IN RICORDO DI PETER NEWMARK
di Giulia Baselica
«Teoria della traduzione» è espressione impropria, locuzione generica, possibile traduzione, quindi etichetta traduttiva per Übersetzungswissenschaft. La teoria della traduzione non è, in realtà, né una teoria né una scienza, bensì l’insieme di cognizioni che già possediamo e che ancora non possediamo in merito al processo della traduzione. È, quindi, una –ologia, tuttavia preferirei non chiamarla traslatologia o traduttologia perché tali termini mi paiono troppo pretenziosi e non vorrei aggiungere nuove –ologie o nuovi –ismi a quelli che già esistono […]. Il principale compito della teoria della traduzione è stabilire metodi traduttivi appropriati al maggior numero possibile di testi o di categorie testuali (Newmark 1981, 19 ).
Queste parole, l’incipit del capitolo What Translation is about, contenuto nel saggio Approaches to Translation – summa del suo pensiero sulla traduzione – definiscono con grande chiarezza e con grande coraggio sia la personale posizione di Peter Newmark nei confronti della teoria, sia il compito – benjaminiana Aufgabe – che questa deve eseguire, compiendo la missione che dà ragione del suo esistere: essere un valido ausilio al traduttore e, quindi, alla traduzione.
Teoria e traduzione sono dunque due dimensioni diverse e tuttavia assolutamente complementari, di pari dignità, l’una ancella dell’altra, unite e incarnate nella persona del traduttore che accoglie e affronta l’impresa di dar voce alle verità fondamentali del testo: verità estetica, allegorica, logica e linguistica (Newmark 2004). La traduzione attiene alla verità morale e fattuale e può essere effettivamente resa soltanto se colta dal lettore: tale è il fine ultimo della traduzione, autentica arma contro l’inganno, la mistificazione, l’ignoranza e la reticenza, contro il parlare oscuro, almeno dal tempo di Lutero (Newmark 1991).
Oggetto di studio della teoria della traduzione, sostiene Newmark, sono le possibili scelte e decisioni e non i peculiari meccanismi della lingua di partenza o della lingua di arrivo. Essa inoltre deve fornire almeno un’idea: della relazione che intercorre tra pensiero, significato e lingua; degli aspetti universali, culturali e individuali del linguaggio e del comportamento; delle modalità attraverso le quali è possibile accogliere e comprendere le culture; dei percorsi che conducono all’interpretazione dei testi, a loro volta resi più chiari e addirittura integrati dalla traduzione. È proprio soltanto la pratica – insiste poi questo teorico costantemente orientato alla pratica della traduzione – a generare ipotesi e asserzioni inerenti alla traduzione e ogni affermazione in merito deve poter essere sempre avvalorata da esempi derivati da testi originali e dalle relative versioni in altre lingue. In una breve annotazione pubblicata sulla rivista «The Linguist» nel settembre del 1993, Newmark si sofferma ancora una volta sul concetto di «teoria della traduzione», estendendo la sua riflessione addirittura verso gli spazi sconfinati della teoria tout court:
definisco teoria un’idea che, una volta sottoposta a verifica, possa essere impiegata per spiegare qualcosa. Se tale idea non è ampiamente provata – e mai, tuttavia, può esserlo del tutto – o se non si regge, con il conforto della prova, a favore o contro qualcosa, essa è priva di senso, incompleta e inutile. Una teoria che sia più valida di un’ipotesi e meno certa di un teorema richiede una rigorosa impostazione metodologica e adeguate esemplificazioni (Newmark 1998, 49).
E comunque non manca di sottolineare, questo teorico sui generis, una realtà di fatto, se non una constatazione universale, con parole che suonano come un monito: «spesso si impara più dalla pratica che dalla teoria» (Newmark, 1998, 49). E il termine ‘pratica’ è qui l’impropria, infedele corrispondente di evidence, termine che rinvia, in virtù del suo complesso di significati e della derivazione etimologica, all’idea di ‘evidente’, ‘visibile’, ‘chiaro’. È dunque spesso l’evidenza a insegnare al traduttore: a indicargli la strada.
Se il primo compito del traduttore è comprendere il testo mediante un’attenta analisi al fine di individuare un metodo traduttivo adeguato, la teoria interviene a suggerire alcuni criteri e priorità utili per esaminare il testo da tradurre. Innanzi tutto è importante identificare l’intenzione del testo. Il traduttore dovrebbe poi, precisa Newmark, interrogarsi sulla sua propria intenzione: ambisce ad assicurare che la traduzione acquisisca la stessa carica emotiva e persuasiva dell’originale? O desidera piuttosto trasmettere del testo scritto nella lingua di partenza il sapore culturale, quella alchemica combinazione di linguaggio idiosincratico e di regionalismi? O, ancora, si pone l’obiettivo di raggiungere un lettore che non conosce il contesto culturale del testo originale e che dalla traduzione si aspetta spiegazioni e chiarimenti per ogni termine che alluda a referenti che pertengono a una cultura diversa? Altro fondamentale interrogativo che il traduttore deve porsi riguarda il lettore e la collocazione del testo: chi sarà il destinatario della traduzione? Quale sarà la sua estrazione sociale e quale il suo grado di istruzione? Sarà un lettore informato o ignaro? E poi, quale sarà il contesto editoriale che accoglierà il testo? Le risposte a tali domande aiuteranno il traduttore a individuare il livello di lingua, o registro, da adottare (gergo burocratico o amministrativo, formale, informale, colloquiale, popolare), il grado di emotività da conferire al tono generale (intenso, caldo, neutro, freddo, distaccato, oggettivo), infine il grado di intelligibilità del linguaggio da impiegare (universalmente comprensibile, di livello medio, accessibile a chi possiede un’istruzione superiore, tecnico, ecc.). Le ultime riflessioni del traduttore, quelle che immediatamente precedono l’avvio del percorso traduttivo, quindi il corpo a corpo con il testo riguardano la qualità dello stile e l’autorevolezza dell’originale: se è ben scritto (cioè se forma e contenuto hanno pari importanza e le parole costituiscono una componente essenziale delle idee) e se l’autore dell’originale è un’autorità riconosciuta dell’argomento trattato dal testo, il traduttore deve prestare attenzione a ogni sfumatura di significato, prioritaria rispetto alla reazione del lettore. La lettura, la lettura profonda per antonomasia, quella compiuta dal traduttore, contempla quindi il momento essenziale dell’ascolto.
La riflessione di Newmark evoca ciò che Gorge Steiner rivelerà in un intenso saggio dedicato alla lettura (The Uncommon Reader in No Passion Spent. Essays 1978-1995). L’ascolto, cortese, del testo implica una risposta da parte del lettore, quale atto di accoglimento di un dialogo, ispirato, in primo luogo, dalla responsabilità:
leggere bene […] significa essere responsabile davanti al testo. La parola inglese obsoleta “responsion” che indicava (e indica tuttora a Oxford) il processo di interrogazione e risposta, può riassumere i vari stadi complessi della lettura attiva (Steiner 1997, 12).
Newmark spiega con chiarezza ciò che la teoria non può fare e ciò che essa può fare: innanzi tutto non può trasformare un cattivo traduttore in un buon traduttore; in secondo luogo, essendo la traduzione un’arte, oltre che un’abilità e una scienza, la teoria non può insegnare a scrivere bene. Può però rivelare tutti gli elementi che il processo della traduzione implica – o può implicare – proponendo norme e orientamenti ai quali il traduttore si volgerà per poi operare le proprie scelte e prendere le decisioni più opportune. Dal momento che ogni generalizzazione teorica deve necessariamente trarre origine dalla pratica ed essere illustrata da esempi e da proposte di traduzione – la teoria, al pari della traduzione, non conosce confini, il che rende imperativo il riferimento ad applicazioni concrete – molto resta ancora da fare (Newmark 1981).
Allo stretto rapporto fra teoria e pratica, tra formulazioni ed esempi, Newmark torna più volte, facendosi carico in quanto, appunto, teorico, di tutta la responsabilità che ogni guida, o accompagnatore, si assume procedendo cauto e lento, illuminando il cammino con una piccola luce:
Mi sento a disagio se, nel trattare di traduzione, scrivo più di dieci righe senza indicare un esempio, in parte per spiegare, illustrare e suffragare la mia “teoria”, in parte per suscitare reazioni a favore o contrarie, nella speranza di trovare un rapprochement, un compromesso, se non un accordo (Newmark 1991, 6).
Ritiene del tutto inutile la continua, inarrestabile produzione di formulazioni teoriche, soprattutto di quelle che ricorrono a modelli matematici, diagrammi, simboli alfabetici o che evocano riferimenti erroneamente definiti «esempi», non tratti, cioè, da citazioni reali o inventate, in lingua originale, seguite dalle relative proposte di traduzione. La teoria della traduzione troverà la sua più autentica ragion d’essere, nel futuro, come teoria della traduzione applicata e non pura, volta quindi a considerare suo precipuo oggetto di indagine il particolare e non l’universale. Newmark enumera gli ambiti nei quali la traduzione, svolgendovi un ruolo importante, dovrà diventare oggetto di indagine della teoria: linguistica comparata, terminologia, critica della traduzione, traduzione automatica, studi culturali comparati, sociologia della traduzione. Ancora, e più specificamente, la teoria potrà proporre o indicare metodi o principi per tradurre i dialetti, i giochi di parole, l’ironia, la parodia, i più vari generi testuali; potrà fornire strumenti utili all’analisi diacronica delle traduzioni di opere letterarie, quindi allo studio della ricezione dei loro autori nelle diverse culture; saprà essere un riferimento, infine, anche per le minutiae della traduzione – punteggiatura, composizione di titoli, caratteri tipografici, spaziatura, uso delle lettere maiuscole – in quanto elementi portatori di significato.
Lo studioso, in tono appassionato, sottolinea che l’idea, fuorviante, ma diffusa, che la traduzione sia neutrale e non abbia nulla a che vedere con i diritti umani o con il bene degli esseri umani è dura a morire, esattamente come dura a morire è l’idea che l’arte o lo sport non abbiano nulla a che vedere con la politica: la traduzione è un fatto umano. E fatto umano è anche la lingua che è sì regolata da norme, tuttavia si evolve soprattutto proprio trasgredendo quelle stesse norme. La traduzione segue la lingua, e dove l’originale innova, il traduttore è costretto a innovare; dove l’originale presenta termini specifici della cultura di cui è espressione, il traduttore è libero di essere creativo. La norma è così violata dal gioco, da una creatività circoscritta, da una libertà vigilata.
L’unica, vera vocazione e legittimità della teoria della traduzione non è dunque presentare teorie, bensì, essenzialmente, aiutare chi traduce a prendere delle decisioni, semplicemente indicando tutte le possibili opzioni con i relativi meriti e demeriti e dispensando consigli (Newmark 1998, 22).
In Newmark la visione della teoria – e la sua idea di traduzione sulla quale ci si soffermerà in seguito – è espressione e riflesso, almeno in parte, della sua storia personale. Una storia complessa, ricca di avvenimenti, ognuno con il suo potente riverbero sulle più profonde dimensioni, emotiva, innanzitutto, ma anche, poi, intellettuale della personalità dello studioso.
Di padre inglese, Peter Newmark era nato a Brno (allora nell’impero austro-ungarico, tre anni dopo in Cecoslovacchia, oggi in Slovacchia) nel 1916; all’età di cinque anni lasciò la città natale per trasferirsi in Inghilterra, dove il padre possedeva un’impresa tessile, ma per tutta la vita avrebbe conservato in sé una profonda affezione per la sua terra d’origine. Gli anni della formazione, tra i sei e i diciotto, durante i quali ricevette un’educazione classica, furono anni piuttosto tristi: lui stesso ebbe più volte occasione di ricordare, in seguito, il clima cupo dell’istituto di Rugby, i cui principi educativi – «la ragione è superiore all’emozione e la conoscenza, per sua stessa vocazione, è la più elevata forma di conoscenza» (Pedrola 1999, 17) – si scontravano con il precoce quanto radicato sentimento di libertà interiore che animava il giovanissimo Peter. Ma nel 1934 l’ammissione al Trinity College di Cambridge segnò una svolta importante. Qui ebbe modo di studiare il francese e il tedesco; di occuparsi di teatro e di letteratura; qui, soprattutto, incontrò due docenti che gli avrebbero svelato scenari del tutto inediti e inimmaginati: Raymond Leavis, studioso di letteratura inglese, e Sean O’Casey, drammaturgo irlandese, gli insegnarono a cercare e a riconoscere gli aspetti estetici e morali della letteratura, «i più profondi e migliori commenti all’umana esistenza» (Pedrola 1999, 17); gli fecero dono degli strumenti che gli avrebbero consentito di apprezzare e amare il teatro, la musica classica e ogni espressione letteraria. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Newmark si arruolò nell’esercito britannico. Venne reclutato nella VIII armata e, dopo due anni di servizio prestato in madrepatria, ricevette un’assegnazione all’estero: nel 1943 sbarcò in Italia. Qui gli venne attribuito il compito di fare da interprete negli incontri tra gli ufficiali tedeschi e gli ufficiali britannici, e a Bolzano passò la sera dell’8 maggio 1945, a discorrere di poeti romantici tedeschi con gli ufficiali nazisti che si erano arresi. Il giorno seguente giunse la notizia della capitolazione della Germania e della firma della resa: per celebrare l’evento il giovane Peter ordinò tre bottiglie supplementari di champagne per l’ufficiale interprete tedesco e, con sua grande sorpresa, l’ordine venne eseguito senza indugio (Bell 2011). Non si può non individuare in questo episodio la forza propulsiva di un insegnamento che presto si sarebbe trasformato in autentico credo, in fondamentale principio ideologico: la traduzione è comprensione dell’altro, la traduzione è comunicazione e dialogo.
Newmark si trattenne in Italia qualche tempo dopo la fine del conflitto, arricchendo il suo patrimonio linguistico con l’apprendimento dell’italiano. Rientrato in Gran Bretagna, decise di dedicarsi all’insegnamento delle lingue straniere, accogliendo una sorta di chiamata, a sua volta originata da un’autentica e profonda, mai tradita, vocazione. Insegnò alla secondary modern school a Hull, poi in una grammar school e al Guildford Technical College a Londra, destinando alla traduzione, nella sua metodologia didattica, uno spazio e un ruolo sempre più ampi e sempre più importanti, in un contesto pedagogico, quale quello britannico degli anni Cinquanta e Sessanta, caratterizzato da una diffusa avversione ad attribuire alla pratica della traduzione una qualche funzione significativa.
Nel 1958 venne nominato direttore del dipartimento di Lingue Moderne presso il Holborn College of Law, Language and Commerce, l’attuale Università di Westminster, e proprio da questo momento Newmark cominciò a dare forma scritta alle sue riflessioni sulla traduzione, di continuo alimentate e rinnovate dall’esperienza dell’insegnamento:
Scrissi il mio primo articolo sulla traduzione per il «Journal of Education» molto tempo fa, ma cominciai a scrivere sul serio su questo argomento intorno agli anni Sessanta. Che cosa mi attirava della traduzione? Molte cose: è il modo in cui si comunica con gli altri. E poi la traduzione è un cruciverba, è qualcosa di molto affascinante, e mi piace tradurre per le stesse ragioni: perché si deve tentare di mettere insieme i pezzi; non è soltanto un lavoro, è anche un gioco e aiuta a capire la gente (Pedrola 1999, 20).
Nel 1978 Newmark fu nominato decano della facoltà di Lingue moderne, carica che mantenne fino al 1981, quando ottenne l’onorevole titolo di «professore emerito», conferitogli, oltre che per motivi accademici, anche per la pubblicazione del suo primo saggio dedicato alla traduzione, Approaches to Translation, mentre l’anno seguente fu il primo accademico britannico a essere insignito del titolo e del ruolo di Visiting Professor in Translation Theory presso l’Università del Surrey. Alla sua prima opera, a tutt’oggi la più nota, di teoria della traduzione, seguirono altre pubblicazioni: A Textbook of Translation (1988), About Translation (1991), Paragraphs on Translation (1993), More Paragraphs on Translation (1998). E la sua fama di teorico acquisì carattere internazionale: interveniva in dibattiti e convegni dedicati alla traduzione in ogni parte del mondo; era invitato a partecipare a commissioni esaminatrici in concorsi internazionali, e insignito di lauree e titoli accademici onorari, come il dottorato honoris causa in traduzione conferitogli nel 1995 dalla Scuola superiore di lingue moderne per interpreti e traduttori dell’Università di Trieste, seguito da un secondo dottorato, conferitogli dalla Hong Kong Baptist University nel 1998.
Può essere interessante osservare, nelle diverse culture, la varietà di reazioni al pensiero di Newmark manifestata mediante la diffusione dei suoi scritti. Essi vengono letti in lingua originale in Portogallo, Francia, Germania, Olanda, Norvegia, Svezia, Danimarca, Finlandia, Repubblica ceca, Serbia. In alcuni altri paesi è stata approntata la traduzione del manuale A Textbook of Translation, cioè del suo contributo meno teorico e più di ogni altro orientato verso la pratica della traduzione come oggetto di attività didattica e formativa. Ne esistono una versione in castigliano (Manual de traducción, trad. di Virgilio Moya, Madrid, Cátedra, D.L., 1992); una in galiziano (Manual de traducción, trad. di Francisco Xabier Fernández Polo, Santiago de Compostela, Universidade, Servicio de Publicacións e Intercambio Científico, 1993); e una in sloveno (Učebnik prevajanja, a cura di Dušan Gabrovšek e Mateja Gajgar, Ljubljana Krtina 2000). In lingua italiana esiste invece, anche se in questo momento di difficilissima reperibilità, la versione condotta da Flavia Frangini del suo saggio più noto e più importante, il già citato Approaches to Translation (La traduzione. Problemi e metodi, Garzanti, Milano 19942; la prima edizione è del 1988).
Seppur ridotta, l’attività didattica continuò, sostenuta da una passione innata e inesauribile e lo accompagnò fino alla fine dei suoi giorni: ancora nei primi mesi del 2011, all’età di novantacinque anni, teneva corsi in qualità di visiting professor all’Università del Surrey.
Peter Newmark si è spento il 9 luglio 2011.
La novità che il pensiero di Newmark conferisce al dibattito, acceso quanto, non di rado, infecondo, intorno alla traduzione consiste – e ancora una volta la sua visione del mondo e dell’umanità mutuata dalla sua biografia si rivela straordinario strumento ermeneutico – nel riconoscere, nel percorrere, quindi nell’indicare la via del dialogo. I due metodi di traduzione, letterale (propugnata da intellettuali e letterati come Croce, Ortega y Gasset, Benjamin, Valéry e Nabokov) e libera (invocata da linguisti e studiosi di comunicazione come Nida, Firth, Koller) nella prospettiva svelata da Newmark appaiono conciliati in uno scenario nuovo, ampio, aperto, dove la ricchezza e la molteplicità del verbo umano, capace di esprimersi nelle più svariate forme testuali e in multiformi contesti, beneficiano di un’adeguata resa, speculare all’originale. Il conflitto di fedeltà – osserva Newmark -, il divario che oppone da un lato la rilevanza attribuita al testo originale e, dall’altro, l’importanza assegnata al testo tradotto costituisce ora e costituirà sempre il punto nodale di ogni problema sia esso teorico o pratico, in materia di traduzione (Newmark 1981, 38). E tuttavia l’asprezza del conflitto e la profondità del divario risulterebbero notevolmente ridimensionate da una mera ricollocazione, innanzi tutto terminologica, dei due metodi: la traduzione letterale, fedele, orientata verso il testo originale, diviene «traduzione semantica», source-oriented; mentre la traduzione libera, idiomatica, orientata verso il lettore della lingua d’arrivo, diviene «traduzione comunicativa», target-oriented. La prima mira a rendere, entro i limiti consentiti dalle strutture sintattiche e semantiche della lingua d’arrivo, il preciso significato contestuale dell’originale; la seconda tende a produrre sui suoi lettori un effetto simile – in quanto l’equivalenza perfetta, in tal senso, appartiene al dominio del chimerico – a quello prodotto sui fruitori del testo originale.
I due metodi, precisa Newmark, differiscono profondamente: se la traduzione semantica permane entro i confini della cultura di cui il testo originale è emanazione, la traduzione comunicativa si rivolge unicamente al secondo lettore, che non si aspetta di dover affrontare nel testo passi semanticamente oscuri o sintatticamente complessi e che anzi sa di poter contare su una generosa opera di naturalizzazione degli elementi estranei alla sua cultura di appartenenza. La vocazione di una resa semantica è quella di trasferire nel testo in lingua d’arrivo, possibilmente, tutte le stratificazioni semantiche del contenuto originale; l’attitudine di una resa comunicativa si identifica, invece, nell’espressione della forza, appunto comunicativa, del testo originale. L’esempio proposto dallo studioso è illuminante non soltanto per cogliere l’essenziale differenza tra i due metodi, bensì anche, se non soprattutto, per comprendere la fondamentale importanza del contesto d’uso, quindi della finalità comunicativa, elementi, questi ultimi, che conferiscono a entrambi i metodi traduttivi pari dignità e legittimità, rendendo il traduttore, di conseguenza, libero ogni volta di operare delle scelte e, nel contempo, responsabile dei relativi esiti. Tradurre in maniera semantica, spiega Newmark, l’espressione Bissiger Hund con «cane che morde» o «cane mordace» o, analogamente, Chien méchant con «cane cattivo» equivale a produrre un messaggio preciso e densamente informativo, tuttavia inefficace e inosservante del contesto e della funzione, che invece impongono la resa «attenti al cane».
Una versione comunicativa, rispetto a una resa semantica, è sicuramente più scorrevole, più semplice e chiara, più diretta e convenzionale; tende a ipotradurre, cioè a impiegare termini generici per risolvere passi difficili. La traduzione semantica è invece più complessa, talvolta goffa, addirittura, più dettagliata; tende a ipertradurre, vale a dire ad aggiungere elementi lessicali o grammaticali per sciogliere, quindi spiegare, i passi difficili. I due metodi illustrati da Newmark hanno sì destinazioni diverse: la maggior parte dei testi richiederebbe, infatti, una strategia traduttiva di tipo comunicativo (testi giornalistici, articoli e opere di divulgazione, manuali, relazioni, pubblicazioni di argomento scientifico o tecnologico, corrispondenza non personale, presentazioni di carattere propagandistico, testi pubblicitari, avvisi pubblici, letteratura di genere), mentre l’approccio semantico sarebbe riservato a un numero ristretto di tipologie testuali (opere classiche, corrispondenza personale e ogni testo in cui l’espressione dell’io dell’autore sia importante quanto il contenuto del testo), tuttavia possono coesistere all’interno di uno stesso testo o, addirittura, di uno stesso paragrafo, capoverso, perfino di una proposizione. Così, ogni porzione di testo può rivelarsi più o meno semantica, più o meno comunicativa.
La strategia comunicativa consente al traduttore di migliorare, se necessario, lo stile dell’originale, cioè di esprimere con maggiore efficacia l’esposizione nella lingua di partenza; di perfezionare i procedimenti logici insiti nel testo; di sostituire eventuali strutture sintattiche involute o farraginose con costrutti eleganti o, quanto meno, funzionali; di eliminare passi oscuri o ambigui, ripetizioni e tautologie; di modificare o esplicitare espressioni gergali; di normalizzare le eccentricità di certi idioletti o gli usi irregolari della lingua standard; infine di emendare gli errori di fatto. Tali interventi, migliorativi o correttivi, sono invece considerati inammissibili nell’applicazione del metodo semantico (nel saggio About Translation Newmark condensa e precisa in una tabella contrastiva i tratti peculiari e distintivi delle due strategie).
Newmark conduce però la sua riflessione di là dai territori del pensiero nettamente contrassegnati dai confini della normatività e della categorizzazione. Libera la riflessione dai ceppi dell’astratto schematismo traduttologico e precisa che se l’analisi dei due metodi traduttivi presi in esame induce ad applicare la strategia semantica alla cosiddetta «letteratura seria», cioè alle opere d’arte, tuttavia è importante tenere presente – a meno di disconoscere un fondamentale aspetto dell’arte letteraria – che l’arte, essendo, in ogni sua espressione, e in una certa misura, allegorica, figurativa, metaforica ha una profonda vocazione comunicativa; di conseguenza il linguaggio figurato si fa latore di significati soltanto se adeguatamente ricreato nella lingua e nella cultura di arrivo e nel caso in cui tale metamorfosi non risulti possibile, suggerisce Newmark, metafore, similitudini e altre risorse della retorica potranno essere esplicitate, cioè ridotte al senso che esse esprimono.
La traduzione semantica mira quindi a ricreare il sapore e il tono dell’originale: le parole sono «sacre» non perché siano più importanti del contenuto, bensì perché forma e contenuto coincidono; analogamente nella traduzione comunicativa i processi del pensiero rivelati dalle parole hanno la stessa importanza dell’intenzione in esse celata; di conseguenza se la prima si colloca, tendenzialmente, fuori dal tempo e dallo spazio, la seconda è effimera e radicata in un contesto. Una suggestiva sintesi della riflessione che Newmark dedica a questo argomento, così conferendogli carattere di universalità, è resa dalle parole dello studioso stesso: «la distinzione fra traduzione semantica e comunicativa […] dimostra come la teoria della traduzione riguardi non soltanto la filosofia del linguaggio, bensì anche la filosofia in sé, intesa nella sua più antica accezione, quando valeva per “interpretazione del significato della vita”» (Newmark 1981, 52).
A priori – osserva lo studioso britannico – la traduzione letteraria presenta, rispetto a ogni altro genere di traduzione, la maggiore quantità e la maggiore varietà di problemi, poiché la lingua in cui il testo originale è scritto è parte integrante del significato del testo stesso, e gli aspetti formali acquisiscono, non di rado, fondamentali valenze semantiche. La resa della parola poetica, che si avvale di tutte le possibili risorse del linguaggio, rappresenta dunque il più arduo compito per un traduttore, che deve essere dotato, inoltre, di abilità empatica. In More Paragraphs on Translation Newmark sintetizza e raccoglie le sue Notes on Literary Translation in dodici punti: l’ultimo, il dodicesimo, richiama, perfezionandone il senso profondo, l’asserzione inerente alla peculiare complessità della traduzione letteraria: «il linguaggio letterario è, in sostanza, la riproduzione del linguaggio parlato, è un dialogo tra scrittore e lettore» (Newmark 1998, 202). Egli si sofferma su un particolare genere letterario e sui peculiari caratteri della sua traduzione: il racconto breve, da lui definito «dopo la poesia l’espressione letteraria più intima e personale» (Newmark 1993, 48). Ne specifica l’essenza, che individua nei caratteri di compattezza, semplicità, coesione, condensazione, e raccomanda al traduttore di non dimenticare che il potere simbolico e connotativo del racconto breve trascende il suo realismo e gli effetti denotativi. Indica poi i tratti distintivi che della short story il traduttore dovrebbe considerare. La struttura, innanzi tutto: le frasi di apertura e di chiusura sono spesso collegate fra loro e, insieme con il titolo, fanno riferimento al tema della narrazione e al suo scioglimento. Fondamentali, ovviamente, le keywords e i Leitmotive; la ricorrenza di immagini, frasi o parole, come pure la cifra stilistica dell’autore – le sue parole e le sue strutture tipiche – costituiscono l’architettura formale, letteraria, del racconto e in quanto tale deve essere riprodotta nella traduzione. Newmark richiama l’attenzione del traduttore sui riferimenti culturali (locali) e universali (enciclopedici), oltre che sulle metafore, anch’esse di carattere culturale o convenzionale, inducendolo a prendere delle decisioni in merito a quanto, di quei contenuti, può essere riprodotto totalmente o trasmesso in parte, spiegato oppure eliminato. Quanto al registro, conforme a un preciso genere letterario, consolidato dalla tradizione della cultura cui il testo originale appartiene, secondo lo studioso dovrebbe essere riprodotto e non, quindi, adattato nella versione in lingua d’arrivo, in tal modo apportando nuovi arricchimenti alla target literature.
Visibile o invisibile deve essere la traduzione? E, di conseguenza, il traduttore?, si domanda Newmark. La risposta è contenuta in un ragionamento interessante che, ancora una volta, esclude prospettive assolute. In linea di principio – afferma – si sarebbe indotti a ritenere che la traduzione di un testo caratterizzato dall’esposizione di fatti e idee, o da contenuti marcatamente persuasivi sia, o si proponga di essere, nell’essenza, invisibile, a meno che non intenda catturare l’attenzione del lettore, per esempio su un impianto sintattico non convenzionale o su parole ed espressioni straniere. Tuttavia la traduzione di un testo contraddistinto da peculiari strutture sintattiche e semantiche o addirittura anomale dovrebbe, o deve, essere visibile e così, dunque, il traduttore (Newmark 1991, 34).
Bibliografia
Bell 2011: Tony Bell, Peter Newmark obituary. Champion of the study of translation, in «The Guardian», 28 settembre 2011 (http://www.guardian.co.uk/education/2011/sep/28/peter-newmark_obituary)
Newmark 1981: Peter Newmark, Approaches to Translation, Pergamon Press, Oxford-New York-Toronto- Sidney-Paris-Frankfurt 1981 (traduzione italiana: La traduzione. Problemi e metodi, di Flavia Frangini, Garzanti, Milano 1988 e 19942)
Newmark 1988: Peter Newmark, A Textbook on Translation, London, Prentice Hall, 1988
Newmark 1991: Peter Newmark, About Translation, Multilingual Matters, Clevedon-Buffalo-Toronto-Sidney 1991
Newmark 1993: Peter Newmark, Paragraphs on Translation, Buffalo, Toronto, Sidney, Multilingual Matters, Ltd, 1993
Newmark 1998: Peter Newmark, More Paragraphs on Translation, Multilingual Matters, Buffalo-Toronto-Sidney 1998
Newmark 2004: Peter Newmark, Non Literary in the Light of Literary Translation, in «JoSTrans. The Journal of Specialized Translation», 01, January 2004 (http://www.jostrans.org/issue01/art_newmark.php)
Pedrola 1999: Monica Pedrola, An Interview with Peter Newmark, in Word, Text, Translation. Liber amicorum for Peter Newmark, ed. by Gunilla Anderman and Martin Rogers, Multilingual Matters, Buffalo-Toronto-Sidney 1999, pp. 17-22
Steiner 1996: George Steiner, No Passion Spent. Essays 1978-1995, London, Yale University Press, 1996 (traduzione italiana: Nessuna passione spenta. Saggi 1978-1995, di Claude Béguin, Garzanti, Milano 1997)