La recensione / 10 – Un tentativo di archeologia dei segni

di Alessio Mattana

A proposito di: Massimo Arcangeli, La solitudine del punto esclamativo, Milano, il Saggiatore, 2017, pp. 336, € 19,00

Uscito per la collana «La Cultura» de Il Saggiatore, La solitudine del punto esclamativo di Massimo Arcangeli è un libro leggero, gradevole per la ricchezza dei dati raccolti ma disordinato e confusionario nella loro organizzazione.

La confusione comincia dal titolo. In un periodo di spasmodica celebrazione editoriale della lingua italiana (menzioniamo, tra gli altri, L’italiano è bello di Mariangela Galatea Vaglio e La più bella del mondo di Stefano Jossa, entrambi del 2017 e oggetto dell’attenzione di Annalisa Chiodetti in questo stesso numero di «traurre») e di geremiadi sul corretto utilizzo della punteggiatura (Punteggiare rapido e accorto. Questione di Virgole di Leonardo G. Luccone, che verrà recensito nel prossimo numero della rivista), l’evocata solitudine del punto esclamativo di Arcangeli sembrerebbe prefigurare un nuovo accorato appello a cosa i lettori dovrebbero capire, cosa ai lettori dovrebbe piacere e cosa i lettori dovrebbero fare per preservare la nostra amata lingua. L’impressione è in parte confermata dall’immagine di copertina, nella quale il presunto protagonista, il punto esclamativo, è rappresentato come il portiere di una squadra di calcio resa televisivamente con il solo retro delle maglie da gioco. La squadra è composta dagli altri segni della punteggiatura italiana disposti in un tre-cinque-due di spinta, con le virgolette caporali alte sulle fasce e il punto interrogativo, regista basso, a ragionare affiancato dai due interni di centrocampo, il due punti e il punto e virgola. In quanto portiere, il punto esclamativo veste una maglia di un colore diverso che lo differenzia dagli altri segni interpuntivi.

Che si tratti dunque di una scanzonata (ma non per questo meno affilata) apologia del ruolo della punteggiatura gridata in un’era in cui, al grido di “sveglia!”, il punto esclamativo enfatizza le istanze avanzate dagli utenti dei social media nell’arena politica digitale? Non si direbbe: in questo volume di 336 pagine non si parla che marginalmente di punteggiatura. Il titolo e la copertina giocano sull’evocazione di titoli più o meno mainstream (La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano, La solitudine del portiere di calcio di Stefano Benni) per strizzare l’occhio a un pubblico da Salone del libro, mancando però di rendere giustizia al contenuto del libro. Muovendosi tra materialità della scrittura e storia dei caratteri grafici, Arcangeli, il quale è linguista e professore ordinario all’Università di Cagliari, guida i lettori nei percorsi storici che hanno portato alla diffusione dei segni che utilizziamo abitualmente nella scrittura su dispositivi digitali. Così, dopo un primo capitolo sulla storia delle macchine da scrivere, si passa a discutere delle diverse rappresentazioni grafiche dei numeri (con particolare attenzione verso lo zero), dei confini labili tra i numeri stessi e le lettere alfabetiche pittografiche e ideografiche, della punteggiatura, dei simboli @ e # e, infine, degli emoji.

Muovendosi con relativa agilità tra linguaggi anche molto diversi tra loro, dal cuneiforme al digitale, dal cinese all’algebra, il libro offre diversi spunti storici e, per estensione, letterari. Il primo capitolo sull’evoluzione delle macchine da scrivere e delle telescriventi, ad esempio, stimola riflessioni sulla storia della comunicazione, un campo di studi ancora relativamente trascurato. Il resto dei capitoli, preso nel suo complesso, assomiglia a una Wunderkammer di segni grafici o, per meglio dire, a un piccolo tentativo di archeologia, impressione supportata dalla ricca panoplia di illustrazioni fotografie immagini di cui il volume è corredato. Questo tentativo, specie nei capitoli più riusciti come quello sugli emoji («Faccine e altri animali», pp. 289-310), porta a battere i sentieri meno noti delle lettere al fine di apprezzare che qualsiasi innovazione semiotica è, in realtà, parte di processi di significazione cominciati secoli, se non millenni addietro.

Spesso, però, l’impressione nel leggere La solitudine del punto esclamativo è quella di avere di fronte una collettanea di materiali eterocliti e scarsamente amalgamati, la cui utilità sembra primariamente risiedere nel suo essere un serbatoio di curiosità utili per chi desideri avventurarsi in conversazioni edotte ma, tutto considerato, oziose. A causa della mancanza di capoversi che spieghino i ragionamenti fatti dall’autore, il testo appare come una raccolta di dati e citazioni che sfocia facilmente nell’erudizione gratuita. Il sospetto che Arcangeli, autore prolifico (ben sei i libri pubblicati tra 2017 e 2018), abbia integrato ricerche pre-esistenti è confermato dalle postille a sette capitoli su dodici: parte dei contenuti proposti sono rimaneggiamenti di precedenti pubblicazioni. Così, in assenza di un’argomentazione, si fatica a vedere il volume come un’entità unica e organica, e la lettura risulta faticosa.

Si direbbe quasi che Arcangeli, per pigrizia o per paura di dover operare una più stringente selezione delle fonti, eviti di avanzare delle interpretazioni. Il che è un peccato perché si possono comunque estrarre alcune questioni di sicuro interesse per traduttori e studiosi della traduzione. Nelle sue peregrinazioni tra diversi linguaggi, letterature e civiltà, Arcangeli muove dal presupposto non banale che la scrittura è una tecnologia. In quanto tale, la scrittura va incontro a sperimentazioni continue al fine di raggiungere la maggiore ergonomia cognitiva possibile. La massimizzazione della velocità e dell’efficacia della comunicazione scritta non è dunque vista da Arcangeli come un demone pronto a deturpare la pristina bellezza della lingua italiana, né viene brandita come lo stendardo di un cambiamento vitalistico promosso da una gioventù ansiosa di liberarsi del peso di tradizioni ormai desuete. Velocità e efficacia sono invece assunti come principi di economia comunicativa, intrinsechi alla natura umana e dunque costanti in ogni epoca e luogo. Tali principi governano non soltanto la lingua ma ogni espressione di comunicazione e Arcangeli, difatti, si muove sempre sul piano della traduzione intersemiotica, giocando a scavalcare il perimetro della lingua per esplorare le trasmutazioni dei segni grafici, il loro costituire un alfabeto semiotico dal quale, occasionalmente, le lingue prendono in prestito alcuni elementi per creare un nuovo necessario nesso di significazione.

Certamente Arcangeli non è l’erede di Marshall McLuhan, o Roger Chartier o Elizabeth Eisenstein. Ma, e ciò sia detto a suo onore, neanche ambisce a tanto. Il suo tentativo è quello di una piccola archeologia del segno grafico che permetta ai lettori più occasionali di godersi i prodromi di chiocciole, cancelletti ed emoji, e a quelli più intraprendenti di problematizzare i confini spesso imposti alle lingue.