Reminiscenze e borbottii / 10

Il vecchio lettore

Ingrati meccanici, nimici
d’ogni gentile e leggiadro adoperare.

Anche Boccaccio, evidentemente, aveva già il suo daffare a difendere la dignità della poesia contro l’utilitarismo spicciolo dominante.

Una voce apparentemente bizzarra circola negli ambienti dei più prestigiosi politecnici italiani. A quanto pare, si avvertirebbe la necessità di dotarsi di un dipartimento di humanities (in vernacolo locale: discipline umanistiche). La giustificazione, ovviamente, è ancora utilitaristica, ossia – come si dice – “spendibile sul territorio”. L’ingegnere e l’architetto dovrebbero essere messi in grado di avere qualche cognizione di diritto e, che so?, forse di politologia, sociologia e macroeconomia, per poter orientarsi nel mondo grande e terribile in cui dovranno operare e nei rapporti con i loro committenti e fornitori. Ma ci deve essere, al fondo di questa idea, anche la confusa sensazione che cominci a mancare sotto i piedi un terreno ben più necessario, che è quello che dà il nome a tali discipline: l’umanità. Cioè ciò che l’ingegnere e l’architetto hanno in comune con gli altri non in quanto professionisti e operatori economici ma in quanto esseri umani. Lasciamo pure da parte ciò che stava a cuore a Boccaccio: l’arte, la poesia, il bello… Non che non siano “spendibili sul territorio” anche quelli, diamine!: non è per questo che esistono i “beni culturali”, campo di massiccia attività “mediatica” (che parola orrenda! ma comoda, ammettiamolo) e soprattutto turistico-alberghiera-enogastronomica, con relativi insegnamenti e lauree universitarie professionalizzanti? No, al cuore della cultura umanistica sta un punto che è quello che più spaventa gli attuali reggitori delle nostre sorti: essa insegna a pensare, ossia a coltivare il libero arbitrio, la capacità individuale e collettiva di non farsi né dominare né condizionare. Per questo, ben vengano allora le humanities nei politecnici, ma sostanziate di letteratura, storia dell’arte e della musica, filosofia, storia… Che un ingegnere pensi (e gli ingegneri italiani sono stati per decenni tra i migliori del mondo perché pensavano; per non parlare degli architetti) farà bene a lui e alla sua professione.

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Già che ci siamo, vediamolo, l’insegnamento delle discipline umanistiche nelle università. Esse sono concepite come ancelle di professioni (s’è detto dei “beni culturali”: si aggiunga “e ambientali”), di cui la principale è, tautologicamente, l’insegnamento. Ossia: all’università si insegnano materie umanistiche perché vengano a loro volta insegnate. A chi? A qualcuno che le insegnerà a sua volta. Perché? Per insegnarle. Ma, si dirà, non è vero: nelle scuole elementari e medie le materie umanistiche si insegnano anche ai tanti che nella vita faranno tutt’altro che insegnare. Domanda: perché? a che cosa servono? Quando si risponderà seriamente a questa domanda, forse si ripenserà anche a tutta la struttura deforme assunta oggi dal sistema formativo italiano.

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Ci sono figure di traduttori davvero singolari, che sfuggono a qualsiasi storia letteraria ma che dicono molto sulla composizione dell’intellettualità italiana. Una di queste fu Enrico Gianeri (1900-1984), nome che si nascondeva dietro lo pseudonimo GEC col quale già a diciannove anni – ci informa il ritratto che ne ha steso per il LIV volume del Dizionario biografico degli italiani (2000) Sabrina Spinazzè – cominciò a collaborare con le sue caricature alla stampa socialista e democratica, divenendo rapidamente famoso. Schierato decisamente contro il fascismo, nel 1922 assunse la direzione del principale periodico satirico italiano, «Il Pasquino», pur continuando a collaborare con numerose altre testate. Nel 1924 fondò un proprio giornale, «Il Codino rosso», ma l’anno seguente fu costretto a chiudere e gli fu di fatto impedito di fare il suo mestiere. Per campare, dal 1926 si dedicò quindi all’attività di traduttore, «lavoro che, per sopravvivere, esercitò soprattutto dal 1930 al 1935», dando così anche lui il suo contributo al famigerato “decennio delle traduzioni”, soprattutto con i romanzi erotici e osé di Maurice Dekobra per la casa editrice Cosmopolita di Torino: traduzioni che quindi non resteranno negli annali, dove invece spiccherà il suo notevole contributo alla storia della caricatura e della satira. Per il seguito, leggiamo direttamente Sabrina Spinazzé:

Arrestato a poche settimane dall’armistizio, il G. rimase alcuni mesi in prigione, quindi nascosto per un anno, fino all’aprile del 1945. Nel dopoguerra poté quindi riprendere a Torino le redini del Codino rosso e del glorioso Pasquino, che sotto la sua direzione festeggiò nel 1955 il primo centenario (appena un anno prima di chiudere definitivamente). Godendosi la nuova temperie di tolleranza, il G. continuò la sua attività di disegnatore satirico allargando il suo raggio d’azione per comprendere nuovi temi (come il femminismo) e nuove polemiche (scandalistiche e partitiche). Tuttavia, a partire dalla metà degli anni Cinquanta la sua attività fu soprattutto quella di storico e teorico della caricatura e dell’illustrazione, attraverso la pubblicazione di un altissimo numero di volumi in cui la verve satirica si traduce nella scrittura attraverso uno stile brillante, graffiante, caustico e scanzonato.

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La signora Pina teneva libreria in un bugigattolo molto spartano in uno di quei vecchi edifici di corso Vittorio Emanuele che ricordavano ancora il tempo in cui la via si chiamava Corsia dei Servi ed erano ora, sotto il peso degli anni e dell’incuria e danneggiati dai bombardamenti, cadenti. Il corso era sconvolto dai lavori della metropolitana, linea 1 (rossa), che si svolgevano allora a cielo aperto, e quegli edifici erano destinati a essere demoliti. Il giovane lettore, attratto anche da una certa prosperosa nipote della signora Pina che la affiancava dietro il banco, aveva piantato in quella libreria il chiodo di un conto corrente in cui versava a fatica mille lire al mese: cifra cospicua, per le sue magre finanze di studente universitario alimentate da qualche lezione privata data a ricchissimi quanto recalcitranti figli di papà. La signora Pina era figlia d’arte. Suo padre era nientedimeno che Ulisse Tarantola, uno dei rappresentanti della più grande famiglia di bouquinistes pontremolesi che in quegli anni avevano pure qualche peso, col Premio Bancarella, nel mondo letterario e editoriale. E una sua sorella teneva appunto la bancarella storica che si trovava nel bel mezzo di piazza Cavour, davanti al Palazzo dei Giornali, voluto da Arnaldo Mussolini per «Il Popolo d’Italia», ma che ormai ospitava «l’Unità», l’«Avanti!» e «Il Giorno»: più antifascista di così! La signora Pina fu la prima persona che insegnò al giovane lettore diversi segreti della filiera, non solo commerciale, del libro e a valutare la fattura grafica e industriale di un volume, spianando la strada alla comprensione “professionale” della differenza tra un editore e l’altro, tra una collana e un’altra. Grande risorsa della signora Pina erano i classici stranieri. Tuttora, negli scaffali del vecchio lettore, si allineano i gialli «Classiques Garnier» (la «Pléiade» era inarrivabile!) e le verdi copertine della «Everyman’s Library» di Dent & Sons. Emozionante, oggi, il prezzo di 3500 lire per i due grossi tomi del Théatre complet di Molière segnato a matita sull’ultima pagina, bianca, del secondo; ed emozionante tagliarne le poche pagine delle note rimaste ancora intonse.

Mentre i lavori della metropolitana si avvicinavano alla fine, l’Italia arrivava in fondo al suo bravo miracolo economico: il volto di corso Vittorio Emanuele mutò radicalmente, divenendo vetrina del benessere finalmente raggiunto dalla borghesia italiana. La signora Pina sloggiò dal suo bugigattolo nell’edificio destinato alla demolizione e si trasferì qualche metro più in là, a tener angolo di libreria in una sorta di piccola mall in Galleria Passarella, nuova di zecca. Chiuso il suo conto, fatte le sue scelte di vita, che lo portarono lontano, tra caserme prima e scuole poi, il giovane lettore, che si avviava a non essere più giovane, passò ogni tanto a trovarla, ma l’emozione palpitante degli acquisti frequenti di libri era impallidita. Per il momento. Un lungo e tempestoso momento che durò anni.

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Drink and Wine, Bakery, Winery, Merry Christmas, For Sale, Opening Soon, Push, Pull, Sales, Last Minute, Sightseeing, City Tour, Food & Beverages, Sportware; e si potrebbe andare avanti a lungo: nel centro di Milano non esiste più né insegna né scritta – a parte quelle dei segnali stradali, che pure sarebbe opportuno fossero bilingui – in italiano.

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Altra seria picconata in arrivo per le lingue diverse dall’inglese. Il web non sopporta i segni diacritici, che i motori di ricerca faticano a riconoscere. E così tendono a scomparire accenti, apostrofi, Umlaut, cediglie, tildi, “pipette” e via dicendo, patrimonio di numerosissime lingue scritte che devono fissare in caratteri latini suoni che latini non sono. Tranne dell’inglese, sovranamente immune da queste nuance, in quanto si affida, per la pronuncia, all’orecchio e alla memoria (se non all’inventiva) dei locutori. E peggio per loro se non ne hanno.