di Laura Bortot
La mia “storia” inizia con un dato concreto e in qualche modo bizzarro, capriccioso: la volontà irremovibile di non tradurre.
In effetti, se mi guardo indietro in cerca di episodi, incontri o esperienze che mi abbiano “avvicinata” all’idea e alla pratica della traduzione, mi imbatto in un ricordo del liceo. Al tempo vivevo a Trento, dove si studiava principalmente il tedesco come lingua straniera. In seconda liceo mi comprai un’antologia di poesie di Rilke in lingua originale. Ne rimasi incantata. A tal punto che, dopo aver letto la traduzione italiana (senza dubbio bella e filologicamente corretta), decisi, implacabile e severa come solo una quindicenne può essere, che non mi sarei mai dedicata alla traduzione letteraria, perché la poesia era di fatto intraducibile, anzi in realtà lo era qualsiasi testo letterario espressione di una voce autoriale. Come spesso accade, dietro una decisione categorica si nasconde una grande passione da nutrire e salvaguardare: nel mio caso si trattava di un amore incondizionato per la lingua tedesca, per la sua meravigliosa densità, per quella consistenza infrangibile che aveva un sapore antico. Amavo, e amo, la trasparenza morfologica delle sue strutture e allo stesso tempo l’impatto monocromatico dei suoi tratti semantici. Solo a distanza di tempo ho capito quanto il mio temperamento svagato e disordinato si sentisse attratto da una tale capacità di sintesi e di ordinata completezza d’informazione. Soffrivo invece inevitabilmente le architetture sintattiche conchiuse e sigillate del tedesco, che non lasciavano spiragli o “maglie rotte” in cui fosse possibile intrufolare una fantasia, un’arguzia o un’emozione disobbediente, inaspettata.
Per alcuni anni continuai a dedicarmi alla lingua tedesca con lo sguardo e la disposizione d’animo di chi vuole intridersi e impadronirsi di un mondo “altro”, posizionandosi inevitabilmente dentro quel mondo, quindi radicandosi di fatto al di qua del ponte.
Finché al godimento estetico non si affiancò la passione ermeneutica, quel bisogno di esplorare gli anfratti di un pensiero o di un’emozione attraverso un processo interpretativo, di capire in che modo un autore pieghi, modelli e componga la sua lingua per esprimere se stesso, e in che modo poi si ribaltino i piani e la sua voce diventi a sua volta preda della lingua che, sul filo di associazioni mentali e sonore, costruisce in autonomia un proprio itinerario. E allora cominciai a spiare dietro la trasparenza morfologica delle impalcature testuali, a scomporre, disassemblare, isolare gli indicatori semantici, a osservare attentamente quella tessitura linguistica che aveva un suo dritto e un suo rovescio, e se il dritto era di una bellezza disarmante, il rovescio catturava tutto il mio interesse e la mia curiosità intellettuale. Si trattava di allentare con cura millimetrica le maglie che legavano parole e strutture, di cogliere il ritmo del testo registrandone la geometria, e il respiro creato dalla punteggiatura, di innamorarsi di una logica nuova, diversa, serrata, che tuttavia restituiva un’intensa verità compositiva.
Vibravano tutte le corde: quelle del cuore, dell’intelletto, della vista, dell’udito, del tatto, ma anche del gusto e dell’olfatto. A quel punto era inevitabile sentire il bisogno di “gettare un ponte”, di sporgersi verso l’altra sponda, quella della propria lingua e della propria cultura, anche solo per dare un “luogo” al testo originale tedesco in una dimensione linguistica alternativa. In ultima analisi la grande sfida, che poi nel traduttore letterario diventa una necessità interiore se non addirittura una cifra esistenziale, era dilatare allo spasimo la “tensione” del testo originale, su tutti i fronti, così da far saltare “le leggi della fisica” e trovare lo slancio per articolare e modulare voci tedesche in lingua italiana.
Qui, nel limbo in cui si trova a operare il traduttore, sul ponte traballante che unisce le sponde di due culture e due lingue diverse, entrano o tornano in gioco stimoli e suggestioni di varia natura. I cinque sensi in primo luogo: il traduttore guarda il testo, i suoi occhi osservano la trama del tessuto, la riconoscono o la smascherano, e poi cercano nella propria lingua nuove combinazioni, nuove morfologie, nuove grafie semantiche; il traduttore ascolta il testo, lo legge a voce alta, ne coglie l’eco, il rintocco, dentro di sé e nella stanza in cui lavora, e poi ricodifica suoni e modulazioni, cerca nella sua lingua melodie acute, sommesse o stridenti, scricchiolii, scrosci, schianti o folate di vento e sussurri; il traduttore tocca l’intrico delle maglie del testo, sente al tatto il materiale più o meno ruvido, le nodosità, la fatica compositiva o l’agilità del rovescio, e poi smonta, rimonta, allenta, sposta, cuce e ricuce, rammenda e nasconde; il traduttore percepisce il gusto del testo, ma anche il retrogusto, la traccia che lascia dietro di sé, le sbavature, i residui, ne avverte l’odore, registra la sensazione olfattiva che ogni testo inevitabilmente porta con sé, quel patrimonio culturale che fa da substrato, da humus a qualsiasi poetica individuale o collettiva, e poi cerca il modo per riprodurre in laboratorio le combinazioni chimiche che ha individuato, perché il testo italiano produca a sua volta una scia fedele. Nel turbine dei cinque sensi il traduttore letterario cerca una sua stabilità, un equilibrio tra cuore e cervello, tra intuizione, percezione, tensione emotiva e analisi, metodo, rigore, operatività artigianale. E il punto di equilibrio è la doppia Sehnsucht che lo anima, il doppio struggimento nei confronti del testo originale e del testo tradotto, lo spasimo e la ricerca quasi ossessiva, maniacale della soluzione traduttiva, di un respiro e di un ritmo che possono solo essere anelati, sospirati, vagheggiati, perché nascono da una nostalgia incolmabile e inappagabile del testo originale, la cui percezione e interpretazione possono essere a loro volta solo anelate, sospirate e vagheggiate. Una posizione privilegiata, quella del traduttore, in bilico sul ponte della mediazione e in costante tensione verso un oggetto del desiderio che è contemporaneamente alle sue spalle e davanti a sé. È la posizione, e il ruolo, di chi non si sente mai del tutto pacificato, di chi fa dell’inquietudine una risorsa, di chi si arma di tutti i possibili strumenti metodologici che rispondano all’idea di rigore, di chi costruisce sinapsi culturali consapevole del vuoto, del rischio, delle perdite necessarie, ma anche della bellezza e dell’incanto di nuove “tessiture”, di itinerari inediti che diventeranno solchi per nuove energie, visioni, prospettive.
L’altra sponda, quella della propria lingua e della propria cultura, è allo stesso modo una dimensione tutta da scoprire (o riscoprire) e su cui riversare particolare cura e passione. Anche qui, se mi guardo indietro, affiora un ricordo, questa volta dell’infanzia. Ho avuto, purtroppo solo per poco, un nonno “raccontatore di storie”, come direbbe Sepúlveda. I bambini crescono immersi nella lingua madre, ma un conto è parlare loro in chiave esclusivamente funzionale alle situazioni, adottando un profilo istintivo, spesso anche riduttivo, un conto è dedicare del tempo alla lingua, scegliere con attenzione le parole, pronunciarle bene, combinarle con fantasia, accompagnarle con gesti sentiti. In questo secondo caso la lingua smette di essere mero strumento di comunicazione contingente e acquisisce il fascino, la magia, l’aura di un modo di raccontare e condividere il proprio sguardo sul mondo. Mio nonno mi sedeva accanto e sfogliava pagine di libri per bambini, sceglieva, ripeteva, collegava le parole, le associava alle immagini; poi più avanti cominciò semplicemente a raccontare, senza supporto cartaceo, sull’onda dell’immaginazione. Il solo suono delle parole, o forse anche il tono con cui le pronunciava e il modo in cui le legava tra loro per articolare la storia mi facevano scivolare in uno stato di benessere, quasi di trance, rimanevo immobile ad ascoltarlo, letteralmente rapita. Quando poi compresi che i “segni neri” che accompagnavano le illustrazioni corrispondevano al racconto, il libro assunse per me un valore magico e il testo scritto divenne una sorta di enigma che prima o poi sarei riuscita a decifrare e che mi avrebbe dischiuso “luoghi” traboccanti di storie. In ultima analisi: la lingua italiana è stata per me fin dall’inizio una grande avventura, un incantesimo, un intreccio da sciogliere. Ascolto e curiosità sono i due ingredienti che l’hanno sempre nutrita. E sul filo della curiosità, appena sono stata in grado di combinare le sillabe mi sono buttata a capofitto nella lettura… e non ho più smesso! Sono seguite fasi di grande passione per generi letterari specifici: la fiaba, l’epica, il racconto, il romanzo. Da principio autori di diversa provenienza, poi perlopiù italiani. A un certo punto è arrivata la poesia, e con la poesia è tornata l’infanzia, l’incanto dell’ascolto di una lettura ad alta voce e la commozione di fronte a mosaici di parole che, all’improvviso e senza un motivo specifico, scatenavano emozioni, brividi, moti interiori. Cito un ultimo ingrediente che continua a essere il filo conduttore del mio rapporto con la lingua madre: lo stupore. La bellezza dell’italiano infondeva e ancora infonde in me meraviglia, è come contemplare un paesaggio che, inaspettatamente, ti toglie il fiato: quello che vedi ha una sua consistenza reale, una sua stabilità che risponde a misure e proporzioni conosciute, eppure bastano una luce diversa, un alito di vento, una visuale inedita per sorprenderti, affascinarti, stregarti. L’esperienza, credo condivisa da molti, che definisce la svolta – anche in questo caso prima di tutto interiore – da lettore “spensierato” a traduttore “in nuce” è l’appropriarsi di un nuovo sguardo sulla lingua madre. Quando quest’ultima smette di essere semplice patrimonio acquisito, e quindi in qualche modo ordinario, implicito, e diventa invece oggetto d’interesse, luogo di studio e di ricerca, eredità non solo da proteggere, ma anche da arricchire e potenziare, allora si verifica una sorta di straniamento felice, costruttivo. Il movimento è doppio: uno scavo verticale nella lingua, scendendo in profondità per disseppellire le stratificazioni storiche, il desueto, il dimenticato (molto spesso per pigrizia, involuzione, conformismo) e uno sconfinamento orizzontale per dare spazio a contaminazioni, suggestioni, incontri con altri sistemi comunicativi. Un traduttore, potenziale o effettivo, non potrà mai avere con la propria lingua una relazione statica, perché a monte si è attivato un processo di osmosi, di scambio e di arricchimento reciproco ormai vitali, ineluttabili.
Con questi presupposti nella mia “storia” la traduzione non poteva che divenire, appunto, cifra esistenziale, quasi una sorta di bioritmo, un modo di essere, di guardare la vita e le persone, di pensare la cultura tra passato e futuro con piedi e mani ben saldi nel presente, di utilizzare la lingua (che è solo uno dei possibili strumenti di comunicazione) con la cura, la prudenza, il rigore, il rispetto e la sensibilità imprescindibili in qualsiasi tipo di “relazione”. Un modo di ascoltare, con pazienza e dedizione, e di rispondere, o restituire, con la giusta misura, ma una misura piena e felice.