SULL’ETICA DISCRETA DELLA TRADUZIONE
di Gaetano Chiurazzi
Il sogno di qualsiasi traduttore è riuscire a tradurre senza dover inserire una nota esplicativa: quando si legge un testo tradotto, la Nota del traduttore ci avvisa sempre che il traduttore è lì a mettere le mani avanti, a dire che ha fatto del suo meglio, ma c’è qualcosa che non è riuscito a fare. La nota del traduttore è, per il traduttore, l’ammissione di una sconfitta, di una defaillance. Essa ci dice che ogni traduzione è sempre imperfetta. Da questo punto di vista, le note del traduttore – anche quelle piccole disseminate in un testo, in cui si precisa che un termine è stato tradotto in un certo modo, ma non si è potuto renderlo in tutta la ricchezza semantica dell’originale, di cui si dà conto, appunto, in nota – sono un po’ come la concretizzazione del senso di colpa del traduttore: del suo bisogno di chiedere scusa all’autore se non ha potuto essergli del tutto fedele, se lo ha tradito, di un tradimento, peraltro, inevitabile. O forse di giustificarsi con i suoi colleghi, per le sue scelte: cosa che ridurrebbe però la nota a un terreno di scontro tra traduttori specialisti che, tra l’altro, sarebbero i meni interessati a leggere quel libro in traduzione, potendolo leggere tranquillamente nell’originale. La nota del traduttore ha senso invece solo se è rivolta al lettore: è lui che ne ha bisogno, è a lui che il traduttore deve chiarire che cosa ha scritto, e che cosa non ha potuto scrivere.
Che il traduttore senta il bisogno di inserire delle note dice quindi molto bene qual è la sua posizione, il suo ruolo, e il suo compito nella traduzione. Un lettore legge il testo tradotto come fosse scritto nella sua lingua e nulla sa del testo originale. Non potrebbe quindi avere alcun sentore di ciò che invece una nota del traduttore gli lascia intendere. Il lettore non sa nulla della differenza che separa l’originale dalla traduzione. Potrebbe benissimo leggere un testo senza note del traduttore, e non aver alcuna consapevolezza dell’avvertimento che queste note contengono. Il traduttore, invece, conosce questa differenza e ne ha consapevolezza: egli conosce infatti entrambe le lingue e può pertanto misurare questa differenza. Le note del traduttore dicono al lettore che questa differenza è incommensurabile. Se il traduttore non ha potuto rendere completamente il testo d’origine nella lingua d’arrivo è perché ha dovuto fare i conti – dei conti che non si azzerano così facilmente – con una differenza ineliminabile.
Se il traduttore sente l’esigenza di questo avvertimento di non aver potuto rendere appieno questa differenza, è perché essa è rimasta appunto tale: una differenza. E, come tale, essa non ha potuto dirsi nella lingua d’arrivo. Al lettore tutto questo non può che sfuggire, se non fosse per quelle spie che sono le note del traduttore. Queste spie sono l’unico modo in cui la differenza può dirsi nella lingua d’arrivo: a margine del testo, si dice che c’è un resto che non ha potuto entrare nel testo.
Queste considerazioni su quell’avvertimento linguistico che è la nota del traduttore hanno un profondo significato anche da un altro punto di vista: perché la nota del traduttore ci dice in maniera forte e chiara qual è il grande compito etico del traduttore. Se il sogno di ogni traduttore è quello di tradurre un testo senza dover inserire alcuna Nota del traduttore, il fatto che in realtà ciò non sia possibile – o che spesso non possa essere evitato – ci dice che il grande compito del traduttore è quello di salvaguardare la differenza tra le lingue. Per il lettore questa differenza non è percepibile: con la sua nota, il traduttore la rende visibile.
In effetti, che ci sia una differenza tra le lingue, è qualcosa che solo il traduttore può cogliere: conoscendo bene entrambe le lingue, può avvertire tutte le loro sfumature che le rendono diverse, non omologabili. Quando si dice che due lingue – o delle espressioni di due lingue diverse – sono incommensurabili non si vuol dire che esse siano incomunicabili: si vuol dire anzi che esse sono comprese per quel che sono, cioè diverse. Che si comprende la loro differenza. Incommensurabilità non significa inconfrontabilità: anzi, si può capire che due grandezze sono incommensurabili solo se le si confronta. L’incommensurabilità, piuttosto, significa che una non può essere commisurata completamente all’altra, cioè non può essere ridotta, o eguagliata, all’altra. Questa comprensione è il grande privilegio del traduttore, che egli non può condividere con il lettore se non attraverso la sua N.d.T.: la quale diventa, così, non il segno di una sua defaillance, ma il segno del suo compito etico fondamentale, quello di trasmettere il senso della differenza. Solo una concezione superficiale e omologante può considerare la Nota del traduttore un vezzo da evitare, o un’ammissione di inadeguatezza da parte del traduttore. Meglio non confessarla. Ma il punto è che così facendo, il traduttore tradisce il suo compito ultimo: che non è quello di “far leggere” un testo come se fosse scritto nella lingua del lettore, ma di far capire che non è stato scritto in quella lingua, cosa che la Nota del traduttore sta lì a ricordare. Essa è l’avvertenza che non c’è solo la nostra lingua: ce ne sono altre, e possono anche essere molto diverse dalla nostra.
Per questa loro posizione intermedia tra due lingue, i traduttori svolgono perciò una funzione etica e culturale di primaria importanza: quella di comprendere la differenza tra le lingue e di valorizzarla come tale. Nel dialogo platonico Teeteto, nel momento in cui si dà una possibile definizione del logos, Socrate, dopo averne presentate altre due, dice che il logos è «comprendere la differenza». Non si può dire di conoscere davvero il sole se si dice semplicemente che è un astro: si deve dire che è l’astro più grande, dire cioè anche la sua differenza rispetto agli altri astri. Il termine greco che viene usato per esprimere questa capacità è hermeneuein: si tratta di uno dei rari luoghi in cui il verbo hermeneuein compare nei dialoghi platonici, una parola che viene tradotta con «interpretare», «esprimere», «comunicare», «comprendere» ma anche «tradurre». L’ermeneutica è la disciplina generale della comprensione, in tutte le sue forme, linguistiche e non, di cui l’interpretazione e la traduzione sono forme particolari, e il cui oggetto è proprio la differenza: non l’uniformità, che si coglie nelle spiegazioni scientifiche che tentano di ricondurre un fenomeno a una legge, ma la differenza. Il traduttore è in questo senso un “ermeneuta”: comprende la differenza, e nella sua opera di comunicazione – di trasmissione – deve esprimere questa differenza. Molti filosofi, che erano anche traduttori (Hölderlin, Schleiermacher, Benjamin), hanno teorizzato che questa differenza dovesse dirsi tramite un’operazione di contorsionismo della lingua d’arrivo, che si flette e si distorce per dire quel che della lingua d’origine non potrebbe altrimenti essere detto. La Nota del traduttore evita questo contorsionismo: rispetta la lingua d’arrivo, ma ne dice un limite, fa vedere quel che essa non ha potuto accogliere, ma che è comunque possibile comprendere.
I traduttori – la cui opera è ingiustamente svilita a livello professionale, proprio perché non se ne capisce la vera funzione etica e sociale – sono così dei “difensori della differenza”: lo sono proprio perché parlano più lingue, e sono perciò in grado di capire quella differenza che il monolingue non è in grado di comprendere. Se c’è allora un’etica della traduzione, nel senso soggettivo del genitivo, questa è l’etica che insegna il rispetto della differenza. Per molto tempo – lo si fa ancora oggi – si è pensato che la soluzione ai conflitti sociali e politici potesse venire dalla costruzione di una lingua universale (un’operazione imperialistica che deriva dal pensare Babele come una punizione, una “seconda caduta”, secondo l’espressione di Bacone), una soluzione che d’altronde difficilmente riuscirebbe a evitare l’insorgere di nuove differenze (dialetti, diversità di interpretazione anche all’interno di uno stesso idioma, ecc.). Di fronte a questa soluzione utopica, il traduttore insegna che la differenza è inevitabile. E che le differenze non dividono: uniscono, non nella maniera di una commensurabilità sostanziale, ma creando tra le lingue quello stesso rapporto di continuità che c’è tra padre e figlio, un rapporto fatto di identità e di inevitabili differenze. In questo senso Walter Benjamin, nel suo noto testo sulla traduzione (Die Aufgabe des Übersetzers, 1921 – Il compito del traduttore, in Walter Benjamin, Angelus novus, a cura di Renato Solmi, Torino, Einaudi, 1976, pp. 37-52) parlava di una «parentela» tra le lingue: di un rapporto, cioè, che non può essere pensato nella forma della inclusività sostanziale, che è la forma logica e ontologica della commensurabilità, ma nella forma dinamica, si potrebbe dire persino organica, della vitalità. La Nota del traduttore, per quanto ciò possa apparire paradossale, è perciò il gesto etico più alto che un traduttore possa fare: non come ammissione di una sconfitta, ma come difesa della verità della differenza.