Ritorno al paese dei mostri selvaggi

di Lisa Topi

autrice di Maurice Sendak, Nel paese dei mostri selvaggi, Milano, Adelphi, 2018 (da Where the Wild Things Are, New York, Harper & Row, 1963)

Appena cominciato a tradurre Where the Wild Things Are di Maurice Sendak, un coro indignato che chiedeva indietro la «ridda selvaggia» ha preso a ronzarmi in testa. «Attacchiamo la ridda selvaggia!» è la battuta caratterizzante del protagonista di Where the Wild Things Are nella traduzione di Antonio Porta, edito già da Emme Edizioni nel 1981 e da Babalibri dal 1999. Generazioni di lettori hanno conosciuto il libro fondante il canone della letteratura per ragazzi attraverso la traduzione di Porta, di cui quella «ridda» condensa lo spirito colto e letterario e al cui cospetto la paura può addirittura produrre delle voci. E tuttavia, traspare da quella traduzione anche un accento didattico: nello stile indiretto, nelle diluizioni, nei diminutivi, nell’andamento prosodico. Così, a oltre cinquant’anni dalla pubblicazione e all’ombra di un precedente di tale levatura, l’unico cammino da seguire mi è parso riportarne a galla la forza nuda e viva. Il principale criterio adottato in questa direzione è stato la sintesi, facendo fede all’azione di limatura e semplificazione che Sendak operò sul testo, contro ogni distrazione che rischiava di sabotare, dice Selma G. Lanes, la «serietà della sua immaginazione».

Una sera Max finisce a letto senza cena e lascia la sua camera per un viaggio misterioso. Dopo una danza furiosa con i mostri selvaggi, decide di tornare a casa dove il tempo sembra non essere trascorso, mentre qualcosa è avvenuto: nel mondo, nella psiche o nella fantasia. Ora, perché la potenza dell’enigma prevalesse sulla tenerezza verso il personaggio, l’imperativo è stato resistere alla tentazione di aggiungere, attenuare, vezzeggiare, infantilizzare. Per conservare l’ambiguità del testo, ho riprodotto fedelmente le reti semantiche come la coppia amare-mangiare, anche a scapito di sinonimi calzanti. Ho spinto la struttura sintattica verso la sottrazione, preferendo la paratassi alla subordinazione e isolando le parole chiave e le successioni a climax, punti luce della storia. Sul piano fonetico, ho accentuato la durezza e la vibrazione consonantica, strada già marcata dalla traduzione di Porta da cui si distanzia, invece, l’architettura rassomigliante più al verso libero che alla filastrocca.

Tradurre un libro illustrato non può prescindere dalla lettura a voce alta e dalla relazione complementare, non speculare, tra linguaggio verbale e linguaggio iconico. In Where the Wild Things Are il punto di massima tensione coincide con le pagine mute al centro del libro, dove il paese dei mostri selvaggi, che va guadagnando spazio a ogni pagina, invade completamente la scena. Una lingua il più possibile essenziale e ariosa favorisce questo passaggio come un’azione drammatica diretta e incalzante, in cui la «ridda» diventa «finimondo», espressione di un anarchico impeto distruttivo ma anche del tema che dà titolo a tutta la trilogia (Where the Wild Things Are, In the Night Kitchen, Outside Over There), il motivo di un altrove in cui poter domare i mostri selvaggi e da cui tornare, dice ancora Lanes, «stanchi, affamati, in pace con se stessi».

Ho scelto di mantenere il titolo Nel paese dei mostri selvaggi perché nessuna delle alternative considerate si avvicinava all’ingannevole neutralità di things tanto da sacrificare la soluzione di Porta, che fa presa immediata nella memoria dei lettori. Isabelle Nières-Chevrel ha notato che quasi tutte le traduzioni in lingue romanze impiegano la parola mostro, mentre quelle germaniche ruotano intorno alla sfera semantica di wild, selvaggio. E, in tema di analisi comparata, confesso il prestito di un avverbio dalla traduzione francese di Bernard Noël (Parigi, L’école des loisirs, 1973), che è terribilmente in tono con lo spirito di questa nuova edizione.