pubblicata in sei volumi tra il 1851 e il 1854 presso l’editore Seré di Parigi sotto lo pseudonimo di Pierre Dufour e universalmente attribuita al poligrafo Paul Lacroix. La «prima versione italiana di Giovanni La Cecilia» della Storia della prostituzione di tutti i popoli del mondo dall’antichità la più remota sino ai tempi moderni fu pubblicata in otto volumi, «con note ed appendici sulla corruzione, causa principale della prostituzione», appunto a Torino da Perrin nel 1860, quando il suo autore correva a raggiungere i Mille per rientrare definitivamente nella città natale.
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Nelle vecchie facoltà umanistiche tutto era studiato in forma storica, sub specie historiae: oltre alla storia stessa, ovviamente, la filosofia, la lingua, la letteratura, il diritto stesso. E la storia compariva spesso anche in altre facoltà, sotto forma di storia della scienza o delle singole scienze. Era l’impianto idealistico, che finalmente è stato cancellato. Ma con l’acqua sporca dello storicismo s’è buttato via il bambino della comprensione storica. Con l’attuale dipartimentazione per ambiti specialistici modellati sulle professioni – esistenti o da inventare – è stata cancellata anche la storia, ridotta al rango di specialità. A servire quale professione? Ovviamente quella di insegnante di storia (anche se è a prima vista sorprendente il numero di buoni laureati in filosofia o storia che finiscono a fare i dirigenti d’azienda) o, al massimo, di scrittore (writer, beninteso) di testi storici di intrattenimento per i media o il web (possibilmente inclinanti verso il fantasy). Così la disciplina si autoperpetua sterilmente, rivelando l’inutilità pratica della storia. Questo esito vale anche per altre discipline umanistiche, tutte ugualmente inutili, eccezion fatta per le lingue e loro dintorni, così utili in un’economia globalizzata. Ma nel caso della storia esso è più clamoroso se si pensa al suo passato ruolo pervasivo. Che una sua ragion d’essere, a pensar bene, l’aveva, in quanto forniva la struttura in cui incardinare le singole nozioni specialistiche, dando loro il contesto in cui assumere senso, ossia razionalità. Era utile ciò? Dipende dai punti di vista. Dal punto di vista professionale, ossia al servizio dello sviluppo economico e dei consumi, apparentemente no. Dal punto di vista latamente umano, molto. Forniva le capacità critiche. Ormai è superata da gran tempo la nozione della historia magistra vitae, della storia maestra di vita. La storia non insegna un bel nulla. La storia pone l’uomo dinanzi alla complessità del reale, costringendolo a interrogarsi, a porsi domande, e tra queste la domanda principale: perché? Qui stava la sua utilità.
Che sia questo il motivo della sua cancellazione?
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A difesa della riduzione dell’istruzione universitaria a istruzione professionale sta il suo (apparente) intento democratico, il suo ampliamento cioè ad aree sociali storicamente (oh, guarda che termine vien fatto di usare!) in passato escluse a lungo dal raggiungimento della laurea e quindi dalle posizioni dirigenti e più remunerative. Di fatto questa massificazione non fa che spostare il problema: temporalmente in avanti, rimandando alle soglie della trentina il raggiungimento di una preparazione comparabile a quella che i beati pochi raggiungevano con laurea quadriennale a ventidue o ventitré anni; socialmente a un’area ancora più ristretta, quella di coloro che possono permettersi di raggiungere l’eccellenza mediante formazione post-laurea in ambiti formativi – spesso all’estero – i cui costi superano largamente, non semplicemente le possibilità, ma lo stesso reddito medio di una famiglia normale. Non si raggiungono posizioni lavorative e sociali di rilievo se non in possesso di Ph.D., e di diversi master nelle Scuole di estrema eccellenza americane, inglesi o francesi. Con una discriminazione sociale di una ferocia classista una volta impensabile. A che serve accrescere il numero dei laureati venticinquenni se la loro preparazione è uguale, e spesso inferiore, a quella dei diplomati diciottenni di cinquant’anni fa?
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Questa rivista ha affrontato di petto, negli ultimi numeri, la questione dell’italiano delle traduzioni. Ma al vecchio lettore pare che sia in atto un’attenzione eccessivamente concentrata sul lessico e sulle forme grammaticali, soprattutto verbali. Mentre probabilmente occorrerebbe cercare di individuare ciò che è strutturalmente caratteristico della lingua, per vedere quali modificazioni subisce. Il vecchio lettore ha a disposizione solo dei ferri vecchi ancor più di lui e molto arrugginiti e quindi va perdonato se, per esemplificare, ricorrerà a una terminologia approssimativa, ma, con la buona volontà del lettore, cercherà di farsi intendere ugualmente.
Una caratteristica dell’italiano – e delle lingue romanze in genere, ma da noi di più ampio uso – sono le particelle pronominali clitiche, inesistenti in inglese (obbligatoria lingua “altra” di riferimento): mi, ti, ci, vi, gli, le, lo, la, ma soprattutto ne. Che ne – appunto – è di loro? Altra caratteristica, che distingue l’italiano perfino dal latino, è, in certi casi, l’uso del dativo di commodo in luogo del possessivo: non, quindi, «dal suo polso pendeva una catenella», ma «dal polso le pendeva una catenella». «Mille torbidi pensieri mi s’aggiran per la testa», canta Leporello. E Zerlina: «Mi trema un poco il cor». In generale l’italiano ricorre ai possessivi solo se strettamente necessario. Ancora: il singolare invece del plurale pur se riferito a oggetti plurali; quante volte ci venne ripetuto, tra i primi rudimenti della traduzione dal latino, che non andava detto che «i soldati estrassero le spade», ma «i soldati estrassero la spada»? E a proposito di catenelle, una delle più formidabili caratteristiche proprie dell’italiano sono le alterazioni: accrescitivi, diminutivi, peggiorativi, migliorativi, vezzeggiativi e via dicendo. Non c’è altra lingua che ne abbia tanta abbondanza e ricchezza. Ognuna è portatrice di una pregnanza semantica in grado di rimpiazzare elegantemente giri di parole e immagini di altre lingue che, tradotti alla lettera, al nostro orecchio suonano goffi. Si pensi alle alterazioni di «casa», ognuna delle quali con un senso preciso a seconda del contesto: casina, casuccia, casetta, casettina, casuccia, casuzza, casettuccia, casona, casaccia, casupola, e anche – ma sì – casotto, casino…: «Quel casinetto è mio…», canta don Giovanni.
Poi c’è la questione dell’armonia. La frase italiana è modulata in forma prosodica, ricorrendo spontaneamente all’articolazione metrica, il cui strumento principale è l’endecasillabo. Il lento abbandono di questa musica si connette al progressivo trionfo della paratassi, su cui il vecchio lettore preferisce qui chiudere, prima di abbandonarsi a insopportabili lamentazioni.
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Si dice il peccato, non il peccatore. Non si dica quindi né il libro tradotto né il nome dell’autore/trice della traduzione dall’inglese in cui il vecchio lettore si è imbattuto in un personaggio che, rivolgendosi a un re, lo apostrofa con «Sua Maestà». Costui/ei non deve aver mai letto nessun romanzo ottocentesco (in traduzione, ovviamente) o, se l’ha letto trovandovi «Vostra Maestà», avrà pensato che si trattasse di una traduzione sbagliata in quanto si sa che, in contesto di cortesia, you (vous nel caso del francese) e aggettivi e pronomi derivati si traducono con «Lei» (in realtà Ella, ormai desueto) e derivati. Orbene, al fondo di questo abbaglio sta un equivoco al quale – non paia strano – hanno fortemente contribuito il fascismo, con il suo divieto di usare il Lei, e l’antifascismo con la sua automatica e implicita messa al bando del «voi» per ritorsione. L’equivoco consiste nell’ignoranza del fatto che in realtà Lei e «voi» convivono, anzi coincidono: o, meglio ancora, l’uno discende dall’altro. Il Lei, lungi dall’essere un calco “spagnolesco” come pretendeva il fascismo, deriva infatti dall’adozione, nei rapporti formali in tempi di gerarchie sociali pronunciate (quale proprio il fascismo era in sommo grado), delle espressioni «Vostra Eccellenza», «Vostra Signoria», «Vostra Altezza», «Vostra Maestà» appunto, e simili. Cioè dal pervasivo uso del Voi. Se si imposta un discorso sull’appellativo «Vostra Maestà» o «Vostra Eccellenza» è inevitabile che tutti i verbi di cui questo appellativo è soggetto vanno coniugati alla terza persona singolare e gli aggettivi e i pronomi connessi all’interlocutore declinati al femminile. Questa impostazione ha quindi assunto vita propria estendendosi anche all’interlocuzione sociale tra pari grado. Ma quell’interlocutore resta sempre un «Voi». E «Sua Maestà» resta sempre una terza persona, ossia il re (o la regina) al quale (o alla quale) ci si riferisce parlando con altri interlocutori, non con lui (o lei). Il quale lui, o la quale lei, rivolgendosi con cortesia a un suo suddito, usava comunque il «voi», e il Lei “di risulta” solo quando riteneva opportuno rispettare l’appellativo onorifico di pertinenza dell’interlocutore, «Vostra Eccellenza» o «Vostra Santità» che fosse.
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Si dice: nell’Italia settentrionale il passato remoto è scomparso da tempo nell’uso parlato, rimpiazzato dal passato prossimo, mentre sopravvive, ma in regresso, nel Meridione. Poiché le case editrici sono prevalentemente settentrionali e così i loro redattori, lo stesso processo sta subendo la lingua scritta (si pensi all’ormai avvenuta sostituzione dell’elegante «acquaio» col banale «lavello», che fa sentire in colpa di flagrante regionalismo toscani e altri centro-meridionali che si azzardassero a usare il primo termine, vigorosamente attestato, invece, in tutta la nostra tradizione letteraria), compresi i tempi verbali.
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Chi era A. Costa? L’editore PGreco di Milano ha recentemente ripubblicato, in quella che una volta si sarebbe chiamata una ristampa anastatica, la traduzione del romanzo del 1935 di Nikolaj Ostrovskij Kak zakaljalas´ stal´ (Come fu temprato l’acciaio), l’opera paradigmatica dell’epica sovietica in tempi di stalinismo. Invano si cerca il nome del traduttore (d’altronde manca anche qualsiasi indicazione circa l’autore della bella copertina). L’editore se la cava con il consueto annuncio, nel colophon, della sua disponibilità a onorare l’eventuale debito con gli aventi diritto. La traduzione italiana comparve anonima per la prima volta nel 1945, a Milano appena liberata, presso la casa editrice La nuova biblioteca (emanazione del Partito comunista poi confluita nelle Edizioni di cultura sociale di Roma), e fu ripubblicata da Mondadori nel 1949, questa volta col nome – parziale – del traduttore o traduttrice, appunto A. Costa, di cui però non risultano nel SBN altre traduzioni né altre opere. Il nome scomparve poi quando gli zelanti maoisti delle edizioni Servire il popolo ripubblicarono il romanzo nel 1971 nella loro «Collana di letteratura comunista». Chi era A. Costa?
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Come si arriva a tradurre per una grande casa editrice? Al/la giovane aspirante vengono di solito suggeriti vari modi, il principale dei quali (escluso il puro e semplice invio di curriculum, del tutto inutile) è quello di specializzarsi in un particolare tipo di letteratura o di saggistica e suggerire titoli inediti. Ma il vecchio lettore sa che ce n’è uno migliore, avendo beninteso le qualità necessarie: trovarsi a essere vicini d’ombrellone del grande editore.