Reminiscenze e borbottii / 9

Il vecchio lettore

L’idealismo è morto, viva l’idealismo! Beninteso: nessuna nostalgia per la metafisica immanentistica e l’estetica tautologica di Benedetto Croce né tanto meno per il fascismo mistico e la statolatria di Giovanni Gentile, e nemmeno per il bieco classismo e il bieco maschilismo di entrambi. Ma c’è qualcosa di molto attuale nella loro rivolta, all’inizio del secolo scorso, contro il positivismo meccanicistico imperversante, contro il socialismo parolaio e sostanzialmente attesista, contro quelli che l’idealista Karl Marx chiamava i materialisti volgari, contro affaristi e imbonitori di ricchezze, contro un parlamento in preda a gruppi e gruppetti di professionisti della chiacchiera disposti a ogni trasformismo, senza luce di progetto, senza costruzione di futuro. C’è qualcosa di attuale – davanti allo sfacelo cui è ridotto, a furia di riforme, il sistema formativo italiano – nel loro puntare sulla scuola per la formazione di una classe dirigente. Certo, la classe dirigente cui loro pensavano era quella esistente, dell’alta borghesia benestante e proprietaria, che, con la riforma preparata da Croce e realizzata da Gentile nel loro breve ma efficace ufficio di ministri – tra 1920 e 1923 -, essi intendevano rigenerare, rinsaldare al comando della piccola borghesia e del proletariato, destinati, fin dalle scelte dei rami dell’istruzione, a un ruolo subalterno: per la classe dirigente i licei (il classico al vertice, col quale si accedeva a qualsiasi facoltà universitaria, poi lo scientifico, che non permetteva le facoltà umanistiche, tra le quali preziosa, per i destini della società classista fondata sulla proprietà terriera, la giurisprudenza), per gli altri, a cascata, i diversi istituti tecnici e professionali, ma con un posticino speciale per gli ottimi istituti magistrali, solo quadriennali invece che quinquennali come i licei, ma con la possibilità di accedere a una facoltà particolare, quella di Magistero (e quella di Lingue nelle Università private Cattolica e Bocconi, dove anche i diplomati ragionieri potevano frequentare Economia e commercio).

Ma almeno avevano in mente, gli idealisti, una classe dirigente. Cioè, ecco il punto, un novero di persone non subalterne, in grado di affrontare qualsiasi problema con libertà di mente e con strumenti cognitivi all’altezza di, ripetiamolo, qualsiasi problema. Non professionisti di singole discipline ma professionisti della comprensione e della critica e quindi in grado di affrontare qualsiasi disciplina.

«La scuola di tipo professionale, cioè preoccupata di un immediato interesse pratico, prende il sopravvento sulla scuola “formativa” immediatamente disinteressata. La cosa più paradossale è che questo tipo di scuola appare e viene predicata come “democratica”, mentre invece essa è proprio destinata a perpetuare le differenze sociali». Non lo dice, oggi, il vecchio lettore. Lo scriveva più di ottant’anni fa, in galera, il più determinato avversario intellettuale di Croce e Gentile, Antonio Gramsci (Quaderno 4, pagina 31), il quale concordava con loro quando denunciava, nei «politicanti» che contrapponevano la «spontaneità» (oggi il disgustoso «vaffa») come metodo di lotta politica a quella che lui chiamava «direzione consapevole», coltivando «la volontà immediata di sostituire una determinata direzione con un’altra», e denunciava altresì gli intellettuali che credono «che si possa sapere senza comprendere» (Quaderno 23, pagine 28 e 64), cioè senza avere una visione alta e complessiva del mondo e della vita, quel tipo di sapere che è esattamente lo scopo dell’istruzione “specialistica” e professionalizzante. Mentre «la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un operaio manovale diventa qualificato, ma che ogni “cittadino” può diventare “governante” e che la società lo pone, sia pure “astrattamente”, nelle condizioni generali di poterlo diventare» (Quaderno 12, pagina 11a).

Questo era il senso dei licei. Questo era il compito della scuola pubblica. In questa sede non è il caso di analizzare poi i particolari difetti dei loro curriculum scolastici, tutti correggibili. Invece, con il “democratico” progetto di offrire una formazione professionalizzante, immediatamente spendibile sul mercato, si prepara una plebe di pecore, di produttori e consumatori subalterni, fossero anche profumatamente retribuiti (ma destinati a non esserlo), e si crea un vuoto. Che però, chi può – cioè i ricchi – riesce a colmare. Come si forma, infatti, la classe dirigente? Di fatto questo compito viene istituzionalmente delegato alla formazione d’eccellenza, costosissima, gestita dai grandi centri di formazione privata, in Italia, e, più spesso, pubblica e privata all’estero. La classe dirigente – non più quella della grande proprietà terriera, ma quella del grande capitale finanziario – si perpetua e si consolida così, con un distacco di classe ancor più netto dell’epoca in cui, per lo meno, la classe operaia si organizzava in partiti e sindacati.

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Noterella di rammarico personale in margine a quanto sopra. Il vecchio lettore si confessa pentito. Ai suoi verdi anni abbracciò convinto la milizia sindacale e politica e si batté, con migliaia d’altri, per la democratizzazione di quella scuola classista uscita dalle menti e dalle mani dei maîtres-à-penser idealisti, con l’utopistica mira di estendere a tutti la formazione destinata ai pochi privilegiati. Ma non seppe – e non volle – contestare, seppur dal suo infimo angolino, la deriva utilitaristica, massificatrice e mortificante che, in quel settore, assumeva quel massiccio movimento, portatore per altri versi di importantissime conquiste sociali e civili.

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Nelle scuole italiane le lingue straniere non si insegnano più. La nostra società è ormai bilingue, in attesa della morte dell’italiano. L’inglese è già indispensabile, per cui, giustamente, è insegnato in ogni ordine di scuola, ormai anche in alcuni asili. Però è considerato lingua straniera. Il che significa che occupa tutto il posto destinato all’apprendimento delle lingue straniere. Di conseguenza le altre lingue, poco – anzi, molto – alla volta vengono bandite. E i nostri ragazzi non imparano che cosa è l’Altro.

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Giunge notizia all’orecchio un po’ appannato del vecchio lettore che, in taluni licei attuali in cui è sopravvissuto, l’insegnamento del latino viene praticato secondo il metodo “naturale” con cui si insegnano le lingue vive, di uso corrente, cioè per essere parlate e scritte. A che serve? Sono passati ormai secoli dacché il latino era la lingua franca della scienza e della cultura, e perfino nella Chiesa cattolica – abbiamo saputo – molti cardinali lamentavano che Ratzinger avesse ancora il vizietto di esprimersi nei loro sinodi in quella lingua. O si fa finta di credere che così gli allievi, quando ne sentiranno irresistibile l’impulso, a schiere possano avvicinarsi con immediatezza ai testi, una volta ritenuti classici, scritti in una lingua tutt’altro che viva? Ma nemmeno nell’ormai tramontata versione dei licei d’antan si insegnava il latino con questo intento (anche se poi avveniva pure – e avviene! – che Virgilio o Orazio o Cesare divenissero livres de chevet di medici e ingegneri). Il vero intento dell’insegnamento del latino era l’ordine mentale e di conseguenza la comprensione del mondo e la padronanza dell’espressione. Se si vuole, la logica formale. Ma oggi che anche questa è stata dichiarata desueta (e ci si guarda bene dall’insegnarla ai giovani), a che continuare a infliggere questo tormento museale alle giovani mente, che null’altro ne trarranno se non un odio profondo per una lingua che è stata a fondamento della civiltà europea?

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Ma quante “sprovincializzazioni” ci sono state nella cultura italiana, dal Risorgimento alla fine dell’era della carta stampata? Non c’è rassegna diacronica che prima o poi non ne individui una, ma a metterle tutte insieme si susseguono pressoché senza pause. Si comincia con Madame de Staël, si passa a Cattaneo, poi agli hegeliani napoletani e contemporaneamente, per contrasto, ai positivisti e ai naturalisti; poi c’è la scoperta – via Parigi – dei grandi narratori russi; quindi è la volta della Voce, poi del risveglio del primo dopoguerra, poi – squilli di tromba – il famigerato “decennio delle traduzioni”, protagonisti Pavese e Vittorini, questi Butch Cassidy e Billy Kid della “scoperta dell’America”, inchiodati a far coppia anche se ne farebbero entrambi volentieri a meno. Quindi, la liberazione!, «Il Politecnico», Proust, Freud e compagnia bella. E gli anni sessanta, eh?, che scossone! E sempre questa pretesa “provincia” italiana risulta sonnacchiosa, non si “sprovincializza” mai, visto che continua a essere “sprovincializzata”.

«Ed i limiti della provincia sono stretti. La provincia conserva patrimoni del passato, e vegeta di rendita. Ha una etichetta rigida, un ferreo regolamento disciplinare: il suo abito è il panciotto, la sua uniforme le maniche di camicia. Non crea valori nuovi: creare, per definizione, significa superare posizioni di partenza. In nome del buon senso rifiuta ogni avventura, ride di tutto ciò che non capisce, dunque di quasi tutto, diffida di tutto ciò che non è abituale. Non vede che ciò che ha sempre visto, e ne distilla la saggezza comoda e ottusa che gli uomini sono sempre gli stessi, che a questo mondo non muta mai nulla.» Si riferiva proprio all’Italia, Bobi Bazlen (Scritti, Milano, Adelphi, 1984, pp. 257-8); ma a sua volta era una fotografia di comodo. A ben vedere, per contrasto con questa fotografia, la più concreta e tangibile sprovincializzazione l’ha compiuta il fascismo, con le leggi razziali, la pugnalata alle spalle alla Francia e la pretesa di «spezzare le reni alla Grecia», tragiche scimmiottature della Germania nazista.

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Il primo spettacolo del Piccolo Teatro della Città di Milano, il 14 maggio del 1947, quand’era proprio piccolo, nell’ex cinematografo del palazzetto di via Rovello che era stata trista sede della Legione Ettore Muti della Camicie nere durante l’occupazione tedesca, fu L’albergo dei poveri di Maksim Gor’kij, regia del giovane Giorgio Strehler. Di chi era la traduzione? Né le locandine né i giornali, stante la prassi, all’epoca ancor più comune di oggi, di ignorare questa trascurabile inezia, minimamente ne accennarono. Esistevano allora, pubblicate, quattro versioni italiane del fosco dramma. Ne erano tempestivamente uscite due già nel 1903, appena un anno dopo la pubblicazione originale in Russia, opera di sperimentati traduttori: quella di Cesare Castelli per Roux & Viarengo di Roma, e quella di Nino De Sanctis (col titolo Nei bassi fondi), per Nerbini di Firenze. Due anni dopo ne aveva sfornata un’altra per l’editore Romano di Napoli anche Eugène Wenceslas Foulques. Della quarta si dirà dopo.

Sulla rivista «Enthymema» dell’Università di Milano (a. VIII, 2013), nell’articolo Eleonora Duse interpreta Gor’kij, Maria Pia Pagani ha raccontato che in quello stesso 1905 la grande attrice italiana interpretò la protagonista del dramma, Vasilisa, due volte: una in maggio a Parigi, in italiano mentre gli altri attori parlavano francese; e la seconda volta in ottobre a Milano. Di entrambe le recite si trovò a essere spettatore Osvaldo Orvieto, che, con lo pseudonimo di Gajo, ne diede conto sul «Marzocco» di Firenze il 5 novembre. A Parigi c’era stato, «come ebbe a notare il giorno dopo una gazzetta parigina, il trionfo del cosmopolitismo: un lavoro russo rappresentato in italiano e in francese davanti ad un pubblico affollatissimo, nel quale gli inglesi e gli americani costituivano un nucleo non trascurabile». Quale traduzione aveva adottato la Duse? La propria!, da quella francese di Elie Halpérine-Kaminsky (Il’ja Danilovič Gal’perin Kaminskij) appena pubblicata da Fasquelle.

Contro il rigore dell’adesione alla sensibilità russa cercata dalla troupe francese, a Milano si era invece consumata la vittoria della tradizione improvvisatrice dell’attore italiano:

Gli hanno dato una traduzione libera, preventivamente adattata al gusto paesano e su quella è felicissimo di lavorare di fantasia, togliendo ciò che egli giudica troppo e vano, aggiungendo effetti che gli sembrano felici. […] Seguendo le indicazioni della parte egli cerca e trova il corrispondente italiano: salvo poi a svolgerlo secondo il suo istinto gli detta. In tal modo la baruffa di un albergo dei poveri russo può diventare nelle sonorità caratteristiche e nelle vivacità del gesto una zuffa di camorristi del fondaco napoletano, a basso Porto o a Mercato.

Quest’ultima osservazione ci mette subito sulla strada della traduzione, appena pubblicata allora appunto a Napoli, di Foulques, russo naturalizzato partenopeo, come informa Giulia Baselica nel suo saggio Alla scoperta del genio russo sul numero 0 di «tradurre» (e ora nell’antologia della rivista pubblicata da Zanichelli). Passarono gli anni e nel 1926 anche Mondadori, da poco trasferito da Verona a Milano, pubblicò una versione dell’Albergo dei poveri, insieme con altri due drammi di Gor’kij. E’ questa, anonima, la traduzione che ancora oggi viene spesso ripubblicata, ed è molto probabilmente questa che il giovane Strehler – che conosceva bene francese e tedesco ma non il russo – prese in mano e adattò per la sua regia. E a essa l’Archivio storico del Piccolo ha impresso quindi, non a torto, il suo nome.

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Piccole magie dell’italiano: che differenza c’è tra un rifiuto secco e e un secco rifiuto? E tra un poeta oscuro e un oscuro poeta?

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In fondo alla strada di ogni protezionismo, contro le persone come contro le merci, c’è la guerra. P.S. Non c’entra niente con questa rubrica e con questa rivista? Solo apparentemente: la traduzione è pace.