di Gianfranco Petrillo
A proposito di: Michele Sisto, Traiettorie. Studi sulla letteratura tradotta in Italia, Macerata, Quodlibet, 2019, pp. 317, € 22,00
Questo libro vuole essere di fatto la punta di lancia di un profondo rinnovamento degli studi letterari italiani. Sia pure en passant, infatti, e al condizionale, promette «un terremoto per le discipline italianistiche» (p. 14). Si tratta, in sostanza, di «studiare la letteratura tradotta come parte integrante del corpus della letteratura d’arrivo» (p. 12), nel nostro caso quella italiana. Domani si dirà che è la scoperta dell’acqua calda; oggi – soprattutto in questa sede, dove già le traduzioni, non solo quelle letterarie, sono intese come parte integrante dell’insieme della cultura italiana – è opportuno prenderla molto sul serio e altrettanto seriamente vagliare ciò che si intende.
La vigorosa Introduzione (pp. 11-33) è una sorta di manifesto programmatico, al cui lancio Sisto si sente autorizzato da quanto acquisito alla guida del progetto di ricerca Ltit – Letteratura tradotta in Italia, finanziato dal Miur nell’ambito del programma Futuro in Ricerca, i cui esiti compaiono periodicamente sia sul sito www.ltit.it sia, in anteprima, nella rubrica omonima di «tradurre» curata dallo stesso Sisto e da Daria Biagi, che fanno parte della redazione della rivista.
Innanzitutto Sisto fa proprio l’insegnamento di Itamar Even-Zohar circa The Position of Translated Literature within the Literary Polysystem (1978: La posizione della letteratura tradotta nell’ambito del polisistema letterario), in base al quale l’«enorme lavoro collettivo – materiale e simbolico – » delle traduzioni, «da Omero a Bob Dylan, passando per Harry Potter», costituisce «il principale anello di congiunzione fra la letteratura italiana e la letteratura mondiale» (p. 14). Dopo di che tutto il suo ragionamento si fonda sull’importante saggio di Pierre Bourdieu Les Règles des arts. Genèse et structure du champs littéraire (1992: tr. it. di Emanuele Bottaro e Anna Boschetti, Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario, Milano, il Saggiatore, 2005), in cui il sociologo francese definisce la nozione di «campo letterario», secondo la quale un’opera scritta è frutto non del solo autore ma di un insieme di «strutture» che comprende almeno l’editore e le sue collane, l’eventuale traduttore, il critico, ecc. ecc., in possesso di «capitali»: non solo quello economico, ma quelli «simbolico» (grosso modo un insieme di valori immateriali), «politico», confessionale ecc., più i condizionamenti dovuti all’età, al genere ecc. Entro questi campi le traduzioni comportano una «serie di operazioni sociali»: la «selezione» (séléction) del testo da tradurre; la «marcatura» (marquage) mediante la pubblicazione da parte di questo o quell’editore nell’ambito di questa o quella collana ecc., diversamente connotati, che in tal modo «consacrano» singole opere o singoli autori, creando un «repertorio» da cui «si distilla il “canone”»; la «lettura» (lecture), in quanto anche la soggettività del lettore, «prodotto di un campo di produzione differente», influisce sulla ricezione. Ciascun «campo» è percorso dalle tensioni tra i due poli di produzione: quella volgarmente chiamata «di massa» o «commerciale» e quella «ristretta», «dove prevale la logica specifica dell’arte e si produce letteratura “d’avanguardia”». Ovviamente quest’ultimo termine non si riferisce esclusivamente ai movimenti letterari primonovecenteschi così denominati, ma alla periodica insorgenza di nuovi soggetti, solitamente esponenti di una nuova generazione, che spesso, per poter farsi spazio nel campo «dominato» dai detentori dell’«ortodossia», ossia da produttori (autori, editori, traduttori, critici ecc.) già affermati, finiscono per organizzarsi appunto in «avanguardia». Insomma, ciascuna generazione – mi par di capire – ha la sua avanguardia (pp. 17-19). Ciò comporta, in particolare, lo studio delle «traiettorie» compiute dalle opere letterarie straniere per trasferirsi – oltre che nello spazio, nel tempo – da un «campo» letterario “nazionale” (queste virgolette sono mie, perché anche questo concetto andrebbe discusso, perché in molti casi equivoco in quanto confonde lingua ed entità etnico-statuale) a un altro, e di quelle dei singoli agenti che le mettono in atto.
All’introduzione segue una sostanziosa serie di studi, ciascuno dei quali costituisce l’esempio di un tipo di traiettoria o di un suo particolare momento o aspetto. Michele Sisto è un germanista e quindi il «campo letterario» straniero di cui si occupa è quello di lingua tedesca. Ma dimostra tutta la competenza di storia della cultura italiana indispensabile al suo approccio. Che si rivela, nei fatti, un approccio storico, in controtendenza rispetto all’attacco forsennato scatenato in campo accademico, da un paio di decenni a questa parte, contro le discipline storiche, riflesso di un più generale attacco politico-ideologico all’umanesimo.
Significativo in tal senso il primo saggio, che vuole essere un esempio di séléction, applicato all’Individuazione di un capolavoro (pp. 39-68), in questo caso il Faust di Goethe, e si concretizza nell’avvincente ricostruzione di una serie di episodi misconosciuti del Risorgimento in cui compaiono, accanto al traduttore Giovita Scalvini, altri personaggi non secondari, da Ugo Foscolo a Camillo Ugoni, da Carlyle a Mazzini. Anche il secondo studio, la Breve storia delle edizioni del Faust, non è semplicemente un esempio del ruolo degli editori nella creazione del repertorio della letteratura tradotta (pp. 69-153), perché vi è giocoforza la rappresentazione della parabola compiuta dalla cultura italiana dal Risorgimento al postmoderno, nell’ultima fase della quale campeggiano i nomi di Cesare Cases, Franco Fortini e Andrea Casalegno.
Ma è impossibile dar conto qui partitamente e con sufficiente attenzione di tutti questi interessanti studi. Degli altri dobbiamo limitarci a enunciare il titolo: Nascita di una disciplina. Le cattedre di germanistica in Italia (1898-1915) (pp. 155-175); Condizioni necessarie. Georg Büchner nel campo letterario italiano (1914-1955) (pp. 177-210); La genesi di un nuovo habitus editoriale. Piero Gobetti e la letteratura tedesca del «Baretti» (1919-1926) (pp. 211-235); La consacrazione del romanzo. Traiettorie delle collane di narrativa straniera nel campo editoriale (1929-1935) (pp. 237-275); Un repertorio per il teatro di regia. Paolo Grassi e i “tedeschi” di Rosa e Ballo (1942-1947) (pp. 277-299).
Solo due osservazioni nel merito. La prima riguarda proprio il saggio sulle collane di narrativa negli anni trenta, che pure costituisce forse l’esempio più probante dell’efficacia della «proposta teorica» di Sisto. A mio avviso, non si trattò tanto della ripresa del genere romanzo quanto del realismo, di cui il romanzo è lo strumento più usato; fu intorno alla rappresentazione della realtà che infuriò lo scontro, anche all’interno delle stesse file fasciste, filofasciste e afasciste (e, sì, fu uno scontro generazionale), e fu contro di essa (e non contro la letteratura straniera in quanto tale, come ancora si continua a credere comunemente – ma non da parte di Sisto) che si accanì la stessa censura. La seconda riguarda l’ultimo saggio e quello su Büchner, con i quali Sisto prende in considerazione un’attività artistico-culturale, quella teatrale, che rientra solo parzialmente nella letteratura, ma ha ampi margini di autonomia rispetto a essa; oppure non ne ha affatto, come non ne hanno tra loro le attività umane in generale. La scelta di questo tema – in parte dettata, per quanto riguarda la Rosa e Ballo, dalla disponibilità delle fonti (l’archivio presso la Fondazione Mondadori) – è certo condivisibile, in quanto tra la fine dell’Ottocento e fino agli anni quaranta del Novecento il teatro di prosa fu, con la poesia lirica che in letteratura detenne nel «repertorio» un primato di prestigio (Sisto direbbe “di capitale simbolico”) durato fino agli anni sessanta (cfr. p. 32), uno dei principali veicoli per l’introduzione in Italia di idee e sentimenti nati in contesti diversi. Poi, con l’avvento del sonoro, il cinema terremotò tutto il sistema culturale, prima di tutto minando alla base la recinzione della cultura a livello borghese. Questo però significa che il «campo letterario» non è autosufficiente, ma – come dimostrano a iosa questi stessi bei saggi – interagisce con altri settori: la cultura fa tutt’uno – sia pace all’anima di don Benedetto – e proprio questo libro impone quindi la necessità di prendere in considerazione anche, almeno, la saggistica. Non è questa la sede per inoltrarci in quello sterminato territorio, ma esso va affrontato, forzando la riluttanza degli studiosi a uscire dai propri ambiti disciplinari, che gli attuali ordinamenti accademici tendono a frantumare e isolare in modo sempre più pericolosamente rigido. L’esempio offerto da Sisto, germanista che non esita a introdursi nel territorio degli italianisti e in quello degli storici dell’editoria, va seguito.
Quello che non convince è proprio il termine traiettoria, un’immagine balistica dal sapore deterministico. Come tutte le griglie interpretative, per quanto feconde, anche questa proposta da Sisto rischia di diventare una gabbia rigida e vincolante, che non contempla le deviazioni, le eccezioni, le contraddizioni, le svolte secondarie che costituiscono il normale svolgimento della storia così come della vita umana. Si veda la figura III.3 a p. 266: la collocazione della «Medusa» mondadoriana nel «Polo di produzione di massa» non tiene in nessun conto la perizia imprenditoriale che alla «Medusa», destinata a quelli che oggi si chiamerebbero i lettori “forti”, affiancava i «Romanzi della palma», destinati appunto al pubblico “popolare”, in particolare femminile, venutosi a creare con l’avanzare dell’alfabetizzazione. Lo dimostra l’evidente forzatura della collocazione in quel quadrante, a «basso capitale letterario», non tanto di un classico come Goethe (spiegabile in quella particolare veste), quanto di un autore contemporaneo decisamente “difficile” come Thomas Mann, così come la collocazione nel quadrante «Polo di produzione ristretta» di Erich Kästner, che in Italia ebbe un momento di vasta popolarità con una serie di romanzetti gialli per ragazzi. Forse proprio il ricorso a questa distinzione tra i due «poli», certamente valida sul piano strettamente editoriale, presenta qualche debolezza nel nesso con il valore estetico (ovvero, direbbe Sisto, «simbolico»).
Un’ultima osservazione non è di natura strettamente letteraria. Due o tre volte ricorre, a proposito dell’Italia della seconda metà del Novecento, l’espressione «egemonia comunista». Poiché le giovani generazioni hanno un’immagine del tutto distorta della storia italiana di quel periodo, quella nozione andrebbe precisata e per di più resa problematica, senza darla per assodata. Si dovrebbe precisare almeno che si trattava di egemonia “culturale” (per fortuna) e non “politica” (per fortuna, almeno fino agli anni settanta) e appunto, forse, problematizzarla, in quanto non era un’egemonia di partito – come si potrebbe altrimenti ritenere – ma di un’ampia area comprendente molte personalità che comuniste non erano (come dimostra proprio il caso di Cases e Fortini, ai quali si potrebbero aggiungere diversi socialisti e soprattutto cattolici che comunisti non sono mai stati).
Ma sono dettagli. Quel che conta è l’avventura intellettuale che questo libro propone. Come dice Sisto, sono più importanti le domande che le risposte (p. 26). Scopriamo l’acqua calda: è ora.