di Leonardo G. Luccone
Quando ho iniziato a tradurre, internet, almeno in Italia, era agli albori. Era il 1995 e potevo accedere alla rete solo dall’università, e per quanto Mosaic, l’unico motore di ricerca, mi spalancasse torrenti di conoscenza inaspettati, non trovavo quasi nulla di ciò che stavo cercando; mi imbattevo in tutt’altro. Volevo chiarirmi l’uso di una certa espressione in un certo contesto e finivo ad ammirare la collezione di chitarre elettriche di un riccone nello sprofondo dell’Alabama.
In quel momento la rete era un grande magazzino caotico, mancava di struttura, e mancava la bussola. Nel 1998, se ci ripenso, era già tutto cambiato. Esistevano motori efficienti come Netscape e Altavista e c’erano siti già piuttosto strutturati. Il mio lavoro di traduttore era cambiato fisicamente, e io occupavo meno spazio: avevo un paio di dizionari installati sul computer e non dovevo più passare dalla tastiera alla fila di volumoni pericolanti sulla scrivania. Potevo portare agevolmente il lavoro con me, senza sembrare uno studente fuori tempo massimo.
Ora che tutto è ancora di più a portata di mano rimpiango un po’ la scarsezza di fonti dei miei inizi, dove dovevo sforzarmi di capire con quel poco che riuscivo a trovare. Credo di aver commesso un numero impressionante di errori di comprensione, ma allo stesso tempo di aver trovato soluzioni traduttorie di cui vado ancora fiero.
Nel 2005 mi sono stufato di lavorare da solo e mi sono messo in testa di creare qualcosa che abbracciasse una comunità molto ampia di persone che volevano lavorare in editoria. Fare libri mi aveva stregato e volevo che ci fosse una piattaforma che aiutasse chi iniziava a orientarsi. Oblique è nato sull’idea di condividere esperienze, risorse e percorsi di crescita. Formare i giovani ci permette di crescere e di migliorarci ogni giorno. Siamo andati per gradi, senza fretta.
Abbiamo deciso di ideare un corso specifico per traduttori quando il nostro corso principe per redattori editoriali era diventato una realtà consolidata. Volevamo creare un ambiente accogliente, dove i traduttori potessero sentirsi a proprio agio. Del corso per redattori abbiamo mantenuto la formula: il taglio pratico, laboratoriale. La convinzione – che dopo tanti anni rimane la medesima – era quella che gli aspiranti traduttori avessero tradotto troppo poco e che conoscessero in maniera approssimativa tutte le possibilità lavorative connesse alla professione (lo scouting, la gestione dei diritti, le schede di valutazione, i finanziamenti). Questo deriva tuttora da una scarsa apertura delle case editrici, che tendono a considerare i traduttori come macchine traduttorie, e dall’immobilismo dei traduttori che in molti casi fanno fatica a uscire dal loro abito.
Dall’altra parte, e ancora più importante, volevamo creare un percorso che permettesse agli allievi di misurarsi con almeno dodici prove: produrre pagine fresche, rileggerle, rivederle, confrontarsi con il docente e con le difficoltà del testo, confrontarsi con gli altri allievi; rivederle una volta in più, vivere il fremito di consegnare e di ricevere corretto il proprio lavoro.
Il primo passaggio è stato quello di decorticare le lezioni da qualsiasi svolazzo teorico. Volevamo mettere in piedi un’officina e portarla avanti attraverso un lavoro artigianale su testi reali, ancora caldi delle fatiche dei loro traduttori. Ecco: testi reali sul punto di essere pubblicati o appena pubblicati, e traduttori in carne e ossa pronti a mettersi in gioco. Volevamo che fosse chiaro fin dall’inizio che il traduttore scrive e come ogni scrittore deve sudare sette camicie.
Siccome riteniamo che non si possa fare troppe cose, abbiamo deciso di limitarci alla traduzione letteraria dall’inglese. È lusinghiera tentazione immaginare di estendere il corso al francese e al tedesco, prevedendo magari lezioni comuni e seminari specifici. Sarebbe remunerativo, ma un disastro per la didattica. Crediamo molto nel rapporto uno a uno e nell’intelligenza collettiva delle classi: nei processi spontanei che permettono una crescita individuale e del gruppo.
Per entrare ancora più nel dettaglio il metodo è grossomodo questo: in ogni edizione vengono scelti traduttori e opere in modo da creare una buona mappatura delle difficoltà classiche delle traduzioni dall’inglese; vogliamo presentare agli allievi un ventaglio ampio di stili e di contesti culturali; e così capitano autori inglesi, americani, canadesi, australiani, autori di seconda generazione che scrivono in inglese ma pensano ancora in un’altra lingua. Lavoriamo sia su autori contemporanei sia su autori classici, per i quali c’è bisogno di una nuova traduzione, perché, come diceva Agostino Lombardo, dopo vent’anni è bene che un testo venga tradotto di nuovo.
Ci interessa formare un traduttore propositivo, che conosca le regole del gioco e che non si spaventi di fronte a richieste del tutto legittime da parte degli editor e degli editori di presentare il proprio lavoro in modo pulito e redatto secondo norme redazionali specifiche oppure che gli venga chiesto, meglio se dietro opportuno compenso, di scrivere la quarta di copertina.
Il traduttore non è un interprete sfiatato. Il traduttore è un autore, su questo è bene insistere a lungo, e noi lo facciamo cercando di rendere divertenti le poche nozioni da sapere sul diritto d’autore. Vogliamo che ogni traduttore sappia gestire il contratto che gli viene proposto e che sia consapevole delle implicazioni dei punti più delicati.
Crediamo in una rivincita della categoria e ci battiamo per un futuro in cui i traduttori vengano coinvolti in modo più attivo nei processi decisionali di pubblicazione e di promozione del libro.
Per tenere viva una macchina di questo tipo servono docenti in gamba, che vogliano correggere individualmente gli elaborati che scaturiranno dall’esercitazione data a valle degli interventi. Ogni corso ha il suo blocco di traduttori e li scegliamo in base a un’idea narrativa che ci pervade in quel momento. Cerchiamo di invitare i professionisti che ci piacciono di più e che abbiano una comprovata capacità di trasmettere qual è l’essenza del lavoro.
Vogliamo che ognuno mostri esattamente come lavora. Gli chiediamo di selezionare una quindicina di pagine del libro a cui sta lavorando o che ha consegnato da poco. Due settimane prima di ogni incontro forniamo agli allievi il testo inglese (e talvolta la traduzione in italiano, definitiva o meno) oggetto della lezione e chiediamo loro di setacciarlo sotto ogni aspetto. Li invitiamo a produrre una loro traduzione del testo, a preparare domande per i docenti e spunti su possibili strade alternative.
Oltre al sottoscritto, negli ultimi anni si sono alternati professionisti come: Sergio Claudio Perroni, Ottavio Fatica, Giovanna Granato, Susanna Basso, Rossella Bernascone, Roberto Serrai, Cristiana Mennella, Giuseppina Oneto, Giovanni Zucca, Riccardo Duranti, Simone Barillari, Marco Rossari, Federica Aceto, Adelaide Cioni, Leonardo Marcello Pignataro e altri.
Voglio dire due parole sull’importanza di esercitarsi. Il nostro corso negli anni si è creato la fama del «corso in cui si lavora», ed è vero. Tra un ciclo di didattica frontale e il successivo c’è un intervallo di due settimane, che permettono agli allievi di svolgere le esercitazioni e ai docenti di correggerle. Non solo traduzioni, però. Assegniamo revisioni di traduzioni, analisi di traduzioni ben fatte (a volte diverse traduzioni di uno stesso testo), traduzioni vere e proprie di racconti o di estratti di romanzi. Lavoriamo anche su testi editoriali meno pregiati come la rassegna stampa. Alla fine del corso è previsto un ulteriore maxiblocco di esercitazioni. Già a partire dal primo weekend organizziamo dei contest – nient’altro che una prova di traduzione – in cui si ha la possibilità di tradurre un articolo o un racconto per una rivista. Ci piace dare fin dall’inizio l’idea di pubblicazione. L’obiettivo è quello di instillare la cultura della prova di traduzione.
In fase di colloquio preliminare specifichiamo bene che il corso ha senso solo se si possono dedicare a esercitazioni e studio dei materiali almeno cinque ore di lavoro al giorno. Non abbiamo prerequisiti stringenti come la laurea in una disciplina umanistica. Cerchiamo di capire dal confronto se il corso può essere utile o meno. Tendiamo a formare classi di una ventina di persone, in modo da seguire ogni allievo con la massima cura.
Ecco, ho dimenticato di dire che all’inizio del corso doniamo a ogni allievo una cartellina piena di materiale e tanto altro lo inviamo di volta in volta via mail. L’approfondimento è stratificato e ci si può tornare su anche in un secondo momento.
Il lavoro del traduttore deve essere il più possibile costante. Il problema principale delle traduzioni acerbe è la resa in italiano. Su questo lavoriamo in modo maniacale nelle correzioni individuali (tutte in modalità revisione, uno strumento ormai indispensabile nelle redazioni).
Come dicevo prima il corso non finisce con l’ultima lezione. L’ultima esercitazione è la più impegnativa, perché molto articolata (si va dalle prove di traduzioni reali, allo scouting, all’analisi di contratti editoriali). È un po’ la summa di quanto imparato. Per questi esercizi è richiesto un impegno di un mese, con un impegno minimo di tre ore al giorno.
Completato il percorso, consegnato l’attestato (che può essere utilizzato per il riconoscimento di crediti universitari), dati gli ultimi feedback, cerchiamo di rimanere un punto di riferimento per gli allievi, segnalando subito i migliori alle case editrici che ci contattano e, di volta in volta, creando ponti tra chi cerca e chi si mette a disposizione.
Dopo tante edizioni il bilancio è molto positivo. Tanti ragazzi ce l’hanno fatta e traducono stabilmente per buoni editori.