di Paola Mastrocola
Tradurre vuol dire “portare di là”. Per prima cosa è un movimento, da un luogo a un altro. E presuppone un oggetto che debba essere portato di là. Chiaro che quell’oggetto è il senso. Ogni volta che decidiamo di tradurre, è perché vogliamo “portare il senso” da noi a qualcun altro, a qualcuno di cui ci importa. Vogliamo… farci capire. Traduciamo perché desideriamo fortemente che all’altra persona arrivi il senso. Dunque tradurre non è solo un movimento, è una tensione: è tendere all’altro, uno dei gesti più sociali che l’essere umano (animale sociale, appunto) possa compiere.
Forse nella vita non facciamo altro che tradurre: caparbiamente, amorevolmente, cerchiamo di farci capire. Ogni giorno, da sempre. Non è facile, perché abbiamo un problema: tutti noi conteniamo un segreto (anzi, tutti noi siamo un segreto), qualcosa che se ne sta chiuso in noi, una specie di grumo fatto di pensieri, emozioni, immagini, che non si districa da solo, ma ha bisogno di un mezzo. Quel mezzo sono le parole. Parlare non è altro che è un tentativo, il migliore possibile, di tradurre i nostri pensieri, di “passarli di là”, verso qualcuno che ci è davanti o che ci sta lontano e che con le parole, a dispetto della difficoltà e della distanza, vogliamo raggiungere. Altrimenti, resteremo un segreto a tutti.
Voler essere capiti, volere che il senso arrivi è il nostro fine. Ecco, il verbo arrivare… Arrivare agli altri.
Scrivere è certamente un’opera di traduzione. Ci viene, a un certo punto della vita (magari già nell’infanzia, o in piena adolescenza), un desiderio smodato di sciogliere il grumo, schiudere lo scrigno che tiene chiusi i pensieri e finalmente mostrarli. Così, per necessità, per dare un veicolo a questo bisogno che è in noi ormai prepotentissimo, impariamo a usare le parole, a impiegarle per il nostro fine. E a mano a mano che cresciamo, affiniamo l’arte, troviamo le parole migliori, le immagini più potenti, le storie che meglio traducano, cioè portino di là, agli altri, i nostri pensieri.
Non è esattamente il passaggio da un testo a un altro testo, come siamo abituati dall’idea classica di traduzione, dove c’è un testo in lingua 1 che deve essere portato-trasformato in un testo in lingua 2. I pensieri non hanno una consistenza testuale, verbale: sono un magma, qualcosa di indistinto e ancora indistricato; per tenere la stessa metafora tessile della parola testo, i pensieri sono solo dei fili, fili di una stoffa che non è stata ancora tessuta. Diciamo che il testo diventa la traduzione dei pensieri, la loro avvenuta texture.
Ma la vera traduzione è passare da un testo a un altro, mi si dirà. D’accordo, stiamo pure a questa originaria sostanza. Ma non per forza deve essere il passaggio da una lingua a un’altra. Può essere qualcosa di diverso. La parafrasi, per esempio.
Io adoro la parafrasi. Essendo insegnante, la pratico ogni giorno, per mestiere. Parafrasi significa semplicemente “dire con altre parole”. In genere la associamo alla scuola, a quel particolare esercizio scolastico che consiste nella versione in prosa di un testo poetico. Classica la parafrasi dall’Iliade (traduzione del Monti, naturalmente…): «Cantami, o Diva, del Pelide Achille / l’ira funesta che infiniti addusse / lutti agli Achei». Si tratta di trovare altre parole per dire la stessa cosa, parole più semplici, più vicine a noi, e in una sintassi più lineare. Per esempio: O Musa, aiutami a narrare l’ira mortale di Achille figlio di Peleo, che portò infiniti lutti agli Achei. Una cosa così. Più chiara, più piana.
Il fine di ogni parafrasi è sicuramente di rendere più comprensibile il testo, più accessibile a tutti: ancora una volta, farsi capire! Ma a volte non ci basta, sentiamo il bisogno di aggiungere altre parole, sinonimi, giri di frase, spiegazioni. Vogliamo chiarire meglio, ampliare il discorso, andare più addentro… Per esempio ci viene da far notare che la parola “funesta” ha in sé la parola latina funus che vuol dire morte e da cui viene funerale, e allora sì, noi abbiamo “tradotto” ira mortale, ma forse sarebbe stato meglio mortifera, letale… È un’ira che porta morte, che adduce lutti. Insomma, la parafrasi si trasforma inevitabilmente in commento, o meglio, ci conduce al commento. Il confine è labile. Parafrasare è anche commentare.
E che cos’è il commento (il tanto criticato e negletto commento, messo al bando dalle nuove pedagogie!) se non un infinito e accorato “parlare intorno”, “dire con altre parole” e quindi “tradurre”? Siamo sempre lì: parliamo per farci capire. Moltiplichiamo parole, le variamo, ci sforziamo di accompagnarle con sinonimi e perifrasi continue al solo fine di essere più chiari e quindi di “arrivare” meglio, più diretti, alle orecchie, alla mente dell’altro, allievo, amico, figlio…: l’altro che ci sta davanti e al quale noi vogliamo “far capire”.
Non importa che ci siano due lingue. La parafrasi è una traduzione da una lingua… alla stessa lingua. La parafrasi ha a che fare con il tempo più che con il luogo, come invece accade per la traduzione vera e propria, che deve trasportare un testo da un Paese a un altro Paese; no, con la parafrasi portiamo il testo da un tempo a un altro, per esempio trasportiamo l’italiano medievale di Dante all’italiano nostro corrente, travalicando sette secoli. Perché lo facciamo? Perché ci sono opere che sembrano scritte in una lingua straniera solo perché appartengono al passato. Per questo ci sembramo lontane, e ostiche. Facciamo fatica a leggerle, e tendiamo ad abbandonarle. È un grosso guaio. Vuol dire condannare grandi capolavori all’oblio. Non possiamo permettercelo. Per questo oggi alcuni scrittori propongono di riscrivere quelle grandi opere in una lingua più facile, più vicina. Baricco per esempio ha riscritto l’Iliade, e parte del Moby Dick. Ha voluto salvare quelle storie perché, dice, sono narrazioni imperdibibili che però, essendo ora noi incapaci di leggerle, andrebbero perse. La riscrittura dunque come forma di salvezza, come sistema per tenere in vita i libri del passato. E riscrivere non è forse tradurre?
Ma la nostra attività di traduzione-parafrasi non avviene solo a scuola, e non riguarda solo i libri. Ci capita ogni giorno di continuo di “parafrasare”, di dire all’infinito e sempre meglio, trovando le parole più giuste, quel che pensiamo, quel che ci è successo, quel che vorremmo. Parafrasiamo con gli amici, i figli, i genitori, i parenti, i negozianti… Diciamo una cosa e, siccome non ci è parso di dirla nel modo più chiaro, la ripetiamo variata: per spiegarla, per illuminarla. Perché l’altro ci capisca, cioè entri nella nostra testa, a “leggere” quel che volevamo dire.
Anche la digressione. Quando partiamo da un particolare e ci avviamo per certe stradine laterali al discorso… Come quando prendiamo per certi viottoli lasciando la strada maestra: cos’altro è una digressione se non il tentativo, di nuovo, di farsi capire, di dire meglio, con altre parole, addirittura con altre storie? C’è sempre l’idea di un trasporto, di un trasloco: portare il senso “di là”, in un aldilà dove abita l’altro che vogliamo raggiungere.
L’unico rischio è di perdersi. Se il commento-digressione mi prende troppo, io so da dove son partito ma non so dove arrivo e nemmeno quali luoghi attraverso; non ho limiti da rispettare, confini entro cui stare. Posso… spaziare. Sono molto libero, direi che sono senza legami, senza freni, senza regole. Mi guida una sola stella: far capire all’altro quel che mi preme. Ma davanti al mare aperto, ci si inebria talmente che si può smarrire la direzione. E allora la cosa che volevo dire (il testo di partenza) sarà solo il pretesto: il testo d’arrivo era la meta, l’opera vera, l’oggetto che si voleva davvero creare. Il rischio del “parlare intorno” è che vinca l’intorno.
Quel che volevo dire è che oggi più che mai mi sembra che dovremmo, tutti, fare esercizio di traduzione: dovremmo costantemente metterci a portare di là un senso, e consegnarlo a chi non lo capisce, a chi non ha strumenti sufficienti…
Oggi più che mai, dico, perché uno dei problemi più gravi è che la gente non capisca quel che legge, che faccia fatica. Non solo a scuola, non solo i giovani. Per questo l’attività del tradurre-parafrasare, quel dire la stessa cosa in altro modo, in altra lingua, è per me una delle attività più importanti della vita sociale e culturale, a cui dovremmo dedicare gran tempo ed energie: spiegare, chiarire, appianare, sciogliere i nodi, illuminare le zone buie… affinché il messaggio sia, sempre e per tutti, comprensibile. Affinché il mondo sia leggibile, e trasparente.
Capire, e farsi capire. Senza questa basilare interazione fondata sul senso, mi pare davvero ardua ogni forma di convivenza sulla terra.