La recensione / 4 – Costruire ponti: la traduzione come strumento per una politica e poetica dell’ospitalità

di Giulia Grimoldi

A proposito di: Paola Zaccaria, La lingua che ospita. Poetiche politiche traduzioni, Milano, Meltemi, 2017, 289 pp., € 20,00

Border, confini, ibridazione, creolizzazione, impurità, complessità: come entrano nella riflessione sulla letteratura (e sulla traduzione) questi concetti legati al tema delle migrazioni cui assistiamo quotidianamente? Nella seconda edizione de La lingua che ospita, frutto di una rilettura che conferma la necessità di utilizzare la lente del border critical thinking come strumento chiave per interpretare gli attraversamenti planetari contemporanei e le nuove costruzioni di muri, Paola Zaccaria pluralizza le coordinate indicate nel sottotitolo, Poetiche, politiche, traduzioni, per restituire complessità a quelle pratiche che prendono avvio dalla condizione di soglia, dal confine spesso permeabile tra le culture. Il concetto di border indicizza la «consapevolezza che i confini comportano, nonostante tutto, un contatto tra popolazioni, sistemi conoscitivi e lingue che possono scontrarsi ma anche entrare in relazione, intrecciandosi attraverso pratiche e ambiti culturali, epistemici, linguistici, stilistici, psicologici, etnografici e molto altro» (pp. 13-14).

Attingendo alle tracce storiche della diaspora africana e a quelle dei chicanos messico-americani, da sempre plurilingue e resistenti alle richieste di assimilazione, acculturazione e integrazione dentro le strutture dell’egemonia culturale colonizzatrice, il saggio di Paola Zaccaria propone al lettore un itinerario attraverso testi eterodossi, disorganici e destabilizzanti rispetto a forme e generi letterari codificati, «testi che svelano nella scrittura stessa il conflitto, l’irrequietezza, l’assenza di certezze, il mutamento incessante» (p. 57).

Le esigenze da cui nasce questo saggio sono molteplici: mettere in relazione letteratura e politica; aprire il dialogo con il pensiero e le culture non eurocentriche che emergono con la decolonizzazione e il postcolonialismo; creare segni che parlino di frontiera, incontro, attraversamento; ripensare il lessico alla luce dell’attuale situazione geopolitica. In una parola, fare «prove tattiche di planetarietà» (p. 251), ovvero disaffiliarsi dal proprio paese, pensarsi nel pianeta. L’autrice mette alla prova il lettore adottando uno stile complesso, circolare, ricco di riferimenti colti che vanno da Gloria Anzaldúa a Toni Morrison, da Eduard Glissant a Virginia Woolf, da Gayatri Spivak a Jacques Derrida, da Homi Bhabha a Paul Gilroy, da Rosi Braidotti a Grace Paley, Assia Djebar, Fatema Mernissi, Edward Said, Judith Butler, Stuart Hall, Patrick Chamoiseau (per citarne solo alcuni), attraversando filosofia, semiotica, critica post e de-coloniale, studi di genere, border critical thinking, traduzione, poetica e politica. La scelta di Zaccaria ricade, non a caso, su scrittori e scrittrici che parlano dallo spazio creativo dell’utopianism, secondo la definizione di Darko Suvin, studioso di fantascienza: testi utopici che spingono lo sguardo avanti, che si muovono verso possibilità non sperimentate del reale, e che portano con loro significati ideologici, politici e filosofici, tesi a costruire modelli di vivibilità alternativi e nuovi orizzonti di senso. «M’interessa guardare a quei testi che non nascono con l’intento di creare utopie consapevoli, ma che in quanto propongono visioni alternative […] si presentano come utopie aperte e dinamiche» (p. 72).

Al centro di questa ricerca si situa la poetica della scrittrice, filosofa, attivista sociale e mestiza Gloria Anzaldúa, il cui libro-manifesto, Borderlands/La Frontera, (Aunt Lute Books; 1987), è stato tradotto in italiano dalla stessa Zaccaria con il titolo Terre di confine/La Frontera (Palomar; 2000). In particolare, nella parola nepantla – che nell’idioma náhuatl significa tierra entre medio e che nella poetica di Anzaldúa indica la condizione di liminalità, lo «stare sulla soglia fra vecchie e nuove visioni» (p. 85) – Zaccaria individua la possibilità di immaginare uno spazio non geografico, ma relazionale, animato da processi di transizione e trasformazione. La forza dell’azione-pensiero di Anzaldúa sta nel rovesciare il possibile conflitto generato dalla materialità della condizione fronteriza in punto di partenza per immaginare uno spazio nel quale lo stare nella soglia diventa qualcosa di progressivamente familiare, dove l’identità non è qualcosa di già dato, ma una forma sempre in costruzione. Da questa prospettiva, Zaccaria considera paradigmatica l’appartenenza di Anzaldúa ai chicanos, detentori di un’interlingua in costante trasformazione, detta spanglish o tex-mex, incrocio di lingue (inglese, spagnolo, náhuatl) e mezcla di culture (atzeca, spagnola, messicana, americana e africana). Zaccaria osserva la lingua chicana non solo dal punto di vista delle sfide traduttive che pone, ma anche come laboratorio di pratiche linguistiche e culturali in grado di generare prospettive multiple, inclusive, di sfidare il confine e di fare esperienza continua di attraversamento (border crossing).

La stessa performatività che caratterizza le azioni dei soggetti in movimento, determina anche le azioni dei soggetti che si fanno ponte tra le lingue, ovvero i traduttori e le traduttrici che accolgono i border texts, testi mobili, instabili, interculturali, le cui lingue sono denazionalizzate perché si presentano come lingue meticce. Questi traduttori, come i clandestini, rifuggono dal mainstream, dalla strada nazionale, e apprendono a tradurre le lingue dei camminanti nella propria lingua «che non può essere più soltanto “propria”: nel tragitto si è fatta lingua contaminata, lingua nuova, lingua aperta, lingua ospitante e ospitata» (p. 30). Citando due testi chiave di Derrida su lingua e ospitalità (Le monolinguisme de l’autre del 1996 e De l’hospitalitè del 1997, pubblicati rispettivamente da Éditions Galilée e Calmann-Lévy), Zaccaria afferma che la traduzione è alla base dell’ospitalità, da intendersi principalmente come orizzonte intravisto, aspirazione che non può mai compiersi interamente. Grazie alla traduzione, i confini del mondo dell’ospit(ant)e saranno decostruiti e modificati per sempre: chi intraprende il viaggio di attraversamento in un’altra lingua, in un’altra cultura, in un altro immaginario, sarà a sua volta attraversato dal viaggio stesso. «Tramite la traduzione, trasformazioni di tipo estetico, etico e culturale entrano nel mondo del traduttore in quanto crosser» (p. 34). Dunque, il soggetto che traduce «è ospit(ant)e in quanto riceve il testo altrui ed allo stesso tempo è ospitato in quanto trova casa, rifugio, dimora, nell’altrui testo/lingua» (p. 36).

Il saggio si apre poi a una serie di domande: cosa sollecita questa voglia d’interrogare e tradurre le narrative dell’impulso migratorio a noi che siamo stanziali? «È (im)possibile leggere, interpretare testi di soggetti che parlano da uno spazio culturale, linguistico e immaginativo che ha configurazioni differenti dalle nostre senza inglobarli nei nostri orizzonti?» (p. 62). Questi e altri interrogativi nascono dalla consapevolezza del soggetto in dislocamento critico di essere spesso inadeguato a comprendere le pieghe culturali di certe testualità nate altrove, nelle borderlands. Nel paragrafo intitolato I confini della traduzione, la traduzione dei confini «si prende coscienza di quanto complicato sia tradurre la complessità già all’interno della cultura/testo chicani e quanto ancora più complesso sia tradurre in una lingua culturalmente estranea, per esempio in italiano, un border text» (p. 188), che a sua volta sottende questioni linguistiche che sono al tempo stesso identitarie e politiche. Come deve comportarsi il traduttore davanti a questa tipologia di testi? «Nello spazio interstiziale fra lingue e culture a contatto fra testo originale e (processo di) traduzione è (ancora) possibile la non scelta, l’erranza semiotica e culturale, la sperimentazione di flussi, la percezione di connessioni e differenze» (pp. 190-191). L’interlinguismo, o la diglossia e, nei paesi postcoloniali, anche il mistilinguismo, costituiscono la voce della frontiera, una lingua mestiza, che ricopre un ruolo politico sovversivo: sceglie la strada della mediazione creativa per opporsi al potere dominante che vuole imporre la propria grammatica. Nel paragrafo Portare il border text oltre le terre di mezzo: tradurre il mestizaje, Zaccaria sottolinea l’importanza dell’interdisciplinarietà e degli studi culturali per affiancare e sostenere la teoria e pratica della traduzione e affrontare la complessità del pluralismo culturale, in cui «più lingue interagiscono […] in un costrutto semantico continuamente intercambiabile, politematico, con parole multivalenti che ad ogni lettura rilasciano significati nuovi» (p. 195).

Ma dato che non tutto è traducibile da una lingua all’altra, il testo interlinguistico non rischia forse più di altri di essere tradito, mutilato, maltradotto? Come mantenere l’interrelazione di segni, suoni e sensi di una lingua mestiza nella traduzione italiana? «Per non rischiare l’intraducibilità, e nello stesso tempo lasciare che la voce straniera affiori dentro al testo, chi traduce può scegliere di lasciare qualcosa di non tradotto, evitando per quanto possibile di proiettare o sovrapporre le categorie interpretative della lingua traducente su quella tradotta» (p. 200). E come evitare, allora, di tradurre soggetti dalla cultura meticcia inscrivendoli in categorie unitarie? Occorre posizionarsi «contemporaneamente fuori e dentro, e affidarsi a un’osservazione partecipe dell’altro, basata anche e soprattutto su sentimenti e immagini» (p. 201). La traduzione, infatti, è «opera di accostamento all’altro, acercamiento (parola messicana che sa di canto e danza d’amore) che dice del desiderio di dialogare, incontrare la differenza inesauribile e ineffabile dell’altro senza la violenza del ricondurre a sé» (p. 203). Tradurre significa, allora, «fare prove pratiche di comunità, vedere legami e vedere differenze» (p. 204).

Un breve paragrafo è dedicato anche a Tradurre il genere sessuale, tradurre (dal)la frontiera (pp. 204-208): recenti studi di gender translations, infatti, sostengono che il genere sessuale del traduttore o della traduttrice ne influenzi le scelte e il punto di vista. In particolare bisogna annoverare fra gli elementi del contesto da tenere presenti anche le problematiche relative alla posizione della donna sia nella società del testo originale sia in quella del testo tradotto: le traduttrici devono essere consapevoli delle implicazioni ideologiche dell’atto traduttivo e dei fondamenti patriarcali dei discorsi che traducono e portare voci sovversive nella società in cui il testo tradotto approda. «Trattasi di traghettatrici d’interculturalità e interlinguismo che “performano” la traduzione da una prospettiva identitaria sessuata» (p. 205).

Nel tradurre gli scrittori fronterizos «la traduzione […] non può posizionarsi in uno spazio di “superiorità monolinguistica”, deve anzi risolvere le difficoltà di comunicazione, deve in qualche modo accentuarle, portare in primo piano la differenza, quasi a ingigantirla» (pp. 205-206). L’autrice, in nota, suggerisce che una buona pratica per il traduttore potrebbe essere quella di dilatare il testo in apparati pre-/inter-/extra-testuali per esaltare la complessità culturale e il plurilinguismo dell’opera nell’originale (per esempio illustrare in una prefazione lo scenario storico culturale del testo mestizo, compilare note informative su alcune espressioni culturalmente connotate, redigere un glossario di termini specifici). «Tradurre è soprattutto partecipare alla decolonizzazione della lingua d’appartenenza, quella in cui si traduce» (p. 208).

Una curiosità: questo libro è caratterizzato da precise scelte stilistiche, funzionali a veicolare un messaggio politico. Innanzitutto l’autrice usa spesso il “noi”: la scelta di tale soggetto vuole sottolineare di volta in volta sia il desiderio di portare in presenza l’interlocutore nel testo, presentando un orizzonte comune per letture e contesto culturale fra l’autrice e chi legge, sia la volontà di riferirsi a “noi” intesi come abitanti di questa epoca che sembra tornare drammaticamente a ripiegarsi sui concetti di nazione, bandiera, identità. Altra scelta stilistica programmatica è l’eliminazione del corsivo per le parole straniere, coerente con la volontà di non discriminazione nel giudizio di valore (alto/basso, lingua dell’uno o dell’altro, straniero/familiare): il corsivo, infatti, stigmatizza alcuni termini come estranei al nostro lessico, mentre l’autrice preferisce il pensiero-pratica della creolizzazione, che comunque non annulla la bellezza delle differenze. Il termine «conservato nella lingua originale, solitamente chiarito dopo l’uso, è tenuto, ascoltato e trascritto nell’originale per la bellezza del suono, perché nella traduzione non si perdessero pezzi di senso, ma anche, semplicemente, per cominciare a praticare una circolazione di lingue in cui l’inglese non sia egemonico» (p. 45). Questo vale anche per le parole greche e latine, «così, la mia lingua ospiterà l’altro e l’altra, e le loro lingue, e si nutrirà del di più di senso che esse mi aprono, ma conserverà anche tracce a volte lievi a volte grevi delle origini» (p. 46).

Non è facile descrivere il testo di Zaccaria in maniera lineare, trattandosi di un progetto che fa della complessità e dell’andirivieni la sua cifra distintiva: «Semanticamente e stilisticamente ho provato a costruire le mie narrazioni con accenti diasporici […]. Raccontando con lingua dislocata ed esegesi dissonante […], idealmente scelgo la collocazione dell’accanto a, […] la comunità polilinguistica, creolizzata e multiculturale» (p. 59). Il fil rouge offerto dall’autrice per orientarsi nel suo saggio è proprio il tema della traduzione, che accompagna il lettore come pratica e metafora dell’ospitalità.

Il libro si chiude con un consiglio di lettura più che mai attuale: è necessario recuperare e rileggere Three Guineas/ Le tre ghinee di Virginia Woolf (The Hogarth Press; 1938), un testo chiave che invisiona e propone una società delle estranee (utopianism), una comunità costituita da donne che, in quanto donne, sono marginalizzate dal sistema economico, politico e sociale, straniere in patria, e tuttavia possono usare la loro posizione marginale per osservare, criticare, pensare e resistere. Se anche la cultura nativa può far sentire estranei, se si può guardare con estraneità anche all’etnografia cui si appartiene, allora è possibile avere piena consapevolezza del fatto che la propria cultura è solo una delle infinite configurazioni possibili. Secondo Zaccaria la fortuna di questo saggio di Woolf è dovuta proprio alla sua estrema traducibilità, intesa sia come traduzione materiale dell’opera in altre lingue, sia come traduzione della poetica e politica di Woolf nelle opere di scrittrici contemporanee e posteriori, di culture e lingue diverse, in un atto di dissidenza planetaria che fa dialogare l’immaginario con la politica oltre le lingue e le frontiere.

La domanda che ci si pone ora è: «Potrebbe la parola poetica aiutare i popoli a immaginare un altro mondo, altri mondi, e richiedere che queste costruzioni che non sono solo artistiche […] vengano considerate da uomini e donne che lavorano al governo del mondo come strade politiche da intraprendere?» (p. 64). Per prevenire la guerra, fuggire i nazionalismi e promuovere la convivenza pacifica diventa allora necessario ascoltare la voce di poeti, studiosi e artisti che hanno scelto di posizionarsi sulla frontiera, e che, attraverso la poetica e politica della traduzione, si sono fatti portatori del valore dell’ospitalità, una delle pratiche culturali più condivise e sacre, un medicamento utile per recuperare il senso del nostro stare al mondo.