Macro e microadattamenti del testo drammatico

RIFLESSIONI SULLA TRADUZIONE DEL DIALOGO

di Paola Ciccolella

Per la sua doppia destinazione – lettura e rappresentazione scenica – il testo drammatico pone alcuni problemi di traduzione strettamente legati alle sue peculiarità. Il testo drammatico infatti è soggetto non solo alle interpretazioni dei lettori, ma anche alle molteplici possibilità interpretative realizzabili sulla scena. Inoltre, come è noto, il testo drammatico comunica su due livelli, o meglio su due assi della comunicazione: uno interno alla finzione, sul quale viaggiano i messaggi dei personaggi veicolati attraverso il dialogo teatrale, e uno esterno, che mette in contatto il testo, costituito essenzialmente dal dialogo, con il suo destinatario alla stessa maniera degli altri testi. Una sorta di doppio dispositivo di ricezione.

La traduzione che si svolge per il teatro è soggetta a molteplici variabili; con una certa frequenza e per diversi motivi, i suoi risultati determinano una situazione alquanto disordinata. Tuttavia la traduzione del testo drammatico ha una notevole importanza poiché, per le inevitabili scelte che il traduttore è chiamato a operare, dovendo giocoforza evitare ogni genere di nota redazionale, viene considerata una prima messa in scena del testo. Nel presente intervento affronterò tre argomenti principali: la questione dell’adattamento dei testi drammatici in rapporto alla loro pubblicazione e rappresentazione scenica, l’invecchiamento delle traduzioni a teatro, la traduzione del dialogo teatrale e i suoi tranelli.

1. Adattamenti

Secondo la mia opinione e la mia esperienza personale, il lavoro del traduttore di un testo drammatico risulta molto diverso a seconda se si è chiamati da un regista che ha già in mente uno spettacolo o se la traduzione viene realizzata senza una particolare occasione di spettacolo, magari pensando unicamente a una pubblicazione su una rivista o in un libro, oppure a un laboratorio di studenti di teatro. Il regista ha il potere di influenzare fortemente il traduttore, che potrebbe anche trovarsi a scrivere il copione di uno spettacolo già delineato. In teatro si sono sempre realizzati esperimenti interessanti e, nel caso di testi classici, in fondo tutto è lecito poiché sia le traduzioni che le versioni per la scena sono numerose ed è quindi anche interessante per gli studiosi e per gli spettatori operare confronti ed esprimere giudizi. Quando si ha a che fare con un testo drammatico di teatro contemporaneo, inedito nella lingua in cui si traduce, bisognerebbe invece essere particolarmente cauti con il metodo che si usa, poiché il rischio di operare delle scelte troppo caratterizzanti è molto elevato. Tuttavia devo riconoscere che nel corso degli anni anche la mia rigidità rispetto alle scelte traduttive dei testi contemporanei si è via via stemperata giungendo a soluzioni di compromesso sulle quali tornerò più avanti.

Gli esempi più frequenti di adattamento a teatro sono quelli relativi alle macrostrutture, alle circostanze spazio-temporali in cui si sviluppa la finzione. La motivazione che genera l’adattamento delle macrostrutture è che in alcuni casi il testo drammatico propone delle situazioni talmente legate al contesto culturale e alle convenzioni sociali del paese dell’autore che trasportate in un’altra cultura non provocherebbero lo stesso effetto, oppure non sarebbero comprese dal pubblico. In realtà la questione è assai complessa e ha generato in alcuni studiosi la convinzione che talvolta non si traduca una pièce ma un testo assente che si ispiri soltanto al testo originale.

In passato in nome della differenza dei contesti culturali e delle abitudini sociali sono state compiute delle vere e proprie operazioni di stravolgimento del senso di pièce teatrali. La cautela quindi deve essere usata soprattutto relativamente alla questione della pubblicazione del testo. Infatti resta incomprensibile il motivo per cui un adattamento, magari resosi necessario per una particolare messa in scena, venga pubblicato e diffuso come unico riferimento dell’opera per il lettore straniero, riferimento viziato da una particolare interpretazione registica. Forse l’editoria dovrebbe privilegiare la pubblicazione delle traduzioni integrali dei testi e non degli adattamenti che, pur essendo talvolta dei validissimi esempi di buon teatro, presentano una serie infinita di tagli e montaggi che costituiscono i segni di un’interpretazione e rivisitazione ben precisa.

Quando per uno spettacolo si procede a un adattamento forte del testo con una contestualizzazione spazio-temporale diversa, è importante, nell’eventuale pubblicazione di questa versione nella lingua di arrivo, specificare che si è trattato di un libero adattamento e che si è proceduto a una variazione per approdare a delle funzionalità del testo in un dato contesto socio-politico.

A questo proposito faccio un esempio interessante relativo a uno spettacolo di successo. Nel 2011 Alessandro Gassman ha portato in scena una pièce dal titolo Roman e il suo cucciolo, vincitrice del premio Ubu 2010, che ha trasposto poi nel cinema realizzando il suo primo film da regista, Razza bastarda. Lo spettacolo era un adattamento di un testo teatrale americano di circa 25 anni prima, Cuba and His Teddy Bear di Reinaldo Povod, reso famoso da una celebre interpretazione di Robert De Niro. Autore del testo italiano è il grande drammaturgo Edoardo Erba. In questa occasione Erba, trovandosi davanti a un testo ambientato nella comunità metropolitana newyorchese dei latinos, sceglie di cambiare il contesto culturale e cala la vicenda nella folta comunità rumena di Roma. Lo stesso Gassman adotterà nella recitazione una lingua teatrale artificiale basata su una sonorità cantilenante che mescola accenti delle lingue dell’est a dialetto romanesco. L’operazione è stata condotta magistralmente e in maniera totalmente onesta a partire dall’autore del copione fino al regista e agli attori; inoltre il cambiamento del contesto culturale era chiaramente esplicitato nei titoli, nei comunicati stampa e nelle dichiarazioni di tutti i protagonisti.

Tra le varianti della traduzione per il teatro esistono poi anche gli adattamenti delle microstrutture, che a volte si rivelano necessari anche se il lavoro non è commissionato da una compagnia per una messa in scena particolare. Per offrire un esempio di tale pratica farò riferimento a una mia traduzione molto complessa di un testo del drammaturgo francese Eugène Durif (Durif 1996). Tale esempio cercherà anche di spiegare meglio il cambiamento di atteggiamento della sottoscritta riguardo ai micro-adattamenti dei testi cui accennavo prima. La traduzione mi era stata commissionata nel 1997 dall’Associazione Teatro Verdi di Pisa, organizzatore principale di Prima del teatro (Scuola Estiva Internazionale di Teatro, San Miniato – PI), su suggerimento del CISD – Centro La Loggia, che all’epoca si occupava proprio di traduzione per il teatro; il testo doveva servire da base per un laboratorio di recitazione con allievi italiani e francesi. La pièce di Durif rappresenta forse il massimo della difficoltà per un traduttore. È un testo corale con molti personaggi, una sorta di vaudeville contemporaneo con dialoghi brillanti e alcune citazioni; le sequenze con i dialoghi sono alternate a dei bellissimi monologhi di carattere poetico pieni di riferimenti letterari e filosofici. La pièce è giocata interamente sulla critica fortemente sarcastica all’ambiente intellettuale francese, in particolare all’ambiente della riflessione sul teatro. La vicenda che costituisce l’impianto del testo ha luogo in una sala teatrale dove si prepara un evento (con dibattito e mise en espace) intorno a un testo teatrale.

Durante i lavori del laboratorio di Prima del Teatro, cui assistei nel luglio del 1997 avendo anche il ruolo di interprete, ebbi modo di confrontarmi con le difficoltà degli attori relativamente al testo e considerai questa esperienza molto utile per affinare il mio lavoro. Mi resi subito conto di alcune criticità della mia traduzione. In particolare venne fuori la problematica legata a uno dei personaggi secondari, il direttore tecnico. Questo personaggio ha nella pièce il ruolo di disturbatore dell’organizzazione della manifestazione che si sta preparando. La sua maniera di parlare, che fa uso esclusivamente di participi passati, è fortemente caratterizzante. Nella prima stesura della traduzione scelsi di farlo balbettare, ma durante il laboratorio ci rendemmo subito conto che non funzionava. Tuttavia durante le tre settimane dell’atelier non si riuscì a trovare un’altra soluzione al problema, e poiché la pièce non doveva andare in scena né essere pubblicata, i problemi che aveva posto quella traduzione rimasero per un bel po’ di tempo nel cassetto.

Molti anni dopo invece ho proceduto a una nuova stesura del testo italiano in vista della sua pubblicazione con il titolo Navi e naufragi (Durif 2005). La traduzione di questo testo si è svolta quindi in due tempi e la riflessione sull’opportunità o meno di operare dei micro-adattamenti è stata molto lunga e sofferta ed è passata prima attraverso il confronto con i giovani attori del laboratorio della scuola di San Miniato (per lo più studenti dell’Accademia Silvio D’Amico e di altre scuole di teatro europee nell’estate del 1997) e poi attraverso alcuni incontri con l’autore avvenuti a ridosso della pubblicazione.

In questi incontri l’autore ha posto alla mia attenzione non solo la problematica della strana lingua del direttore tecnico, ma anche la necessità di procedere al cambiamento dei nomi dei personaggi, alcuni dei quali erano stati da lui scelti linguisticamente, al momento della creazione del testo, per alludere a un certo mondo intellettuale francese legato alla riflessione sul teatro e in generale ai salotti letterari. Poiché la semplice trascrizione del nome del personaggio avrebbe tradito un’intenzione molto significativa dell’autore nella creazione del testo, la sottoscritta, non senza remore e tormenti interiori, ha deciso di procedere all’adattamento dei nomi cercando di aderire, per quanto possibile, ai propositi di Eugène Durif. In alcuni casi i nomi sono stati trasformati in italiano solo sulla base di un’assonanza linguistica; a esempio la regista Jeanne Vermont è diventata Laura Vermonti, l’organizzatore Pierre Lamont  Gianni Tremonti, l’attrice Bernadette Colinot  Elisa Colli. In altri due casi si è tenuto conto delle indicazioni forti dell’autore e si è cercato di operare una scelta che potesse avvicinare il cognome alle sue intenzioni allusive. In particolare il cognome, apparentemente normale, del personaggio del filosofo invitato René-Louis Ouvrard secondo Durif voleva alludere a colui che apre l’arte: ouvre art. Il nome italiano è quindi diventato Francesco Maria Artemisi. Il personaggio del drammaturgo nevrotico Hervé Ladance nascondeva nel suo cognome, sempre assolutamente plausibile in francese, la tendenza del personaggio a essere costantemente in movimento. Nel testo italiano il personaggio si chiama Giuliano D’Anzi. Inoltre i nomi di alcune persone, solo citate nei dialoghi, facevano riferimento a intellettuali francesi più o meno conosciuti, pertanto si è provveduto a trasformarli con dei nomi attraverso i quali un lettore italiano può facilmente risalire alla celebrità cui si vuole alludere (Amedeo Almeroni, Franco Rotondi, Sghembi, Mario Passalacqua).

Per chiudere il discorso della scelta dei nomi mi soffermo sul personaggio terribilmente negativo dell’organizzatrice di eventi culturali dell’Agenzia Pirate & Co, che in francese si chiama Jackie Appeau. Quando il personaggio si presenta, corregge spesso la pronuncia del suo nome:

Jackie: Ah, enchantée. Jackie, avec un K. Jackie Appeau. De “Pirate and Co” (Durif 1996).

Nella versione italiana ho scelto Gioanna Trilli. Il nome Gioanna permette infatti un gioco linguistico simile a quello del testo originale: il personaggio corregge continuamente le persone con cui parla che la chiamano Giovanna, molto più comune in italiano, e non Gioanna. Il cognome Trilli è invece stato scelto perché Durif mi diceva che il cognome Appeau aveva a che fare con le chiamate telefoniche (appel) o, in ogni caso, con qualche cosa di profondamente fastidioso come il trillo del telefono o di un campanello.

Infine, in ragione della sua differenza con gli altri personaggi, per il direttore tecnico ho scelto un dialetto romanesco particolarmente sgradevole; sarebbe meglio dire, per non offendere la lingua del Belli e di Trilussa, che il direttore tecnico non parla in romanesco ma nella lingua di chi tende a scoraggiare ogni iniziativa, di chi preferisce presentare solo regole e rivendicazioni piuttosto che la buona volontà necessaria a risolvere i problemi.

Sebbene l’intervento riguardi solo delle micro-strutture, inevitabilmente sostituire i nomi originali dei personaggi con dei nomi italiani significa trasportare la vicenda in Italia e quindi si può parlare di un adattamento vero e proprio. Tuttavia le dinamiche allusive e sarcastiche del testo non risultavano particolarmente legate al paese dell’autore ma erano assolutamente valide per ogni paese; pertanto questi micro-adattamenti dei nomi andavano nel senso delle intenzioni dell’autore. Nel caso dei nomi degli intellettuali solo citati nei dialoghi cui abbiamo accennato poc’anzi, i riferimenti risultano già adesso abbastanza datati, ma il rischio dell’invecchiamento di alcune scelte, in casi simili, non è unicamente del traduttore ma anche dello stesso autore.

2. Invecchiamento

Tali riflessioni ci conducono a affrontare il secondo punto della nostra discussione: l’invecchiamento delle traduzioni. Si tratta di un problema che non riguarda solo le opere teatrali ma ogni traduzione letteraria forse perché, come afferma Bogliolo in una sua analisi delle traduzioni di Les Fleurs du mal di Baudelaire:

la lingua delle traduzioni, che ha sempre l’orecchio rivolto al testo di partenza, resta anche nei casi migliori una lingua innaturale, forzata e condizionata da un modello estraneo alla sua più intima natura, e anche se i lettori contemporanei possono non accorgersene, basta qualche decennio a far risaltare questo suo peccato d’origine (Bogliolo 1991, 54).

Sulla problematica dell’invecchiamento i pareri sono molto discordi. Per alcuni registi è necessario ritradurre l’opera ogni volta che viene messa in scena. A tale proposito il regista francese Jacques Lassalle sostiene che:

ogni traduzione è testimone di una occasione e dei meccanismi che l’hanno suscitata; il suo destino – secondo Lassalle – raggiunge quello della messa in scena. Tutte e due sono datate, contingenti, gettabili a breve termine. A ogni epoca, la sua rappresentazione, a ogni rappresentazione la sua traduzione (Lassalle 1991, 87 [traduzione mia]).

Se le affermazioni di Lassalle possono risultare vere, o perlomeno condivisibili, per le opere antiche, quelle cioè non più soggette al diritto d’autore, esse sembrano meno evidenti per quanto riguarda il repertorio contemporaneo. In molti casi, infatti, per tutelare la loro opera, gli autori contemporanei stipulano con i traduttori dei contratti di esclusività per un numero relativamente elevato di anni. Il timore, per quanto criticato, è forse giustificato; in realtà quando una compagnia conferisce a un traduttore l’incarico di tradurre un testo, inevitabilmente lo influenza a prendere delle decisioni sulla linea interpretativa del regista. Talvolta le traduzioni effettuate in vista di uno spettacolo si rivelano quindi tendenziose, poco obiettive, viziate da un modello interpretativo.

D’altra parte alcune traduzioni di testi teatrali famosi cui sono stati conferiti i diritti esclusivi per troppi anni risultano datate e talvolta troppo legate al momento storico-culturale in cui sono state eseguite. In questi casi avviene il fenomeno contrario: è la traduzione a imporre una determinata linea di interpretazione scenica. Ecco perché a volte i registi ritengono necessario rinnovarla. In un certo senso le traduzioni che vengono effettuate oggi di opere di autori quali Shakespeare, Čechov, Ibsen etc. portano in sé una nuova idea della teatralità, probabilmente legata ai nuovi apporti della regia teatrale e della scrittura drammatica contemporanee.

3. Dialogo

Da questa riflessione passiamo a considerare il terzo punto: quello della traduzione del dialogo teatrale. Quando si parla di traduzione teatrale si insiste spesso sul carattere orale del dialogo drammatico, sul fatto cioè che le repliche non sono destinate alla semplice lettura ma devono anche essere proferite dagli attori, incarnate della parola degli interpreti. Si tratta certamente di un problema importantissimo, che riguarda la dicibilità degli enunciati, la sintassi e il ritmo della lingua adottata. Si parla però un po’ troppo poco di un altro aspetto, quello del carattere attivo della parola teatrale che dice, agisce, cambia i rapporti fra i personaggi.

Il dialogo costituisce la parte essenziale del testo drammatico. Le battute dei personaggi svolgono quasi tutte le funzioni previste da un testo di finzione: veicolano la catena delle azioni componenti la trama e assicurano al ricevente un’adeguata quantità di informazioni mantenendo sempre un’immagine di comunicazione verbale fra individui. Da una battuta all’altra la situazione comunicativa, che fa interagire due, tre, cinque o più personaggi, avanza, evolve, si blocca, procede lentamente etc.  Le battute hanno caratteristiche diverse: possono essere di natura prevalentemente diegetica, quando riportano ciò che avviene fuori della scena, oppure più mimetiche, quando sono unicamente funzionali allo scambio verbale, all’evolversi del contesto di comunicazione in cui si trovano i personaggi.

Proprio per questi motivi il lettore, e soprattutto il traduttore, deve tener conto dell’aspetto pragmatico del testo drammatico e dell’efficacia delle sue battute. Le battute del dialogo teatrale possono essere assimilate a atti linguistici: è importante quindi che il traduttore ogni volta si chieda a quale categoria di atto linguistico la battuta appartenga e quali siano i suoi effetti prendendo in considerazione le reazioni degli altri personaggi parlanti. Tali osservazioni sono capitali per tenere sotto controllo l’evolversi della situazione comunicativa in cui si trovano a interagire i personaggi e renderla correttamente nella lingua di arrivo. Talvolta il traduttore viene come influenzato dalle battute successive e anticipa così il senso, che nel dialogo originale viene svelato solo in un secondo momento. È questo il caso dell’esempio seguente, tratto da una pièce francese degli anni Settanta:

Wallace: Fumez-vous?
Fage: Merci je ne fume pas.
Wallace: Parce que vous aussi.
Fage: Vous aussi vous êtes arrêté de fumer?
Wallace: Il y a trois ans.
Fage: Moi aussi à peu près il ya deux ans et demi (Vinaver 1973, 13).

Wallace: Fuma?
Fage: Grazie non fumo più.
Wallace: Perché anche lei.
Fage: Anche lei ha smesso di fumare?
Wallace: Tre anni fa.
Fage: Anch’io sono circa due anni e mezzo (Repetti 1984, 29; sottolineature mie).

Nella versione italiana, a Fage viene attribuita la risposta breve ma comunque più esplicita «Grazie non fumo più» rispetto al Merci je ne fume pas del testo di partenza. Sono infatti le battute seguenti a determinare la scelta del traduttore. Il fatto che Wallace in passato abbia fumato viene, attraverso il sottinteso contenuto nella seconda battuta, anticipato rispetto alla sequenza dialogica originale.

Il traduttore ha la tendenza anche a completare il senso e in alcune circostanze quasi ad aggiungere dei veri e propri atti linguistici. Nel caso seguente tratto da Les Bonnes di Jean Genet, il traduttore inserisce una richiesta di scuse laddove la battuta di Solange consisteva in un semplice, e quanto mai freddo, atto direttivo:

Claire: Taisez-vous, idiote! Ma robe!
Solange, elle cherche dans l’armoire écartant quelques robes: La robe rouge. Madame mettra la robe rouge.
Claire: J’ai dit la blanche, à paillettes.
Solange, dure: Madame portera ce soir la robe de velours écarlate (Genet 1968-1976, 18-19).

Chiara: Zitta scema! Il vestito!
Solange, cerca nell’armadio scostando alcuni vestiti: Il vestito rosso. La signora si metterà il vestito rosso.
Chiara: T’ho detto quello bianco, a lustrini.
Solange, dura: Mi dispiace. La signora stasera indosserà l’abito di velluto scarlatto (Caproni 1971, 7; sottolineature mie ).

A differenza di quella narrativa, la conversazione drammatica lascia molti spazi all’interpretazione del lettore: tra la domanda di un personaggio e la risposta di un suo interlocutore può infatti esserci un’incompatibilità o un’ambiguità. In pratica alcuni enunciati contenuti nelle battute non sono completamente espliciti ma contengono dei sottintesi, delle allusioni che suggeriscono qualcosa senza dirlo, creando per così dire una temporanea sospensione del senso. Il traduttore deve vegliare affinché tali aspetti, eventualmente presenti nell’opera originale, non siano cancellati nel testo nella lingua di arrivo. Occorre chiedersi: chi parla? A chi? Perché? Se a queste domande è possibile rispondere talvolta solo attraverso un certo numero di ipotesi, è importante che tale incertezza si verifichi anche nel testo tradotto. I testi che si espongono maggiormente a questo genere di problemi sono le opere contemporanee costruite più sui non detti e sulle pause che su ciò che è veramente contenuto nelle battute. Anche nell’esempio seguente tratto da Suzanna Andler di Marguerite Duras, la traduttrice si è lasciata influenzare dalla conclusione dello scambio verbale fra i due amanti, che allude forse a qualcosa di diverso dell’oggetto di discorso esplicito:

Suzanna: On n’est plus allé à Deauville à cause de ça justement.
Michel, temps: Puis plus du tout nulle part?
Suzanna, temps imprévu: Non.
Michel: Depuis cinq ans?
Suzanna, temps: Non… Je te l’ai dit déjà?
Michel: C’est-à-dire… Quelquefois tu dis cinq ans, quelquefois sept ans.
Suzanna: Depuis neuf ans à peu près. Temps. Depuis la naissance d’Irène (Duras 1968, 21).

Suzanna: Abbiamo smesso di andare a Deauville proprio per questa ragione.
Michel, pausa: E dopo, mai più niente da nessuna parte?
Suzanna, pausa imprevista: Mai più.
Michel: Da cinque anni?
Suzanna: No… Te l’ho già detto?
Michel: Cioè… Dici qualche volta cinque anni, qualche volta sette.
Suzanna: Da nove anni circa. Pausa. Dopo la nascita di Irène (Ginzburg 1987, 15).

Il continuo tentennamento fra l’argomento esplicito (il viaggiare) e quello implicito alluso (l’amare), sintomo di grande contrasto sia fra i personaggi che all’interno di essi, è la caratteristica principale della sequenza. La risposta italiana di Suzanna, invece, un «Mai più» che traduce un semplice Non del testo originale, fa oscillare il dialogo troppo decisamente verso il senso alluso piuttosto che verso il senso riconosciuto dai due personaggi. Se risulta ambiguo nel testo originale, è bene che il senso rimanga tale anche per il lettore straniero.

Tutti gli esempi che ho evidenziato sono tratti da ottime traduzioni: ciò nonostante, il rischio di anticipare il senso o di esplicitare un qualcosa di ambiguo o poco chiaro è, come si è visto, sempre dietro l’angolo.

L’auspicio è che l’ambiguità o la sospensione del senso non venga esplicitata, non venga in qualche modo riempita, ma forse si tratta di un auspicio irrealizzabile. Si potrebbe obiettare che la traduzione impone delle scelte, scelte che tendono necessariamente a riempire i vuoti di senso creando così una prima opzione di messa in scena. Ci sentiamo comunque di sostenere, usando beninteso il condizionale, che il traduttore dovrebbe cercare di non completare mai il senso di una battuta, perché è proprio in questi spazi vuoti che può inserirsi l’interpretazione di colui che legge l’opera e soprattutto di colui che intende metterla in scena. Con le parole del regista Lassalle, che tanto ha riflettuto sull’argomento, direi: «tradurre vuol dire testimoniare, riflettere l’altrove del testo originale; mettere in scena vuol dire interpretarlo, appropriarsene, dargli corso» (Lassalle 1991-92, 87 [Traduzione mia]).

Bibliografia

Bogliolo 1991: Giovanni Bogliolo, Qualche riflessione in margine alle traduzioni italiane delle Fleurs du Mal, in «Annali della Scuola superiore per interpreti e traduttori Forlì», Anno 1, Fasc. 1

Caproni 1971: Giorgio Caproni, Le serve, Torino, Einaudi, 1971 (traduzione italiana da Jean Genet 1976)

Ciccolella 2005: Navi e naufragi, in «Sipario», n° 678, dicembre 2005 (traduzione italiana da Durif 1996)

Dialogo

Duras 1968: Marguerite Duras, Suzanna Andler, in Théâtre II, Paris, Gallimard, 1968

Durif 1996: Eugène Durif, Nefs et naufrages, Paris, Théâtre Ouvert, 1996

Genet 1976: Jean Genet, Les Bonnes, Paris, Gallimard (I edizione  Décine, L’Arbalète, 1963)

Ginzburg 1971: Suzanna Andler, Torino, Einaudi, 1971 (traduzione italiana da Duras 1968)

Lassalle 1991-92: Jacques Lassalle, Hé bien! Te voilà traître…, in «Les Cahiers de la comédie française», 2

Povod 1986: Reinaldo Povod, Cuba and His Teddy Bear, New York, Samuel French, 1986

Repetti 1984: Carlo Repetti, La domanda d’impiego, in Teatro minimale, Genova, Costa & Nolan, 1984 (traduzione italiana da Vinaver 1973)

Vinaver 1973: Michel Vinaver, La Demande d’emploi, Paris, L’Arche, 1973